DON ANTONIO

lunedì 26 settembre 2011

16.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

b) L'errore e l'illusione.
I) San Tommaso è severo nei confronti dell'errore: «Errare, significa
approvare come vero ciò che è falso. Ciò suppone un atto... L'errore è
manifestamente un peccato: pronunziarsi su ciò che si ignora, soprattutto
in materie pericolose, è effetto di presunzione» (17).
San Tommaso a questo punto pensa meno all'eredità di errori che ci
trasmette l'educazione che agli spiriti la cui temerità apre agli altri le vie
della seduzione. L'intelligenza è fatta per il vero come l'occhio per la luce;
è impossibile per lei attaccarsi alla pura tenebra: essa aderisce all'errore in
virtù di una verità sotto la quale questo si nasconde.
La mescolanza di un'intuizione primordiale vera, ma che prende in
prestito per esprimersi una concettualizzazione deficiente, può avere, se
essa si realizza all'inizio di un potente movimento di pensiero, delle
conseguenze catastrofiche. «Nel centro di tutti i grandi sistemi filosofici -
come Bergson ha osservato in un suo famoso passo - c'è un punto di vista
molto semplice ed inesauribile che un giorno ha colmato lo spirito di
certezza. In ogni grande filosofo ed in ogni grande pensatore esiste
un'intuizione centrale che, in se stessa, non inganna. Ma tale intuizione si
può concettualizzare, ed effettivamente, in un gran numero di casi, essa si
concettualizza in una dottrina errata, forse dannosa» (18).

Pensando al fatto che Carlo Marx disconosce inizialmente la ricchezza
analogica dell'essere, George Cottier scrive: «Se noi abbiamo parlato di
opzione, quando si tratta di un certo punto di vista primitivo
dell'intelligenza riguardo all'essere, è perché pensiamo che un punto di
vista autentico riveli la generosità naturale dell'essere; se l'avarizia sembra
congenita all'essere, è perché un'opzione propriamente morale ha
interferito con l'intuizione primordiale. L'intelligenza e la volontà si
coinvolgono fra loro: le decisioni di questa possono proiettare sulla pura
trasparenza di quella del fasci di ombre, che successivamente
accompagneranno il pensiero di tutte le sue iniziative successive...
Sostenere che la creazione non è possibile perché si oppone alla volontà di
autonomia: questo è un postulato» (19).

Con quali riserve possiamo parlare di opzione nell'afferrare le prime
verità? Ecco a tal proposito le precisazioni di Olivier Lacombe: «Questa
espressione è pericolosa, perché sembra sottintendere che la libertà di
ciascuno (ma la libertà in un senso volontario ed arbitrario) opti per questo
o per quel punto di vista come se in questo caso fosse la volontà che detta
all'intelligenza ciò che essa deve vedere. Orbene, questo non è possibile.
Ma opzione ha un senso a causa della condizione umana, perché la ragione
umana, l'intelligenza umana non è un'intelligenza divina, e neppure
un'intelligenza angelica. La ragione umana non è, checché ne pensino gli
idealisti, trasparente a se stessa; inoltre, e questo è più grave, non soltanto
non è costantemente trasparente a se stessa in tutte le sue iniziative, ma è
determinatamente oscura a se stessa nella prima iniziativa decisiva con la
quale incomincia la sua dottrina. Ecco la radice della relatività del pensiero
umano. E se la grazia non se ne interessa, ci si può domandare in realtà se
mai vedrà la luce una filosofia che abbia sufficiente presa sulla realtà per
non essere una filosofia incompleta e parziale. La prima intuizione di tutti i
principi, il punto di partenza di ogni filosofia stagna nell'incosciente, nel
precosciente. Quel momento non è trasparente allo spirito stesso del
filosofo, ed è il punto di partenza sul quale deve edificare, e contro il quale
non può nulla. Allora si può parlare di opzione, perché l'influenza del
fattori individuali ha qui una parte importante; non credo che sia
sufficiente per distruggere e per snaturare in noi la ragione, ma è
sufficiente per rendere inevitabile, nella condizione umana, la pluralità in
discutibile delle filosofie» (20).

2) Ciò che abbiamo detto riguardo alle filosofie è ancora più tragicamente
vero riguardo alle grandi religioni aberranti ed ai dissidi cristiani. I fautori
degli scismi si sono valsi, all'inizio, di qualche grande concezione cristiana
alterata (21). Alla fine, si sono lasciati trasportare dalle loro illusioni e
dalle false speranze messianiche, contro le quali il Salvatore stesso ci ha
messo in guardia (Mt., XXIV, 23). Essi hanno lasciato in eredità ai loro
discepoli non certamente i peccati di scisma o di eresia, che sono sempre
personali, e quindi non trasmissibili, ma un patrimonio di confusioni, di
malintesi, di errori che, con l'andar del tempo, hanno potuto diventare per
costoro invincibili e perciò non colpevoli.

c) L'ignoranza invincibile.
I) L'ignoranza, anche se invincibile, è causa di mali incalcolabili.
Pensiamo (22) al numero immenso di uomini in buona fede, di giusti che
non hanno respinto nei loro cuori gli inviti divini e che perciò
appartengono già invisibilmente e spiritualmente al Cristo e che
costituiscono la ~ nel suo stato iniziale, imperfetto, tendenziale, ma nei
quali del malintesi, per essi insormontabili, ostacolano il movimento
spontaneo della grazia ed impediscono di raggiungere l'unico luogo in cui
essa potrebbe svilupparsi in pieno. Visibilmente e corporalmente, essi
appartengono a formazioni religiose più o meno gravemente deficienti, alle
religioni precristiane, al bramanesimo o buddismo, o all'islamismo o al
giudaismo. In un tempo più vicino a noi, appartengono a quelle forme di
dissidio che sembrano avere distrutto l'unità divina della Chiesa e diviso la
sua essenza indivisibile. Quale strazio, quale scandalo (23)!

