DON ANTONIO

giovedì 22 settembre 2011

8.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

4. PERCHÈ DIO PERMETTE IL MALE DI QUESTO MONDO?

Dio non “crea” il male, non “.causa” il male, non “vuole” il male, ma
“permette” il male. Perché vuole permettere questo male? Ecco il vero
problema.
a) La risposta suprema.
Essa è data da sant'Agostino e sarà raccolta tale e quale da san Tommaso.
Ecco la sua formula nell'Enchiridion (421):

“Il Dio onnipotente, al quale, come ammettono anche gli infedeli,
appartiene il dominio sovrano di tutte le cose (72), poiché è sovranamente
buono, non lascerebbe mai esistere alcun male nelle sue opere, se la sua
onnipotenza e la sua bontà non fossero tali da poter far uscire il bene dal
male stesso”. (73).

Più avanti leggiamo: “Dio ha giudicato cosa migliore trarre il bene dal
male che non permettere l'esistenza di alcun male)) (74). Più avanti
ancora: Dio, sapendo che Adamo avrebbe peccato, dispone i suoi piani “al
fine di utilizzare per il bene colui stesso che avrebbe commesso il male,
cosicché, in certo modo, la volontà cattiva dell'uomo non annulla, ma, al
contrario compie, la volontà buona dell'Onnipotente” (75).

Il punto di vista di sant'Agostino è ripreso da san Tommaso all'inizio della
Summa. All'obiezione: Un Dio infinitamente buono, se esistesse, non
lascerebbe posto alcuno al male, risponde con la prima citazione
dell'Enchiridion, e ne sottolinea il paradosso: “Appartiene dunque
all'infinita bontà di Dio di permettere che ci siano del mali e di fame
derivare del beni” (76). Il suo pensiero costante è che le deficienze
particolari sono permesse in vista del bene di tutto l'universo, in vista
dunque di un bene maggiore: “Come Dio è il moderatore universale di
tutto l'essere, universalis provisor totius entis, appartiene alla Sua
provvidenza di permettere alcuni difetti degli esseri particolari, piuttosto di
intralciare il bene perfetto dell'universo. Se, infatti, tutti i mali
scomparissero, molti beni mancherebbero all'universo” (77).

b) Valore universale ed analogico di questa risposta.
Come la definizione del male si applica propriamente, ma in modo
analogico e trasferito, a tutte le forme del male, così la risposta di
sant'Agostino e di san Tommaso, secondo la quale il male è permesso da
Dio per qualche bene maggiore, sarà valida propriamente, ma in un modo
analogico e trasferito, per tutte le forme del male: male della natura, male
della pena, ed anche male della colpa.

Se Dio non ordinasse il male a qualche bene maggiore, se lasciasse le
forme del male trionfare totalmente e definitivamente nel mondo, due
sarebbero le possibilità: o Egli conserverebbe il controllo del mondo e
sarebbe un Dio perverso, intento a distruggere ciò che ha creato, oppure
perderebbe il controllo del mondo e non sarebbe più onnipotente. E' assai
importante rendersi conto del carattere metafisico della risposta
agostiniana.

c) Il suo carattere misterioso.

1) Per quale bene il male è permesso? In alcuni casi lo potremo
individuare; col tempo risulterà evidente che quella tale malattia, quella
tale disgrazia, quel tal dolore hanno segnato l'inizio del rinnovamento di
una vita; l'ingiuria potrà attirare il perdono e la magnanimità, il peccato le
misericordie divine. Ma il più delle volte rimarremo senza una risposta
precisa: davanti a noi non ci sarà che un oscuro mistero. San Tommaso a
questo proposito è molto breve: la generazione suppone la corruzione; la
vita del leone suppone la morte della gazzella; il martirio suppone la
persecuzione.

2) Non è dunque in virtù di un'induzione, bensì a priori, e costretti da una
necessità metafisica anteriore ad ogni ricerca o verifica che noi diciamo
che qualunque male è permesso in vista di qualche grande bene. Siamo di
fronte a tre termini, tutti e tre misteriosi: un Dio infinitamente buono e
potente; un mondo nel quale il male infierisce; un necessario trionfo del
bene sul male. Due di questi misteri, per quanto ci appaiano impenetrabili,
sono infiniti soltanto relativamente, sono finiti parlando in senso assoluto:
il male del mondo, la sua sovrabbondante compensazione per mezzo del
bene. Il terzo mistero è “infinitamente più infinito” è infinito in senso
totale. Ciò significa che in Dio vi sono delle risorse infinitamente maggiori
di quante ne occorrono per far derivare dal male del mondo un bene del
mondo, cioè un mondo migliore. Eccoci sempre sprofondati nei misteri,
mai nella contraddizione.

3) Il male è permesso per un maggior bene. Quale maggior bene? Prima
di tutto, e per ciò che riguarda il male della natura, bisogna pensare al bene
universale che è più prezioso di quello del quale sono private dal male le
creature particolari. Il movimento del mondo, ed il susseguirsi delle specie
è cosa migliore dell'eternizzarsi degli individui. Qui si arresta la filosofia
pura.