Esso cesserà prima della fine del mondo? Forse tutti i giusti si
raccoglieranno un giorno visibilmente e corporalmente nel Cristo e nel suo
gregge affidato a Pietro, per far fronte ai terribili attacchi di Gog e di
Magog? (24). Le parole del Salvatore permettono di sperarlo, ma non lo
dicono espressamente. Egli, per indicare che la Chiesa strariperà
immediatamente dal mondo degli Ebrei sul mondo del Gentili, e che i
fedeli di quei due mondi non formeranno più che un solo popolo,
annunzia: «Ho ancora delle altre pecore che non sono ancora di questo
ovile; anche quelle io devo condurre; esse ascolteranno la mia voce; e ci
sarà un solo gregge ed un solo pastore» (Gv., X, 16) (25). Quanto alla
grande preghiera nella quale Gesù chiede che i suoi discepoli siano come
uno solo: «Come Tu, Padre, sei in me ed io in Te, che essi siano uniti in
noi, affinché il mondo creda che Tu mi hai mandato» (Gv., XVII, 21),
bisognerà pensare che essa non è ancora esaudita, che non lo sarà se non
quando tutti i giusti del mondo saranno un giorno riuniti visibilmente e
corporalmente intorno al Cristo ed al suo Vicario sulla terra? Noi crediamo
invece che quella preghiera sia infallibilmente esaudita, dal giorno della
Pentecoste, là dove il Salvatore stesso tocca gli uomini col contatto del
poteri sacramentali e giurisdizionali, e versa in essi la grazia sacramentale
ed orientata, cioè la grazia pienamente cristica e cristo conformante, con
l'intenzione di fare di essi, per vocazione, non soltanto del membri salvati
per il Cristo e nel Cristo, ma anche, se gli sono fedeli, del membri
salvatori degli altri uomini per il Cristo e nel Cristo.

Crediamo inoltre che, in ragione delle grazie segrete suppletive, che
attirano al Cristo ed alla sua Chiesa «ogni uomo che viene in questo
mondo», la stessa grande preghiera per l'unità è ancora realizzata, ma
questa volta in un modo incoattivo, in tutti i giusti che incominciano ad
appartenere invisibilmente e spiritualmente al Cristo, e nei quali la Chiesa
esiste come atto iniziale e tendenziale. Ma più si crede alla realtà, alla
estensione, allo splendore della Chiesa così costituita nel suo atto
tendenziale, più anche si soffre al pensiero di tanti uomini di buona
volontà cui è impedito di vedere la pienezza della Chiesa, perché «un velo
è posato sul loro cuore» (II Cor., IV, 15). Il male è peggiore di quanto
s'immagina: «A coloro che pretendono che gli uomini colti non hanno la
scusante dell'ignoranza invincibile», Newman confidava a Gérard Manley
Hopkins «che essi hanno invece questa scusante più di chiunque altro»
(26).

Quale risurrezione per il mondo intero, se, improvvisamente, la Chiesa in
atto tendenziale potesse passare, con tutte le sue risorse, nella luce piena
della Chiesa in atto compiuto; se ciò che san Paolo annunzia riguardo ad
Israele, cioè che non è stato soppresso se non temporaneamente, e che un
giorno sarà reintegrato (Rom., XI, 12-15), potesse valere per tutti i dissidi e
per tutti i giusti della terra! Ma forse questo è soltanto un sogno. Forse
avremo ancora bisogno a lungo di essere rimproverati da avversari, molti
del quali potranno essere in buona fede, perché impariamo a non
confondere le nostre abitudini e le nostre strettezze di spirito con quella-
e1iiesa senza macchia né ruga alla quale abbiamo dato il nostro cuore, ma
nella quale siamo ben lungi dall'essere totalmente assorbiti; perché non ci
addormentiamo sul tesoro delle verità che ci vengono affidate, perché ci
ricordiamo, come gli Ebrei al tempo di Gesù, che «molti verranno
dall'Oriente e dall'Occidente ed avranno il loro posto al festino con
Abramo, Isacco e Giacobbe, nel regno del cieli, mentre i figli del re
saranno respinti nelle tenebre eterne» (Mt., VIII, 11-12).


Soltanto più tardi, nella Patria, tutte le ignoranze saranno abolite. Pascal
scrive: «Non è quaggiù il paese della verità, essa erra sconosciuta fra gli
uomini. Dio l'ha coperta con un velo che la lascia ignorata da coloro che
non odono la Sua voce» (27). Siamo noi, ahimè, che la copriamo con un
velo, che può lasciarla ignorata anche da coloro che incominciano ad udire
la voce di Dio.

2) Se l'errore può non essere colpevole, sarebbe invece colpevole se ci si
valesse degli errori per disperare della verità. Abbiamo osservato poco fa
che la pluralità di fatto delle filosofie, anche cristiane, non può essere
elevata ad una pluralità di diritto, e che la contingenza dell'invenzione
filosofica «è piuttosto il segno della debolezza umana che della libertà
degli spiriti» (28). La stessa osservazione è stata fatta sul piano delle
teologie: «Quella diversità non è un bene in sé, una ricchezza intrinseca,
anche se si tiene conto della nostra natura umana e della natura della nostra
intelligenza umana. Essa è il prezzo delle debolezze della nostra
intelligenza colpita dal peccato, e delle contraddizioni extra-razionali che
trasciniamo in ogni ricerca speculativa» (29). Non perdiamo di vista il
detto di Pascal: «Coloro che non amano la verità, colgono un pretesto dalla
contestazione e dal gran numero di coloro che la negano; e così il loro
errore deriva soltanto dal fatto che non amano la verità o la carità. E così
non ne sono scusati... Molte cose certe vengono contraddette. Molte cose
false si lasciano passare senza contraddirle. Né la contraddizione è indizio
di falsità, né la non-contraddizione è indizio di verità» (30). Egli fa eco
alle parole di san Paolo su «coloro che imparano sempre senza poter mai
giungere alla conoscenza della verità» (II Tim., III, 7) (31).

Ci rendiamo poco conto del male che l'errore fa in ciascuno di noi, e della
misura nella quale ne siamo responsabili. Una quantità di giudizi pratici
che formuliamo riguardo a noi stessi, ai. nostri rapporti con il prossimo,
alle cose divine ed alle loro esigenze, per mezzo del quali ci
tranquillizziamo, sono ispirati dal nostro egoismo, dal nostro amor proprio,
dal nostro istinto di difesa, dalle nostre viltà. Anche le verità più alte, alle
quali siamo attaccati, quando cessano di essere guardate con un cuore
abbastanza puro, perdono la loro trasparenza. L'abitudine nasconde sotto il
segno lo splendore del significato. Di qui le parole di san Giovanni della
Croce: «Cerca di essere contento, non di ciò che comprendi di Dio, ma di
ciò che non comprendi ancora in Lui. In questo consiste cercare Dio nella
fede» (32).

3. IL MALE DELLA TENTAZIONE E DELLO SCANDALO
La tentazione non è un effetto del peccato originale: essa è comparsa nel
paradiso terrestre. Ma successivamente è divenuta più potente: commuove
la nostra sensibilità ferita ed agita le nostre passioni.

a) La tentazione del primo uomo.
Perché la tentazione del primo uomo? Era necessaria ? Bisognava che Dio
permettesse una prova così funesta?

I) La prima osservazione da fare è che la tentazione non era fatale. Finché
lo spirito dell'uomo rimaneva sottomesso a Dio e le sue passioni
rimanevano sottomesse alla sua ragione, nessun conflitto, nessun
turbamento sensuale poteva nascere in lui (33). Il primo peccato non
poteva essere che spirituale, doveva incominciare con una rivolta contro
Dio. L'unica possibilità del demonio era di agire con la persuasione, la
suggestione (34).
La decisione era lasciata interamente al libero arbitrio dell'uomo.
La suggestione del demonio non presupponeva nel primo uomo alcuna
complicità preliminare, non provocava in lui né sorpresa, né smarrimento.
Questo ci ricorda san Tommaso. quando dice che essa rimaneva esterna,
che non aveva carattere penale, e che era facile da respingere (35). Da un
lato, in quanto puramente esterna, assomigliava alla tentazione di Gesù nel
deserto. Ma sotto altri aspetti ne differiva profondamente: se, infatti, la
sfida con il Principe di questo mondo non era in grado di provocare nel
Salvatore alcun turbamento, è impossibile tuttavia che un simile incontro
non sia stato per Lui causa di un'indicibile sofferenza; perciò, il mistero
della Tentazione, che apre la sua vita pubblica, assomiglia al mistero
dell'Agonia che la chiude.

2) La suggestione del demonio era così poco fatale che la alternativa di
dover preferire definitivamente l'adorazione o la rivolta avrebbe potuto
presentarsi spontaneamente al primo uomo, indipendentemente da
qualunque intervento esterno, come del resto è accaduto per l'angelo.
Tuttavia, senza essere decisivo, tale intervento è stato efficace. Non
avrebbe potuto essere impedito? Sì, Dio poteva fare un miracolo: poteva
con la Sua grazia rendere il primo uomo esente dal peccato; poteva nella
Sua bontà infinita fare un altro mondo; poteva anche nella Sua bontà
infinita fare il mondo che ha fatto. E allora «era nella condizione della
natura umana di entrare in società con le altre creature, di poter essere da
esse aiutata o coI1trariata. Cosicché conveniva che nello stato d'innocenza,
Dio, da una parte permettesse che il primo uomo fosse tentato dagli angeli
cattivi, e che, da un'altra parte, disponesse affinché fosse soccorso dai
buoni» (36). Tenendo conto del regime richiesto dalla natura degli esseri
liberi che noi siamo, era bene che noi fossimo lasciati alla decisione della
nostra propria volontà, secondo le parole dell'Ecclesiastico (XV, 14): «E'
Lui che al principio ha fatto l'uomo e lo ha lasciato alla sua decisione»
(37).

3) La tentazione proposta al primo uomo era ambivalente: poteva dar
luogo ad un atto di fedeltà, ad un. progresso nell'amore. A ciò si risponde:
«Ma Dio sapeva già che Adamo avrebbe peccato!». No, Dio non lo sapeva
prima, lo vedeva da tutta l'eternità. Il piano eterno non è fatto prima: Dio,
che conosce tutte le cose non per previsione o per ricordo, ma per pura
visione, non lo ha stabilito se non tenendo conto da tutta l'eternità del liberi
rifiuti delle Sue creature (38). Ed è pure da tutta l'eternità che Dio decide
di rimediare alla follia della rovina originale con la fama dell'incarnazione
redentrice.

b) Il carattere penale delle nostre tentazioni.
A differenza di quella dell'Eden, le tentazioni che noi conosciamo hanno
un carattere penale.
Esse possono venire dalla perversità del demonio o dagli uomini che
cercano di sedurci.
Possono nascere anche, dice sant'Agostino, dalla sola bellezza delle cose,
che è un dono di Dio e che perciò è un bene; bellezza che può essere da
noi amata bene o male: bene, se l'ordine è salvaguardato, male, se l'ordine
è sovvertito (39).
Esse possono spingerei alla rivolta contro le ingiustizie e le disgrazie che
ci opprimono.
Esse possono, ed è in questo, secondo Kierkegaard, che consiste la loro
terribile seduzione, prendere la forma di ciò che si chiama angoscia, cioè
di quell'inesplicabile attrattiva che esercita l'ignoto, di quel desiderio di
oltrepassare almeno una volta le frontiere della zona proibita, esplorare
l'infinità degli abissi del male, onde dimenticare un momento,
nell'ebbrezza del pericolo e dell'avventura, i nostri limiti e la nostra
inguaribile miseria (40).
In ogni caso la tentazione trova nella nostra natura ferita delle complicità
segrete, essa agita le nostre passioni, turba il nostro giudizio, rompe la
nostra unità. Finché lottiamo contro di essa e le rifiutiamo il consenso del
nostro libero arbitrio, essa non può costituire peccato, può anzi essere
occasione di progresso nella fedeltà e nell'amore: «Ci vantiamo delle
tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione genera la costanza, la
costanza una virtù provata, la virtù provata la speranza...» (Rom., V, 3-4).
Però quelle tentazioni non sono senza rischi, senza pericoli; sono delle
grandi miserie, che non esistevano nell'integrità del paradiso terrestre e che
non esisteranno nell'al di là.

c) Le tentazioni «fatali».
Ci sono delle tentazioni che, una volta che le abbiamo lasciate penetrare in
noi, sono fatali. Esse fanno impazzire le passioni, hanno il potere d'una
forza elementare, respingono le resistenze troppo tardive del libero
arbitrio. San Tommaso pensa alle passioni dell'amore e dell'ira (41). Ve ne
sono delle altre, come l'ambizione o anche la gelosia, che torcono le anime
come si piega con il fuoco una sbarra di ferro arrugginita. Pensiamo ad
Otello: pensiamo ancora più profondamente a Giuda. E' stato detto «che
egli era ladro e che, tenendo la borsa, rubava ciò che vi metteva dentro»
(Gv., XII, 6). Ma più tardi, quando Gesù sarà scomparso, getterà i trenta
denari attraverso al santuario (Mt., XXVII, 5). L'avidità di denaro non
basta per spiegare la sua tragedia, ma, a quanto pare, esisteva in lui una
qualche misteriosa gelosia: gelosia di vedersi preferito un altro discepolo?
O forse gelosia del Cristo stesso?