Bisogna andare oltre e pensare che il male possa essere condizione, nelle
imprevedibili disposizioni della misericordia divina, per la comparsa di un
universo del tutto migliore dell'universo precedente sul quale esso faceva
le sue stragi? Qui avrà inizio la teologia, qui potrà pure farsi avanti la
filosofia cristiana.

Commentando il Felix culpa dell'Exultet, san Tommaso scrive che, nel
Cristo, la natura umana è stata elevata ad uno stato che non avrebbe potuto
conoscere al tempo dell'universo originale (78).

III. SE DIO PERMETTE IL MALE E' PER MANCANZA DI POTENZA
O PER MANCANZA DI BONTA'?

1. IL DILEMMA CLASSICO
a) La sua formulazione.
La risposta suprema di sant'Agostino e di san Tommaso, è che Dio non
può permettere il male se non per ordinarlo a qualche bene misterioso, e
che tale permesso è precisamente un effetto della sua potenza e della sua
bontà infinita.
Tuttavia non tutti i problemi sono risolti. Perché scegliere un mondo in cui
vi è una mescolanza di male ? Un Dio onnipotente e buono non poteva,
non doveva forse scegliere di creare un mondo esente dal male, un mondo
migliore, cioè il migliore del mondi possibili? Se non poteva, ciò denota
una mancanza di bontà.

Ci siamo sempre richiamati al mistero della coesistenza di Dio e del male.
Con quell'obiezione si crede di ridurci alla contraddizione. Eccoci presi
nel dilemma; esso è classico, si trova ovunque, dall'Avesta fino al
Dizionario filosofico portatile di Voltaire. Ma è un dilemma di vetro: esso
s'infrange contro il mistero di Dio.

b) Il suo significato.
I) Determiniamo esattamente il senso del dilemma.
Il mistero della coesistenza del male e di un Dio infinitamente potente e
buono non è accettato: vi si vede una contraddizione. Bisognerà
sopprimere uno del due termini.
2) Vi sono due modi radicali per addivenire a ciò, ma essi non sono in
causa qui. Qui si richiede una specie di eroismo, quello cioè di spingere
l'errore fino all'assurdo.
Si può sopprimere il mondo, e, di conseguenza, il male del mondo. Questa
è pura magia, illusione. Illusione che ci mantiene nell'errore, ma dalla
quale ci può liberare l'acquisizione della conoscenza dell'identità morale
del nostro io profondo con l'assoluto. Tale è la prospettiva cankariana
dell'acosmismo. L'assoluto risplende nella sua purezza e nella sua infinità.
Il panteismo è del tutto scomparso e superato.

Oppure si può sopprimere Dio. Questo è l'ateismo assoluto (79) che nega
realmente “l'esistenza del Dio Creatore, Salvatore e Padre, il cui nome è
infinitamente al di sopra di qualunque nome che noi possiamo
pronunciare... Un uomo non diventa un ateo assoluto in seguito a qualche
indagine sul problema di Dio condotta dalla ragione speculativa... Il punto
di partenza dell'ateismo assoluto è... un atto fondamentalmente di scelta
morale, una libera determinazione cruciale. Se un uomo, nell'istante in cui
prende egli stesso una deliberazione e prende posizione di fronte a stesso
ed alla direzione totale della propria vita, confonde il passaggio
dall'infanzia all'età adulta con un rifiuto, non solo alle subordinazioni
dell'infanzia, ma a tutte le subordinazioni; se egli considera in tal modo il.
rifiuto di ogni legge trascendentale come un atto di maturità morale e di
liberazione, e si decide di affrontare il bene ed il male in una esperienza
totalmente ed assolutamente libera, scartando decisamente ogni fine
ultimo ed ogni legge venuta dall'alto (una tale libera determinazione
morale infatti trae origine dai valori primi dell'esistenza) ciò significherà
che Dio è espulso da quello spirito, dalla totalità del suo universo
personale di vita e di pensiero. Questo è il punto, secondo me, nel quale
l'ateismo assoluto incomincia nelle profondità dell'attività spirituale di un
uomo. Ma che cosa ho esposto ora se non una specie di atto di fede
rovesciato, il cui contenuto non è adesione al Dio trascendente, ma presa
di posizione contro questo stesso Dio trascendente?… Che cosa significa
tutto ciò? L'ateismo assoluto ha il suo punto di partenza in un atto di fede
rovesciato, ed è un impegno religioso in grande stile. Abbiamo qui la
prima contraddizione interna dell'ateismo contemporaneo; esso proclama
la necessità della scomparsa di ogni religione, ed è esso stesso un
fenomeno religioso” (80).

Dal punto di vista che ci interessa, bisogna aggiungere che l'acosmismo
avrebbe potuto essere la verità: non è assurdo se non in ragione del fatto
che il mondo esiste; mentre l'ateismo è assurdo in sé e metafisicamente.
Inoltre, nella prospettiva dell'acosmismo, il male è impossibile, la risposta
al problema del male è perentoria; nella prospettiva assurda in sé
dell'ateismo, invece, il male di questo mondo, il dolore, la morte,
l'ingiustizia, il delitto rimangono senza risposta; il mondo stesso coi suoi
eroismi è senza ragione; si chiede ad una generazione sofferente di
sacrificarsi per un'altra generazione sofferente fino al giorno in cui, alla
fine, tutto ricade nel nulla.