Perché lo spettacolo di mali così terribili che possono abbattersi
improvvisamente su ciascuno di noi? Troviamo una prima risposta
nell'avvertimento del Vangelo: «Vegliate e pregate per non entrare in
tentazione» (Mt., XXVI, 41). E noi sappiamo che Dio non viene mai a
raccogliere dove non ha seminato.«Dio - dice sant'Agostino - non comanda
l'impossibile, ma il Suo comando invita a fare ciò che tu puoi ed a pregare
per ciò che non puoi fare» (42). Il Concilio di Trento aggiunge: «Egli aiuta
a potere, e (I Gv., V, 3), i suoi comandamenti non sono pesanti» (43).
Si parla per la fine del tempi di tentazioni capaci di sedurre, se fosse
possibile, gli stessi eletti (Mt., XXIV, 24). Ma è pure detto che si
perderanno soltanto quelli che «non hanno accolto l'amore della verità che
avrebbe loro concesso la salvezza» (II Tess., II, 10). Santa Teresa di
Lisieux si augurava di affrontare queste terribili prove (44).

d) Lo scandalo.
Lo scandalo è causa di rovine spaventose. C'è lo scandalo degli adulti che
può causare in essi delle ferite inguaribili. C'è lo scandalo di una fanciulla
che ripeteva nel suo delirio che aveva «ucciso Dio», e che minacciava,
nella sua impotenza, Stavroghin col suo piccolo pugno, prima di andare ad
impiccarsi in uno stanzino vicino ai camerini (45).
Ci sono i grandi scandali collettivi della fine del mondo: «Allora se vi si
dirà: " Ecco questo è il Cristo!", oppure: " Eccolo là! ". Non credete
affatto. Sorgeranno infatti del falsi cristi e del falsi profeti che faranno del
grandi segni e del prodigi, al punto da sedurre, se fosse possibile, gli stessi
eletti» (Mt., XXIV, 23-24). Allora sarà troppo tardi per pensare a
prepararsi, bisognerà trovarsi pronti: «Beati quei servitori che il padrone al
suo ritorno troverà fedeli a vegliare» (Lc., XII, 37).

Non è questo il tempo della gloria, ma quello delle domande: di quelle che
il nostro cuore, a causa degli scandali, rivolge continuamente a Dio; di
quella, unica e decisiva, che Dio rivolge a ciascuno di noi, collocandolo,
ma con la Sua grazia, in seno ad un mondo che gli scandali sembrano
sommergere. Ma gli scandali non potranno mai soffocare l'amore: nelle
grandi anime provocano la sua fiamma.
«Guai al mondo, a causa degli scandali! E' fatale, senza dubbio, che
avvengano degli scandali, ma guai all'uomo a causa del quale lo scandalo
avviene!» (Mt., XVIII, 7). Chi potrà mai dire ciò che vi era nell'anima del
Salvatore, di dolore e di amore intenso, da una parte, per la gloria di Dio, e
dall'altra, per la povera umanità, quando ha pronunziato quella terribile
maledizione contro gli autori di scandalo!

e) La tentazione del suicidio.
Vi sono degli esseri che sembrano nati troppo deboli per sopportare il peso
della miseria o della sofferenza morale che si accumula su di loro, e che
finiscono col suicidio. Una certa giovanetta, fedele cristiana ma
angosciata, sostegno della vecchia mamma, un mattino, al momento di
uscire per recarsi al lavoro, s'impicca alla maniglia della finestra; nel suo
letto si trova la sua corona del rosario. Senza dubbio, la fede teologale per
se stessa è più forte di tutti gli scoraggiamenti, e, quando s'impossessa di
un soggetto per farlo passare attraverso alle prove di ciò che san Giovanni
della Croce chiama la notte del sensi, dissipa radicalmente tutte «le
malinconie». Ma, anche se vera, anche se amata, la fede non è ovunque
radicata così profondamente: non sempre è sufficiente ad evitare la
nevrosi. Essa ne previene molte, certamente, ed aiuta a sopportare
santamente le altre, come si sopporta la tisi o il cancro. Ma accade,
talvolta, che l'intensità della disperazione possa far vacillare la ragione al
punto da rendere innocente agli occhi del Dio di misericordia, che penetra
nei cuori, un tale suicidio. Eppure, anche agli occhi della filosofia, il
suicidio è in sé una follia (46). E quanto maggiormente è follia agli occhi
della fede? «All'uomo che soffre e che subisce la tentazione del suicidio,
possiamo dire soltanto questo: "Ricordati ciò che hanno sofferto il Cristo
ed i martiri. Devi portare la tua croce come loro. Non cesserai di soffrire,
ma la croce stessa della sofferenza ti diverrà dolce per una forza
sconosciuta che viene dal centro dell'amore divino. Non devi ucciderti,
perché non devi buttare la croce: ne hai bisogno. Domanda anche alla tua
coscienza se sei veramente innocente. Troverai che, se sei forse innocente
di una cosa che il mondo ti rimprovera, sei colpevole sotto mille altri
aspetti. Sei un peccatore. Se il Cristo, che era innocente, ha sofferto per gli
altri, e, come dice Pascal, ha versato anche per te una goccia del suo
sangue, tu, peccatore, avrai forse il diritto di rifiutare la sofferenza? Forse
è una specie di punizione. Ma la punizione divina ha questo di specifico e
di incomparabile, che non ha in sé nulla della vendetta, e che è
purificatrice per la sua stessa essenza. Chi si ribella contro di lei, si rivolta
veramente contro il senso stesso della sua vita". Non c'è alcun dubbio che
quaggiù non c'è giustizia. Esseri mostruosi fanno una riuscita
meravigliosa, e nessuno soffre più del santi. Affrontiamo qui il mistero
dell'iniquità che è precisamente collegato a quell'altro mistero (e cioè, che
il senso della vita per il cristiano si realizza nella sofferenza ed attraverso
alla sofferenza).L'uomo, come abbiamo detto, è un essere che può
uccidersi e che non lo deve fare. Tale affermazione assume ora un senso
più preciso. Esiste la tentazione ed anche il rifiuto. Quando questo è
autenticamente cristiano, manifesta un atto di amor di Dio e della
sofferenza, non come sofferenza in sé, poiché è impossibile (l'algofilìa è
patologica, il Cristo stesso ha esitato di fronte all'ultima sofferenza ed ha
pregato Dio di risparmiargliela) ma della sofferenza in quanto essa
racchiude in sé un rimedio voluto da Dio» (47).