L'assurdità dell'acosmismo riesce evidente ai sensi. L'assurdità metafisica
dell'ateismo non lo è meno; è difficile infatti alla ragione non aiutata dalla
grazia raggiungere senza errore una conoscenza sviluppata di Dio (81), ma
le risulta evidente fin dal suo primo sguardo, che l'essere contingente
dell'universo dipende da un Essere in sé. San Paolo non rimprovera ai
Gentili di non aver conosciuto Dio attraverso alla ragione, ma di non
averlo glorificato come tale (Rom., I, 19-21).

3) Non è su questo piano di profondità (acosmismo assoluto o ateismo
assoluto) che ci viene ora posto il dilemma. Non ci si può spingere,
almeno direttamente, né all'acosmismo, né all'ateismo. Poiché il mondo è
ciò che è, si cerca di spingerei a sacrificare o il vero concetto
dell'onnipotenza o quello della infinita bontà del Creatore. E' più facile
sacrificare il primo che il secondo. Si possono fare, infatti, due ipotesi: o
Dio non può fare che ciò che fa, non è onnipotente se non in questo senso
menomato, ed allora non accusiamolo di mancare di bontà: ecco la via
larga. Oppure Dio è veramente onnipotente, ma allora come salverete la
Sua bontà? Non avrete che una via d'uscita e cioè di dire che ha creato il
migliore del mondi possibili: ecco la via stretta. La prima via, dice san
Tommaso (82), è quella seguita dai filosofi antichi, e sarà quella di
Spinoza.
La seconda è quella del teologi come Abelardo e quella che seguirà anche
Leibniz. Tutte e due sono del gineprai.

2. DIO MANCA DI POTENZA?

a) Come definire l'onnipotenza di Dio?
Come definire l'onnipotenza di Dio? Che cosa significano queste parole:
Dio può tutto?
La potenza, risponde san Tommaso (83), si riferisce al possibile. Dire che
Dio può tutto significa dire che Egli può realizzare tutto ciò che è
possibile: di qui il Suo attributo di onnipotente. Egli è onnipotente non
perché può fare tutto ciò che ha fatto (sarebbe come girare in un cerchio)
né perché può fare tutto ciò che è possibile a questa o a quell'altra creatura,
ma perché può fare tutto ciò che è possibile in sé e parlando in senso
assoluto, vale a dire tutto ciò che non presuppone una contraddizione.

Si potrà dire che la Sua potenza si arresta di fronte alle contraddizioni?
Egli non può fare un circolo quadrato, una valle senza montagne, né può
volere essere finito, né volere Egli stesso il peccato, né volere che sia cosa
buona odiarlo e cosa cattiva amarlo. Ma se c'è impotenza in tutte queste
cose, è evidente che essa non sta dalla parte di Dio, ma dalla parte delle
cose proposte, che si distruggono esse stesse. Non diciamo dunque che
Dio non le può fare, ma che esse non sono suscettibili di realizzazione
(84).
Non si potrà dunque definire esattamente l'onnipotenza divina senza
introdurre il concetto di ciò che è possibile in sé e parlando in senso
assoluto.

b) L'universo del possibili.
I) L'essenza divina increata è l'Essere puro, l'Essere in sé. A causa della
ricchezza senza limiti della sua semplicità sovraeminente, essa ammette
del modi d'essere imitata e partecipata che, trasportandola in un certo
modo dal piano dell'assoluto sul piano del relativo, per tradurla in esso e
convertirla in moneta, le rimangono per essenza infinitamente inadeguati,
e la cui moltitudine è, di conseguenza, propriamente infinita. Come
Platone diceva che il tempo è una certa immagine mobile dell'eternità
immobile (85), così i possibili sono una certa immagine multipla della
sovrana Identità. Prima di essere, scrive san Tommaso, il mondo era
possibile. E ciò s'intende in due modi: immediatamente, il mondo era
possibile in rapporto alla potenza attiva di Dio, capace di realizzarlo; più
radicalmente, il mondo era possibile, parlando in modo assoluto, nel
modo con il quale il possibile si oppone all'impossibile, per il solo fatto
che esso rappresentava un insieme di concetti che non erano né
impensabili, né incomponibili, ex sola habitudine terminorum qui sibi non
repugnant (86).

L'intelligenza divina, per il fatto che conosce la ricchezza sovraeminente
dell'essere divino partecipabile ed imitabile in una infinità di modi, è la
sorgente di tutte le idee divine. Nel registro della scienza divina
speculativa, quelle idee esprimono le “ragioni” o le essenze di tutte le cose
possibili e di tutte le loro combinazioni possibili; nel registro della scienza
divina pratica, se Dio decide liberamente di realizzarle, esse costituiranno
gli “esemplari” o i tipi dell'universo che sarà realizzato nell'esistenza, e
degli elementi che esso racchiuderà (87).

2) Non è Dio che dipende dai possibili, sono i possibili e tutto l'ordine
delle verità necessarie che dipendono dalla necessità di Dio, come
l'immagine che si riflette in uno specchio dipende dall'oggetto. I possibili,
essendo delle partecipazioni e delle imitazioni di Dio, sono ciò che sono
per il fatto che Dio, che essi riflettono nel loro mondo finito, è ciò che è.
Le verità necessarie dipendono dall'essenza divina al punto che per
abolirle, bisognerebbe prima di tutto abolire questa; ma la dipendenza non
è reciproca; allo stesso modo che l'immagine dipende dall'oggetto e non
l'oggetto dall'immagine. Non diciamo certamente che l'intelligenza divina
dipende dalle verità eterne, che essa è da loro determinata e che è loro
sottomessa. Il solo oggetto che la specifica è l'essenza divina, che è
l'intellezione divina stessa. Ma noi diciamo che, vedendo in quell'essenza
tutti i modi di partecipazione che essa ammette, l'intelligenza divina
conosce e determina, di conseguenza, tutte le creature possibili e tutte le
verità che le riguardano e che dipendono talmente da Dio che
bisognerebbe, perché esse fossero mutate, che prima mutasse l'essenza
stessa di Dio (88).

3) L'universo del possibili e delle verità eterne è ciò che è, perché riflette
1'essenza immutabile di Dio. Per mutarlo bisognerebbe che mutasse prima
l'essenza stessa di Dio.
Ma Dio, che possedendo in Se stesso la pienezza dell'essere, non potrebbe
agire al di fuori di essa per necessità della natura e per costrizione, sceglie
liberamente, in mezzo ad una infinità di possibili, quelli cui vorrà dare
un'esistenza: quel tale universo in cui il male non avrà posto, oppure quel
tale universo in cui il bene trionferà sul male.

Dimodochè, l'infinità assoluta del possibili, che sono tali necessariamente,
supererà sempre l'infinità relativa degli esistenti, che sono tali
contingentemente; l'infinità assoluta del creabile supererà sempre l'infinità
relativa del creato.
“La potenza divina - dice san Tommaso - è infinita in un doppio senso. In
un senso quantitativo: non fa mai tante cose che non possa fame ancora
delle altre. In un senso qualitativo: essa non agisce mai così intensamente
che non possa agire più intensamente ancora: il suo grado d'intensità
infatti si misura secondo l'azione, non quale essa è in Dio (ov'è sempre
infinita perché è identica all'essenza divina) ma secondo il modo più o
meno perfetto col quale essa ha raggiunto i suoi effetti” (89).
Disconoscere in qualunque modo la linea che separa il creabile dal creato,
significa menomare la trascendenza di Dio (90).

c) Sopprimere la linea di demarcazione fra la necessità del possibili e la
contingenza degli esistenti, significa attentare alla trascendenza di Dio:
Descartes e Spinoza.
Tale linea di demarcazione si può distruggere in due modi opposti. Nella
speranza di definire meglio l'onnipotenza divina, si attenterà alla sua
trascendenza, negando da una parte la sapienza dell'onnipotenza, e
dall'altra, la libertà dell'onnipotenza.

I) Sotto l'apparenza di esaltare l'onnipotenza divina, Descartes la
distrugge quando pretende di sottrarla alla sapienza divina. Per il timore
che parlando del carattere assoluto del possibili e delle loro leggi, e delle
verità necessarie (quali sono le verità matematiche e metafisiche) si voglia
loro sottomettere la divinità, egli preferisce rinunziare a quel concetto di
verità di per sé necessario, e ricondurre tutto alla contingenza. “Dio - egli
dice - era altrettanto libero di fare in modo che tutte le linee tirate dal
centro alla 'Circonferenza non fossero uguali, come di non creare il
mondo. E' cosa certa che quelle verità non sono congiunte alla Sua essenza
più necessariamente delle altre creature” (91). .

L'errore di Descartes sta nel confondere “con il creato, il creabile ed il
possibile. Tutto allora cade (intendo dire tutte le leggi delle essenze, la
distinzione fra l'essere e il non-essere, fra l'intelligibile e l'assurdo, fra il
bene ed il male) sotto la pura volontà e libertà di un supremo Arbitro.
Descartes offende la sapienza, l'intelligenza di Dio. San Tommaso,
scostandosi dalla sua consueta serenità, giudica che fare dipendere il bene
ed il male dalla pura volontà di Dio, è una bestemmia” (92). Così, Dio non
ci proibirebbe alcune cose, come la menzogna, l'odio, il delitto, perché
sono cattive; ma queste cose sarebbero cattive soltanto perché Dio ce le
proibisce. L'inferno non sarebbe la libera rivolta della volontà contro un
ordine scelto da Dio nella sua infallibile sapienza; sarebbe la rivolta contro
un ordine che Dio avrebbe potuto dichiarare perverso, una rivolta che Dio
avrebbe potuto dichiarare santa. Ecco la sconvolgente risposta che si dovrà
dare al problema del male: in realtà essa è una bestemmia.