f) Le prove mistiche.
Esistono altre tentazioni misteriose, straordinariamente penetranti e
dolorose, che Dio riserva ai suoi servitori più fedeli, quando desidera
purificare radicalmente la loro intelligenza attraverso alla fede, la loro
memoria attraverso alla speranza, la loro volontà attraverso alla carità. La
discesa in essi delle tre virtù teologali li piomba in angosce indicibili, che
san Giovanni della Croce descrive nella Notte oscura. Il loro dolore
rinnova quello della Vergine abbandonata da suo Figlio: «Figlio mio,
perché ci hai fatto questo? Vedi, tuo padre ed io ti cerchiamo angosciati»
(Lc., II, 48). .
Essa fa loro ripetere la supplica stessa di Gesù: «Abba, Padre! Tutto Ti è
possibile: allontana da me questo calice! Ma... sia fatto non secondo la mia
volontà, ma secondo la Tua» (Mc., XIV, 36).
Il Padre de Caussade pensa a queste tentazioni benedette, invidiabili e
spaventose nello stesso tempo, quando descrive le prove dello stato di
abbandono: «Le anime che camminano nella luce cantano inni di luce,
quelle che camminano nelle tenebre cantano l'inno delle tenebre. Bisogna
lasciare cantare a ciascuna, fino alla fine, la parte ed il mottetto che Dio le
assegna. Non bisogna aggiungere nulla in ciò che Egli colma; bisogna
lasciare scorrere tutte le gocce di quel fiele delle divine amarezze, quando
inebria. Così facevano Geremia ed Ezechiele: tutte le loro parole non erano
altro che sospiri e singhiozzi, e non vi era mai consolazione, se non nel
proseguimento del loro lamenti. Se qualcuno avesse arrestato il corso delle
loro lacrime, ci avrebbe privati del passi più belli della Scrittura. Lo spirito
che mette nella desolazione è il solo che possa consolare: queste acque
diverse sgorgano dalla stessa fontana».
Più tardi verrà il giorno della gloria:
«A quel risveglio i Geremia ed i David vedranno che ciò che in Dio e negli
angeli era oggetto di gioia li aveva inconsolabilmente desolati» (48).

g) I vari sensi della parola «tentare».
Tentare significa provare. Ma queste parole hanno molti sensi. Si può
provare qualcuno tentando di trascinarlo alla rovina. Il diavolo, il
«serpente antico» (Apoc., XII, 8) tenta il primo uomo nell'Eden (Gen., III).
Egli si ostina ad ingannarci: «Ho molta paura - scrive l'Apostolo ai Corinzi
- che, seguendo l'esempio di Eva, che il serpente sedusse con la sua
astuzia, i vostri pensieri si corrompano...» (II Cor., XI, 3). Egli «approfitta
della nostra incontinenza» (I Cor., VII, 5). Si avvicina persino a Gesù, per
tentarlo nel deserto (Mt., IV, I-II).
Le creature ci tentano per mezzo della loro bellezza che; seducendo i
nostri sensi, rischia di oscurare la nostra ragione, per mezzo delle
suggestioni del cattivi e dello spettacolo del loro disordini.
Dio tenta l'uomo in un altro modo: «Accadde che Dio provò Abramo e gli
disse: " Abramo, Abramo! ". Egli rispose: " Eccomi ". Dio disse: " Prendi
tuo figlio, il tuo unico figlio amato Isacco... "«(Gen., XXIII, 1-2). Nel libro
della Sapienza, sta scritto riguardo ai giusti: «Dio li ha sottoposti alla
prova e li ha trovati degni di Lui: come l'oro al crogiolo, li ha provati...»
(Sapienza, III, 5-6). Se Egli permette che siamo sollecitati da ogni genere
di immagini e sopraffatti da ogni genere di mali, non è per sapere come
reagiamo. (Egli lo vede da tutta l'eternità). Sarebbe pure una follia pensare
che Dio voglia tendere delle insidie; san Giacomo scrive: «Che nessuno, se
è tentato, dica: "E' Dio che mi tenta! ". Poiché in Dio non c'è alcun male,
ed Egli non tenta nessuno» (Gc., I, 13). Ma Dio permette la tentazione che
è ambivalente e che può aiutare ci a renderci conto della nostra miseria, a
chiedere con maggiore intensità gli aiuti della Sua grazia, a progredire
nella fede e nella speranza.

«Dio non tenta nessuno». Tuttavia dobbiamo chiedere al Padre che è nei
cieli «che non ci induca in tentazione», e più esattamente «che non ci
sottoponga alla tentazione» (Mt.,VI, 13). Sappiamo che «Dio manda il
freddo secondo i panni». che Egli, nella Sua bontà infinita, non permetta
che io incontri oggi una tentazione che sia al di sopra delle mie forze;
oppure che accresca le mie forze con una nuova discesa della Sua grazia!
Che non mi metta alla prova al punto da attendere da me tutto ciò che è in
diritto di esigere! Che voglia considerare la mia debolezza! Per colui che
prega così con umiltà, saranno vere le parole dell'Apostolo: «Non avete
avuto nessuna tentazione che superasse la misura umana. Dio è fedele.
Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; ma nel
momento della tentazione, farà in modo che possiate sopportarla e
vincerla» (I Cor., X, 13).

4. IL MALE DELLA SOFFERENZA E DELLA MORTE
Parliamo qui della sofferenza e della morte delle persone umane, non della
sofferenza e della morte degli animali, che dipende dal male della natura
(49).

a) Il suo carattere enigmatico.
I) Che l'anima umana sia immortale è evidente: essendo spirituale come
potrebbe essere colpita dalla decomposizione e dalla morte? Ma l'uomo in
quanto tale è mortale o immortale? Questo è l'enigma.
Se egli è stato creato fin da principio per occupare un posto intermedio fra
la creatura spirituale e la creatura corporale, fra l'angelo ed il cosmo (50),
la morte che vediamo dissociare in lui quell'unione essenziale dell'anima e
del corpo, creata tuttavia per durare sempre, non potrebbe apparire come
oggetto di scandalo?

Passando ad un altro piano, come spiegare i miti del primi uomini sulla
sopravvivenza del morti, i loro riti di sepoltura, nei quali si è scorto il
segno di una rivolta contro la morte, la loro nozione di un tempo ciclico, e
il loro rifiuto di accettare la storia e le sue degradazioni, in breve l'insieme
del loro atteggiamento, se non con la presenza in essi di un istinto
d'immortalità che non si realizza vedendo nella morte la fine dell'uomo?
Considerando l'argomento ancora più profondamente, la vita di quaggiù
poggia tutta quanta su di un paradosso. Essa non si mantiene e non
progredisce se l'uomo non arrischia ad ogni istante la sua vita personale, e
cioè ciò che vi è quaggiù di più prezioso. Perché la natura ci impone una
condizione così strana, se non perché sa oscuramente che la morte non è la
fine della nostra vita personale? «Eccoci di fronte ad un paradosso. Da una
parte, nulla al mondo è più prezioso di una sola persona umana, e dall'altra,
nulla al mondo viene maggiormente sciupato dell'essere umano, nulla è più
esposto ad ogni genere di pericoli (ed è questa una condizione
sostanzialmente normale). Qual è il significato di questo paradosso? Esso è
assolutamente evidente. Per mezzo suo ci viene insegnato che l'uomo sa
benissimo che la morte non è una fine, ma un principio. Egli sa benissimo,
nelle segrete profondità del suo essere, che può correre tutti i rischi e che
può spendere la sua vita e distribuire quaggiù i suoi doni ed i suoi beni,
perché è immortale. Il canto della Liturgia cattolica davanti ai corpi del
defunti corrisponde a quella conoscenza istintiva, radicata in noi: "Vita
mutatur, non tollitur". La vita viene trasformata, non viene tolta» (51).