2) Il secondo modo di annientare la trascendenza divina consiste nel
negare la contingenza degli esistenti. E' quello di Spinoza, che riprende un
antico errore. “Certi filosofi - dice san Tommaso (93) - hanno pensato che
Dio agisce dal di fuori, come per necessità di natura. Orbene, dall'azione
delle cose naturali non può risultare nient'altro di ciò che in realtà esse
producono: la natura dell'uomo genera l'uomo, quella dell'ulivo genera
l'ulivo. Così dall'operazione divina non potrebbero risultare né altre cose,
né un ordine di altre cose diverse da ciò che esiste di fatto”. “Ma -
continua san Tommaso -:Dio appunto non crea per necessità di natura; la
causa di tutte le cose è la Sua volontà. E la Sua volontà non è per nulla
determinata dalla natura e dalla necessità di produrre questa o quella cosa.
Creando il corso presente delle cose, Dio non ha dunque agito per
necessità; altre cose avrebbero potuto essere create” (94).

Che cosa pensa Spinoza? Si legge nel Breve trattato: “Noi diciamo
dunque, che tutto ciò che accade, essendo fatto da Dio, deve pure essere
necessariamente predestinato da Lui perché altrimenti Egli sarebbe
mutevole, la qual cosa in Lui sarebbe una grande imperfezione; e che
questa predestinazione dev'essere in Lui da tutta l'eternità, nella quale
eternità non c'è né un prima né un dopo; dal che consegue indubbiamente
che Dio non ha potuto predeterminare all'origine le cose in alcun modo
diverso da quello col quale sono ora determinate per la eternità, e che
prima di questa determinazione e senza di essa, Dio non avrebbe potuto
essere... Neghiamo dunque che Dio possa evitare di fare ciò che fa” (95).
E nei Pensieri metafisici: “Se gli uomini conoscessero chiaramente tutto
l'ordine della natura, troverebbero tutte le cose tanto necessarie quanto
quelle di cui si tratta nella matematica; ma essendo ciò al di sopra della
conoscenza umana, certe cose sono giudicate da noi possibili e non
necessarie” (96). Infine nell'Etica: “Un'infinità di cose in un'infinità di
modi, cioè tutto, proviene necessariamente o deriva dalla sovrana potenza
di Dio o dalla Sua natura infinita sempre con la stessa necessità: allo
stesso modo che da tutta l'eternità e per l'eternità deriva dalla natura del
triangolo il fatto che la somma del suoi tre angoli sia uguale a due retti. E'
per questo che l'onnipotenza di Dio è stata in atto da tutta l'eternità e
rimane per l'eternità nella medesima attualità. E di conseguenza,
l'onnipotenza ammessa in Dio, è molto più perfetta, per lo meno a mio
giudizio” (97). “Tutto è stato predeterminato da Dio, ma certamente non
attraverso alla libertà della Sua volontà o, per esprimerei diversamente,
non attraverso al Suo beneplacito assoluto, ma attraverso alla natura
assoluta di Dio, vale a dire attraverso aJ1a Sua potenza infinita” (98). .

L'onnipotenza definita da Spinoza è quella di un Dio che non avrebbe
potuto evitare di creare senza essere imperfetto, che non può esistere senza
il mondo che, sotto pena di essere mutevole, ha dovuto creare da sempre,
la cui attività non è libera, ma si spiega con la necessità della matematica.
Tutti i possibili e le loro necessità passano di conseguenza nell'esistente
per renderlo necessario. “L'errore essenziale di Spinoza consiste nel
confondere il creato e l'esistente, che, come tale è voluto, amato, scelto,
con il puro possibile o creabile, che non è per nulla fuori di Dio. In tal
modo offende la libertà divina” (99)
Che cosa diventa il male visto sotto una tale prospettiva? Esso scompare.
La medesima ignoranza che ci fa considerare alcune cose necessarie ed
altre contingenti, ci fa giudicare alcune cose buone ed altre cattive, mentre
sono tutte provenienti da Dio: “Bene e male o peccato non sono altro che
del modi di pensare e non sono affatto delle cose o una qualche cosa, che
possegga l'esistenza... Tutti gli esseri, infatti, e tutte le opere che sono
nella natura sono perfetti” (100). “A questo punto si presenta il problema:
il bene ed il male appartengono agli esseri di ragione oppure agli esseri
reali? Ma, considerando che il bene ed il male non sono altro che delle
relazioni, non vi è dubbio che bisogna annoverarli fra gli esseri di ragione;
non si dice mai, infatti, che una cosa è buona se non in rapporto a qualche
altra cosa che non è altrettanto buona o che non ci è altrettanto utile quanto
un'altra... Il bene ed il male, come ad esempio la fuga di Pietro e la malizia
di Giuda, non hanno alcuna definizione al di fuori dell'essenza di Pietro o
di Giuda, (poiché questa sola è nella natura) e non possono essere definiti
indipendentemente dall'essenza di Pietro o di Giuda. Ne consegue che il
bene ed il male non sono né delle cose, né degli effetti che siano nella
natura” (101). “Si chiederà: Perché dunque gli empi sono puniti? Essi
infatti agiscono secondo la loro natura e secondo il decreto divino.
Rispondo che è anche per decreto divino che essi sono puniti, e se soltanto
coloro che noi immaginiamo che pecchino in virtù della loro propria
libertà devono essere puniti, perché gli uomini si sforzano di sterminare i
serpenti velenosi? Essi infatti peccano per la natura loro propria e non
possono fare diversamente” (102). Spinoza intende dissipare nell'Etica “i
pregiudizi relativi al bene ed al male, al merito ed al peccato, alla lode ed
al rimprovero, all'ordine ed alla confusione, alla bellezza ed alla bruttezza”
(103). Riafferma poi il suo pensiero dicendo: “Quanto al buono ed al
cattivo essi pure non significano nulla di positivo per lo meno nelle cose
considerate in se stesse, e non sono altro che del modi di pensare o del
concetti che noi formuliamo, perché paragoniamo le cose fra loro...
Sebbene sia così, dobbiamo tuttavia conservare questi vocaboli” (104).

In questi punti di vista di Spinoza vi sono, osserviamolo passando, molti
errori. Senza dubbio l'idea di bene e l'idea di male sono, in quanto tali,
degli esseri di ragione. Ma il bene ed il male non esistono unicamente
nello spirito, esistono entrambi nella realtà: il bene come una cosa
positiva, il male come privazione; esiste. la vista, esiste la cecità, prima
d'ogni considerazione del nostro spirito. E quanto alle relazioni, ve ne
sono di reali, che esistono nelle cose anteriormente alla considerazione del
nostro spirito, come le relazioni di uguaglianza o di similitudine: non
siamo noi a crearle, ma le constatiamo (105)
Così, nella prospettiva di Spinoza, ciò che chiamiamo il male ed il peccato
sono parimenti delle cose volute da Dio; i peccatori peccano
necessariamente e sono puniti necessariamente; la fuga di Pietro e la
malizia di Giuda derivano dalla loro rispettiva essenza, e, in ultima analisi,
dalla onnipotenza divina, come le proprietà del triangolo derivano dalla
sua definizione. Questo nuovo concetto dell'onnipotenza divina, che
riduce il reale ad un essere di ragione, annulla il libero arbitrio dell'uomo e
non esita a riferire all'onnipotenza divina la causa di ciò che chiamiamo
peccato, dunque sfocia essa pure in una bestemmia.

E' evidente che Descartes e Spinoza cercano in due modi diversi di
definire l'onnipotenza divina e, negando i rapporti del possibile e
dell'esistente, finiscono per dimenticare da una parte il mistero della
trascendenza di Dio, dall'altra il mistero stesso del male.

d) L'irrazionalismo: Nicola Berdiaev.
I) Per esaltare meglio l'onnipotenza divina, Descartes che la emancipa
dalla tutela della sapienza, e Spinoza che le nega la libertà, rinnegano
entrambi, per vie diverse, il mistero della trascendenza divina ed il mistero
del male.

Se la ragione, quella di Descartes e di Spinoza (e quella di san Tommaso
che non abbiamo certamente il tempo di esaminare) rinnega il mistero del
male, rinunciamo dunque alla ragione ed al valore dottrinale delle
enunciazioni, tanto di quelle che si allineano sul piano della metafisica,
quanto di quelle che si presentano come l'espressione dogmatica ed
ortodossa della rivelazione giudaico-cristiana. La ragione che si serve di
concetti, di giudizi, di discorsi, per dirla in breve, la ragione catafatica
(Nicola Berdiaev, che disprezza la metafisica, la chiamerà: ragione
euclidea) è incapace di dare una risposta vera su Dio o sul male; essa non
può fare altro che cadere in antinomie e provocare le obiezioni
dell'ateismo.

Ci resterà la “mistica”, il cui unico segreto per eludere le contraddizioni è
quello di tacere. E, quando dovremo parlare, ci resterà la religione
cristiana e la sua mitologia. I miti sono più efficaci delle teologie; sono in
grado di riempire d'incanto il nostro esilio, di sostenere la nostra speranza,
di promuovere la nostra azione. Ecco l'irrazionalismo quale si incontra, ad
esempio, nel gnosticismo di Berdiaev.

2) Cerchiamo di riassumere la risposta che Nicola Berdiaev dà al
problema del male, sul quale ritorna in tutte le sue opere. I suoi maestri
sono il “geniale” Jacob Boehme, Schelling, Dostojevskij.
Ecco come egli presenta la questione in Spirito e libertà: “La coscienza
razionalista dell'uomo contemporaneo considera l'esistenza del male e
della sofferenza come l'ostacolo principale alla fede in Dio, come
l'argomento più importante in favore dell'ateismo. Sembra difficile
conciliare l'esistenza di Dio, clementissimo ed onnipotente Dispensatore,
con l'esistenza del male cosi tremendo e così potente nel nostro mondo.
Questo argomento, l'unico che sia serio, è diventato classico. Gli uomini
perdono la fede in Dio e la fede nel senso divino del mondo, perché
trovano il male trionfante, perché provano delle sofferenze prive di senso,
generate da quel male.