2) Abbiamo già osservato (52) che la sofferenza e la morte delle persone
umane costituiscono un enigma per il puro filosofo (53). Se egli crede di
spiegarle in modo sufficiente facendo appello, come per la sofferenza e per
la morte degli animali, alle leggi della biologia, e spiegando che ciò che è
un male riguardo all'individuo, è un bene riguardo all'ordine dell'universo,
rifiuta di riconoscere che l'uomo, come persona, non è una semplice parte
del mondo della natura, un pezzo del cosmo, ma un tutto irriducibile, un
mondo a parte in rapporto diretto con gli altri «tutto» che sono le persone
umane, e con le Persone divine di cui sono l'immagine. Il problema della
sofferenza e della morte della persona umana, che il puro filosofo non può
fare a meno di lasciare insoluto, non troverà una risposta sufficiente se non
nella rivelazione, che ci annunzia che esse non avevano posto nel piano
della creazione primitiva e che sono entrate nel mondo per la colpa del
primo uomo, il quale ha trascinato tutti gli altri nella rovina.

3) Chiamiamo membro l'individuo del regno minerale (atomo o molecola)
oppure del regno vegetale ed animale (quel certo albero, quel certo
animale); chiamiamo persona l'individuo del regno umano. Che cos'è una
persona? E' un me, un io che può pensare ed amare (54). Il concetto di
persona si realizza nell'angelo: ogni angelo è una persona. Esso si realizza
in ciascuna delle tre persone divine. E' dunque un concetto analogico, e
cioè trasportabile in sfere essenzialmente diverse; si distribuisce e si
ritrova proporzionalmente su piani così distanti, come quelli dell'uomo,
dell'angelo, di Dio. Ma sul piano dell'angelo è naturale per la persona non
conoscere la morte. Perché sul piano umano l'uomo deve conoscere la
morte? Non certamente perché è persona, ma perché è persona umana,
cioè persona strettamente legata ad un corpo, persona composta di spirito e
di carne e perciò decomponibile, costretta alla morte. Come persona, essa
chiede di non morire, e come potrebbe sfuggire a questo desiderio di non
morire? Ma in quanto persona umana, non può evitare la morte.
Ed eccola attratta in sensi opposti, perché porta in sé una necessità naturale
di morire e un desiderio transnaturale di non morire.
Che cosa concludere riguardo a tutto ciò se non che, senza dubbio, lo stato
di innocenza non è richiesto secondo giustizia, ma corrisponde alle
aspirazioni transnaturali della persona che concernono la persona umana,
non in quanto essa è umana, ma in quanto essa è persona e partecipa,
secondo il suo grado imperfetto, alla perfezione trascendentale della
personalità (55). «Noi vediamo in ciò la più profonda ragione di
convenienza dell'elevazione della creatura intelligente all'ordine
soprannaturale: ho detto ragione di convenienza, non di necessità né di
giustizia. Dio avrebbe potuto, senza la minima ingiustizia, creare l'uomo
nello stato di natura pura; l'uomo non sarebbe stato frustrato in nulla di ciò
che la sua natura esige, come tale; ma in realtà, Dio ha creato l'uomo nello
stato di grazia; diciamo che di fatto (al principio del mondo) non avrebbe
creato la natura se non l'avesse ordinata alla grazia, e questo concetto porta
molto lontano: molto lontano da Leibniz. Un solo bene della grazia, dice
san Tommaso, è superiore a tutto quanto il bene della natura» (56),

b) I bambini.
Pensiamo al mistero della sofferenza e della morte del bambini, battezzati
o non battezzati (57).

I) Che cosa può rispondere la pura filosofia? Dirà che essi dipendono,
sotto un certo aspetto, da quel grande complesso dell'universo in cui la vita
e la sensibilità apportano una ricchezza incomparabile, sebbene abbiano
come contro partita inseparabile il dolore e la morte. Dirà che, a conti fatti,
è meglio che il dolore e la morte esistano piuttosto che volere,
sopprimendoli, sopprimere la vita e la sensibilità. Questo è vero, e pure san
Tommaso lo dice (58); ma egli non dice solamente questo.
Dare tale risposta come sufficiente sarebbe un errore. Un filosofo come
Leibniz intende la verità che abbiamo or ora enunciata, che il dolore
umano è il prezzo necessario della sensibilità umana, in un senso di
filosofia pura, come una risposta sufficiente data dalla filosofia pura.
«Allora quel filosofo ci dirà che è bene che una madre pianga la morte di
suo figlio, perché la macchina del mondo richiedeva quel dolore per essere
più perfetta. Rachel plorans filios suos, et noluit consolari. Se spiegate
quel punto di vista leibniziano alla madre in questione, e le dite che quel
fatto era necessario perché tutti i gradi dell'essere fossero compiuti, ella vi
risponderà che se la ride della macchina del mondo e che le si restituisca
suo figlio. Ed avrà ragione: quei problemi infatti non si risolvono con la
macchina del mondo, ma nella notte della fede, e con la croce di Gesù»
(59). Quanto a san Tommaso, egli non dimentica, anzi insiste sul fatto che
l'uomo è una persona. Di conseguenza, «il dolore di un uomo è il dolore di
una persona, di un tutto. Qui l'uomo non è più considerato come parte
dell'universo; ma in quanto persona, è considerato come un tutto, come un
universo a sé; soffrire quel dolore come parte dell'universo, nel quadro
della natura o del mondo come opera d'arte di Dio, non sopprime il fatto
che, dal punto di vista della persona, il dolore sia un'anomalia
assolutamente incomprensibile» (60).

2) E' evidente dunque che la filosofia non può su questo argomento
costituirsi integralmente senza prendere a prestito dalla teologia del
principi superiori. E che cosa dirà la teologia della sofferenza e della morte
del bambini? Dirà senza dubbio che esse dipendono dalla loro natura fatta
di spirito e di carne; che Dio tuttavia, nella Sua bontà infinita, aveva
preveduto per loro una condizione di pura felicità, e che fu in seguito ad
una colpa iniziale che il dolore e la morte sono entrati nel nostro mondo.
Essa dirà che il grido di Rachele è come una postulazione del paradiso
terrestre; che se ella non vuole essere consolata, è perché ha l'oscuro
presentimento di ciò che era la nostra primitiva condizione.
Essa dirà che un giorno i bambini, risuscitati per la forza del Cristo, non
conosceranno più la sofferenza né nel cie1o, se sono stati battezzati, né nel
limbo, se sono morti senza battesimo.
Essa dirà inoltre a Rachele che vi sono delle sofferenze destinate a
rimanere inconsolabili su questa terra, che il Cristo le illumina senza
consolarle, che saranno consolate soltanto nei cieli.
Essa potrà ancora dire a Rachele che ai bambini non battezzati, che sono
massacrati per odio del Cristo, il Cristo dà il battesimo del sangue e che li
accoglie immediatamente nella Sua gloria.

c) Una lezione di Jacques Maritain: paradosso della sofferenza;
atteggiamento di fronte alla sofferenza; dialettica della sofferenza nel
mondo cristiano (61).
Esamineremo tre punti riguardanti la natura della sofferenza,
l'atteggiamento che essa richiede da noi, il modo con il quale è accolta nel
mondo cristiano.