“Ma la fede in Dio e la fede negli dèi nacquero nella storia della
coscienza umana, proprio perché l'umanità provava delle grandi sofferenze
e sentiva il bisogno di liberarsi dalla potenza del male. Se questo male che
sgomenta il nostro mondo non fosse esistito, l'umanità si sarebbe
accontentata del mondo di quaggiù e questo, libero da ogni male e da ogni
sofferenza, sarebbe stato la sua unica divinità. La liberazione non sarebbe
stata necessaria. Le sofferenze della vita, poiché dimostrano l'esistenza del
male, costituiscono una grande scuola religiosa, attraverso la quale
l'umanità deve passare. La vita che avesse ignorato ogni male sarebbe
sfociata in questo mondo nella contentezza di sé. L'esistenza del male non
è soltanto un ostacolo alla nostra fede in Dio, ma è, nello stesso tempo,
una prova dell'esistenza di Dio, la prova che questo mondo non è il solo né
l'ultimo. L'esperienza del male orienta l'uomo verso un altro mondo,
provocando un malcontento di questo in cui vive. Alla base dell'esperienza
e della coscienza religiosa si trova il pessimismo e non l'ottimismo. Tutte
le religioni della liberazione sono pessimistiche nei confronti della vita
universale e del mondo naturale, l'orfismo ed il buddismo lo sono quanto il
cristianesimo. Il senso positivo dell'essere risiede in un altro ordine, nel
mondo spirituale. Il nostro mondo naturale si trova in apparenza in potere
dell'inanità trionfante; in esso regnano la corruttibilità e la morte,
l'animosità e l'odio, l'egoismo e la discordia. L'uomo è oppresso dal non-
senso e dal male della vita universale. Nella religione, nella fede, egli si
slancia verso il mondo del senso (verso il mondo che ha un senso) e riceve
la forza che emana da quel mondo, nel quale l'amore trionfa sull'odio,
l'unione sulla divisione e la vita eterna sulla morte” (106).

Riassumendo, il male costringe l'umanità a superare la sua condizione
presente per mezzo dello spirito e dell'attesa di un'altra vita. Il male,
sofferto nell'umiltà, è per l'umanità il prezzo della grandezza. E' la risposta
verso la quale lo stesso Dostojevskij vuole condurre i lettori della
Leggenda del grande Inquisitore (107). Senza dubbio essa è preziosa:
espone una verità profonda dell'ordine etico, raggiunge persino la legge
evangelica della croce (108).

Ma vediamo in quale complesso mistico, la gnosi, che in Berdiaev
sostituisce la metafisica ed il dogma, avvolgerà tale risposta.

3) L'errore fondamentale, ripete instancabilmente Berdiaev, consiste nel
considerare Dio come il Creatore della libertà. Se egli è onnipotente sulla
libertà, allora è responsabile delle sue deviazioni, è Egli stesso l'autore del
peccato: “Avendo dotato l'uomo della libertà ed aspettando una risposta al
Suo appello, Dio in realtà attende la Sua propria risposta; Egli la conosce
già, Egli gioca in certo qual modo con Se stesso. Ecco la profonda
sorgente morale dell'ateismo” (109).

Ma, precisamente, ed è questa la risposta capitale di Berdiaev all'ateismo,
Dio non ha creato la libertà. Il Dio della Bibbia, il Dio Trinità, il Dio
Creatore del mondo e Salvatore degli uomini, il Dio del cristianesimo non
è onnipotente. Egli trova da sempre davanti a Sé, partecipe della Sua
stessa origine, una libertà dalla quale viene il male, e sulla quale non ha
potere. E così il problema della coesistenza di un Dio buono e del male è
risolta. Ma vediamo a che prezzo!

4) E' a questo punto che si ricorre a Jacob Boehme ed alla sua gnosi. Al di
sopra di tutto ciò che si può esprimere e concepire, al di là dell'essere e del
non-essere, del bene e del male, immaginiamo il Mistero originale come
un abisso senza fondo, l'Ungrund: ecco il nulla divino, l'assoluto della
teologia apofatica. Esso è troppo profondo per occuparsi del mondo (110).

Dal nulla divino, dall'Ungrund, nel quale tutto è indistinto ed
inafferrabile, nasce eternamente, senza poterlo certamente esaurire, la
Trinità, cioè il Dio che riguardo al mondo sarà successivamente; in virtù
del dramma che si svolge nell'intimo della stessa vita divina, Creatore,
Salvatore, Santificatore. Nessun concetto razionale della creazione del
mondo può essere formulato: anche qui, è possibile soltanto il mito.
Dal nulla divino, dall'Ungrund, nasce, assieme a Dio, la libertà, una
libertà sempre in marcia, meonica (da meo, camminare). Essa è la seconda
manifestazione dell'Ungrund.
Il Dio-Creatore, dichiarato onnipotente sul mondo, non ha potere sulla
libertà. “Di conseguenza, il Dio-Creatore è assolto da ogni responsabilità
riguardo alla libertà che ha generato il male. L'uomo è, nello stesso tempo
figlio di Dio, e figlio della libertà, del nulla, del non-essere, del meone” (I
II).
5) Ecco dunque due forze l'una di fronte all'altra: un Dio finito, che il suo
dinamismo interiore spinge a creare il mondo (la parola creare, come
abbiamo detto, non può avere che un senso mistico); e la libertà, non-
essere increato (essa pure un mito) che può rispondere sì o no al richiamo
di Dio. Essa in principio ha detto sì, poi si è rivoltata, ed allora sono
apparsi il male e la sofferenza. Come comprendere tale tragedia?