I) Il paradosso della sofferenza: essendo un male, come può essere un
bene? La sofferenza in se stessa non è un bene: essa è un male. Tuttavia,
quanto al suo effetto, è ambivalente. Dimodochè, se si considera la sua
incidenza con il peccato o con degli esseri inclinati al male, come tutti
siamo, si potrebbe formulare la legge che il dolore tende, da una parte, a
deteriorare le risorse fisiche, buone in sé, dell'agente libero, e dall'altra, a
impedire il cattivo uso che esso faceva di quelle risorse e quindi a
bonificare, a raddrizzare ciò che vi era di cattivo in lui.
Essa diminuisce ciò che vi è di biologico nell'uomo, ma può rafforzare e
purificare ciò che vi è in lui di morale.
Di qui deriva il ruolo importantissimo del dolore nell'educazione
dell'umanità, che dipende dal fatto che nell'insieme siamo più cattivi che
buoni. Il paradosso consiste in questo: che un male (fisico) può servire
come rimedio a un male più grave (morale).
Allora la sofferenza appare come buona. I poeti lo hanno compreso:
Siate benedetto, mio Dio, che date la sofferenza
Come un divino rimedio alle nostre impurità...
o ancora:
... Sia benedetta la Tua frusta
Signore, il dolore, o Padre, sia benedetto!
La mia anima nelle Tue mani non è un vano giocattolo
E la Tua prudenza è infinita.
Ricordiamo le parole di Bloy:
«L'uomo ha delle zone del suo cuore che non esistono ancora e dove il
dolore entra perché esse esistano».
Ed è la negra del Requiem per una monaca che dice: «Egli non ci può
impedire di volere il male. Ma per compensare un poco, ha inventato la
sofferenza che è la vera luce di questo povero mondo».
Questi passi, è vero, sono già toccati da un raggio della fede nel mistero
della redenzione del mondo sulla croce di Gesù.
Partendo dallo stesso punto di vista, Pascal aveva scritto la Preghiera per
chiedere a Dio di fare buon uso delle malattie.

Resta fermo che la sofferenza è un male: è un male, di per sé detestabile,
nell'ordine naturale: pensiamo alle spaventose rovine delle malattie, della
vecchiaia, della morte; essa può impedire l'uso della ragione, annebbiare
persino la preghiera, trasformare anche i caratteri. Rimane dunque un male
(un male fisico) dal punto di vista della fede, perché l'ordine della grazia
non distrugge quello della natura. Sotto lo stesso punto di vista, come
abbiamo detto, ogni sofferenza umana, essendo dovuta ad una colpa
originale o personale, assume un carattere penale: essa è un malum
poenae. E sempre da questo punto di vista, il dolore, quando è accettato,
apparirà come curativo, come un rimedio al male della volontà troppo
frequentemente sedotta dal mondo e dalle passioni.

Bisogna porsi nel punto di vista centrale della fede per considerare, con
uno sguardo d'insieme, la sofferenza umana ed il modo con il quale Dio la
permette: come non c'è perfezione, se non soprannaturale, così non c'è
ragione finale per il dolore, se non soprannaturale.

2) Quale atteggiamento prendere di fronte alla sofferenza? Naturalmente,
per quanto riguarda ciascuno di noi, la dobbiamo sopportare.
Ma, stabilito questo, quale atteggiamento prendere di fronte alla
sofferenza degli altri, alla sofferenza che affligge la specie umana?
Nell'ordine naturale si deve lottare contro di essa, si deve tentare di
diminuirla per quanto è possibile, poiché è un male. Come non approvare
lo sforzo immenso dell'uomo che si difende contro la malattia, la miseria,
la sofferenza fisica? Esiste un falso moralismo pseudo-cristiano che
predica la rassegnazione alla sofferenza, così come, al tempo di Proudhon,
predicava la rassegnazione alla miseria. La sofferenza è una schiavitù della
natura. Uno del compiti dell'uomo, sul piano culturale, è quello di
conquistare progressivamente la sua libera autonomia, svincolandosi in
modo sempre più perfetto dal dominio e dalla servitù del cosmo. L'uso
ragionevole degli anestetici, il procedimento del parto indolore si allineano
in una direzione generale autentica, non sono al di fuori del cristianesimo
(62).

Nell'ordine soprannaturale la sofferenza è pur sempre un male; ma un male
di cui Dio si serve per il nostro bene, e del quale soltanto Lui può servirsi
con tanta sicurezza. Perciò quando essa giunge, bisogna benedirla, perché,
nelle mani di Dio, quel male può diventare un bene. Ma non si può
desiderarla per altri, perché è un male. Così si spiega un paradosso della
vita cristiana: da una parte il dolore è un bene, non in sé, ma come
strumento di Dio, dall'altra, cerchiamo di evi tarlo a coloro che amiamo. Se
si desse ascolto a certi luoghi comuni di pietà, dovremmo augurare la peste
e la carestia a coloro che amiamo di più. La trasformazione del dolore in
luce, di un male fisico in bene morale non appartiene a noi: dipende da un
potere riservato a Dio.

3) La dialettica della sofferenza nel mondo cristiano. Si possono
distinguere tre tappe nel modo di accogliere la sofferenza nel mondo
cristiano.
La prima tappa è la più frequente. La sofferenza è considerata nella
prospettiva della pura natura come se l'uomo fosse un essere puramente
naturale e soffrisse, come gli animali, per il solo fatto che è creato e
coinvolto nella macchina del mondo e perciò soggetto al male fisico.
Oppure, se si crede che le cose stiano così perché la razza umana è punita
per il peccato originale, si considera quello stato di sofferenza unicamente
come uno stato di sottomissione alla legge del mondo fisico. La sofferenza
è un fatto dipendente dalla natura, una fatalità che si accetta curvando le
spalle. E si aggiunge che bisogna sopportare pazientemente questo stato
per amore di Dio e per una ragione soprannaturale.
E' la tappa della sofferenza cristiana nello stato d'infanzia, nel senso che,
per usare un'espressione di san Paolo a proposito della nostra infanzia
(Gal., IV, 3), essa è «asservita agli elementi del mondo».

In che cosa consiste la seconda tappa? E' facile comprendere che per
l'uomo la sofferenza è qualcosa di diverso da quanto si è detto. Essa è
un'anomalia riguardo alla persona ed alle sue aspirazioni transnaturali. Ciò
è esatto, ma si va più oltre. Si fa come se la condizione di innocenza fosse
dovuta alla persona umana. Di conseguenza, la sofferenza umana appare
penale non solo di fatto, come noi diciamo, ma anche di diritto. In altre
parole, non sarebbe sufficiente dire che la sofferenza umana, sebbene si
spieghi parzialmente con la nostra natura composta di spirito e di corpo,
non si spiega sufficientemente se non con una colpa originale;
bisognerebbe dire che essa è assolutamente inspiegabile, assurda, senza
una colpa. E poiché non si pensa alla colpa originale, e si considera
soltanto il caso della colpa personale, si è indotti a dire che, più ancora che
uno scandalo, è un'assurdità che un innocente soffra. Sembra che un simile
punto di vista sia nascosto nel pensiero di Dostojevskij quando ci parla
delle lacrime di un bambino. Questa seconda tappa rappresenta una
posizione cristiana deviata; è la posizione del cristiani ribelli; è la tappa
della sofferenza cristiana offuscata.

C'è infine una terza tappa. Si comprende che la sofferenza dell'innocente è
la conseguenza del peccato originale, che non è una pena di diritto
inspiegabile ed assurda, ma una pena dovuta, di fatto, alla perdita di
privilegi gratuiti. E, nello stesso tempo, non la si considera come un
semplice fatto di natura, una fatalità che bisogna subire; la si considera
come una forma corredentrice in quanto essa è una partecipazione alle
sofferenze ed al sangue del Cristo. Se la caduta originale non è stata
permessa se non in considerazione della redenzione del mondo per mezzo
delle sofferenze del Cristo, la sofferenza dell'innocente è permessa a sua
volta in conformità alle sofferenze del Cristo. Allora tutto si trasfigura.
Non si tratta più del problema della sofferenza, ma del mistero delle
sofferenze del Cristo e della nostra partecipazione ad esse. Non si dovrà
più parlare di rassegnazione alla sofferenza, ma di una partecipazione agli
stati ed all'opera del Salvatore. Non si accetta la sofferenza perché si è
sottoposti alla legge del mondo fisico; la si adotta perché ci unisce alla
persona del Dio fatto uomo. La sofferenza è amata da Léon Bloy perché è
un'unione al Cristo sofferente: «Ho meditato sovente e molto sulla
sofferenza. Sono riuscito a convincermi che non c'è che questo, quaggiù, di
soprannaturale, tutto il resto è umano. C'è in ogni cristiano un uomo di
dolori e quello è Dio» (63). «La Croce degli indigenti e del vagabondi, la
dolce Croce delle vecchie strade di campagna, l'accogliente Croce del
miserabili, del vinti, del piedi insanguinati, del cuori in lacrime, di coloro
che sono stati morsicati dai serpenti del deserto e che guariscono la loro
ferita guardandola, la Croce di miseria e di gloria!» (64).

Una tale sofferenza è la sofferenza nello stato maturo o regale: è la
sofferenza del santi.
Il Cristo non ha scelto la sofferenza perché buona. La sofferenza è un
male per lui in quanto è una persona, ma ha voluto subirla per salvare il
mondo. Ed è così, come strumento scelto dal Cristo per la sua opera
redentrice, che la sofferenza è diventata buona. Da allora, i santi, in quanto
pensano che la loro sofferenza è una partecipazione alle sofferenze del
Cristo, la amano e la tengono cara come un tesoro a causa di lui, come
sofferenza del Cristo cui essi partecipano, non come sofferenza, poiché
come tale essa è sempre odiosa. Essa lo fu per Gesù, come ci rivela la
preghiera della sua Agonia: «Abba, Padre! tutto Ti è possibile. Allontana
da me questo calice! Ma... sia fatto non secondo la mia volontà, ma
secondo la Tua» (Me., XIV, 36).

d) La dialettica della sofferenza secondo il piano divino.
Perché la sofferenza e la morte delle persone? L'Apostolo risponde che,
per colpa di uno solo, la morte ha regnato (Rom., V, 17), che essa è la
mercede del peccato (VI, 23).
E perché la sofferenza e la morte del Figlio dell'uomo? La risposta è nel
Vangelo: «Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era
perduto» (Lc., XIX, 10). Quale ragione trovare a questa follia? «Dio ha
tanto amato il mondo che ha dato il Suo unico Figlio affinché chiunque
crede in Lui non perisca ma abbia la vita eterna» (Gv., 111, 16). La prova
dell'amore può andare ancora oltre? Sì: «Non vi è prova di amore
maggiore che dare la propria vita per i propri amici» (XV, 13). Nel mondo
c'era sofferenza e morte. Il Figlio di Dio scende nel mondo per partecipare
a quella sofferenza e a quella morte «per diventare in tutto simile ai suoi
fratelli» (Ebr., II, 17), per «essere provato in tutto come noi, eccetto che
nel peccato» (Ebr., IV, 15), e noi possiamo aggiungere per sposare
l'umanità nel punto più profondo della sua miseria, e capovolgere per lei il
senso della sofferenza e della morte.
Così si svolge l'inaudita dialettica della sofferenza cristiana. La
sofferenza, la morte sono un male che Dio detesta, che non vuole per il
primo uomo. Ma l'uomo le introduce nel mondo con la sua ribellione, e
sotto di esse è oppresso, schiacciato. Da quel momento la sofferenza e la
morte cambiano aspetto agli occhi di Dio. Gli erano odiose, ora Gli
divengono desiderabili, invidia bili, da quando sono divenute umane. Egli
scende dal cielo per prenderle su di Sé; ma non le sopprime, fa di più: dà
loro un senso, le illumina dall'interno, le trasfigura, le divinizza. Ed allora
esse possono essere desiderabili per l'uomo: diventano ciò che Gesù stesso
chiamava in modo profetico una croce, un riflesso della sua Croce; beati
quelli che vorranno portarla con lui: essi saranno portati da lei là ove non
vorrebbero andare, ma ove per loro è meglio andare.

La dialettica della sofferenza cristiana è compiuta: Dio, che non voleva per
noi né sofferenza né morte, le invidia quando sono diventate nostre; le
trasfigura facendole Sue in Suo Figlio, affinché a nostra volta possiamo
invidiarle.

http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

Nessun commento:

Posta un commento