Si tratta anzitutto di una tragedia di Dio (112).Nel primo atto, Dio
desidera "il Suo altro Se stesso, il Suo amico: languisce dietro a lui ed
attende la sua risposta all'appello che gli volge, invitandolo alla Sua vita
ed alla Sua pienezza, esortandolo a collaborare alla Sua creazione, che ha
vinto il nonessere” (113). La risposta è dapprima un consenso alla
creazione, poi una rivolta contro Dio ed un odio verso di Lui, vale a dire
un ritorno al non-essere originale. In quell'istante il nulla, che non è un
male in sé, diventa effettivamente un male.

Ma ecco il secondo atto. “Dio non appare più sotto l'aspetto del Creatore,
ma sotto l'aspetto del Redentore e del Salvatore, del Dio sofferente che
prende su di Sé i peccati del mondo. Sotto l'aspetto del Dio-Figlio, scende
nell'abisso, nella profondità della libertà dalla quale nasce il male, ma
donde procede anche ogni bene; discende nel nulla che è degenerato in
male, e vi si manifesta non più nella forza, ma nel sacrificio. Possiamo
afferrare il mistero della Redenzione soltanto considerandolo sotto questo
aspetto, senza concepirlo da un punto di vista giuridico. Il sacrificio di
Dio, l'auto-crocifissione divina, deve vincere la cattiva libertà del nulla,
vincerla senza usarle violenza, senza privarne la creatura, ma
esclusivamente illuminandola” (114).

6) Vediamo dove conduce il torrente dell'irrazionalismo. Esso rovescia il
concetto di un Dio onnipotente, Creatore delle cose visibili ed invisibili e
di tutto l'universo delle libertà degli angeli e degli uomini. Esso gli
sostituisce il simulacro di un Dio finito, impotente di fronte ad una libertà
eterna quanto lui, ed il cui processo creatore si riduce ad un mito. Esso
annega nel mito i dogmi della Trinità, della creazione dell'uomo
nell'innocenza, della caduta (115), e quello dell'Incarnazione redentrice
che è la suprema speranza del cristianesimo.

E' ben vero che Dio ha bisogno del nostro amore. Ma si tratta del Dio
assolutamente trascendente, nel quale non vi è ombra di potenzialità, e che
ha bisogno del nostro amore, un bisogno insensato del nostro amore,
soltanto perché Egli l' ha liberamente voluto. Non è un Dio mitico, un Dio
finito, un idolo, che ricerchi il nostro amore per completare Se stesso e
nella speranza di perfezionarsi.

3. DIO MANCA DI BONTÀ?
Tutti i tentativi di spiegare la coesistenza di Dio e del male che ci invitano,
sia a modificare il concetto dell'onnipotenza divina, privandola della
sapienza (Descartes) o della libertà (Spinoza), sia, con un irrazionalismo
come quello di Berdiaev, a sostituire de1ibera.tamente al concetto di un
Dio infinitamente potente, il concetto mitico di un Dio finito, impotente di
fronte alla libertà, finiscono per spingerci nell'assurdo.

Ma se Dio è onnipotente ed infinitamente buono, come può, senza venire
meno alla bontà infinita, non creare il migliore del mondi? E' a questo
punto che entra in scena Leibnitz.

a) A che cosa è tenuto Dio in ragione della Sua bontà infinita?
A che cosa è tenuto, a che cosa non è tenuto Dio, in ragione della Sua
bontà infinita? Quale concetto di creazione è compatibile e quale è
incompatibile con il concetto di bontà infinita?
I) In ragione della Sua bontà infinita, è impossibile che Dio possa mai
volere un mondo radicalmente cattivo, un mondo che distrugga se stesso
(116), un mondo in cui trionfi universalmente l'assurdo, un mondo nel
quale il male, per quanto orribile, non sia, nell'insieme, o il rovescio o
l'occasione (117) di un trionfo del bene. Per parlare del mali peggiori, cioè
di quelli dell'uomo, diremo che l'atto dell'ateo è il contrario dell'atto di
libera adorazione; che bisognerebbe sopprimere il secondo per far
scomparire il primo; che è meglio lasciar crescere il loglio ed il frumento
piuttosto che bruciare il campo. Diremo pure che la rivolta dell'ateo sarà
vinta, ammettiamolo pure, nel caso che Dio forzi la sua volontà ribelle con
un raggio di misericordia che annienterà la sua ostinazione ma, se Dio
rispetta la sua volontà ribelle, se l'ostinazione persiste, bisognerebbe,
perché essa non s'infrangesse contro l'ordine divino, che Dio rinunziasse
ad essere ciò che è.

2) Se il male non fosse permesso in ragione di un bene, l'azione per la
quale Dio lo permette, lungi dall'essere buona (118), sarebbe perversa.
Invece di andare nel senso dell'azione creatrice verso una maggiorazione
dell'essere, andrebbe all'indietro verso una minorazione dell'essere. Essa
significherebbe che agli occhi di Dio, il male trova in sé la sua
giustificazione, che l'essere può essere creato semplicemente in vista di
essere distrutto, il bene amato semplicemente in vista di essere odiato, le
intelligenze e le volontà soccorse semplicemente in vista di essere, a un
certo momento, abbandonate. L'incubo del nulla occuperebbe il cuore di
Dio.

E' questa forse una delle prospettive più funeste che possano intossicare la
letteratura e l'immaginazione degli uomini, ma è anche la più miserabile
dal punto di vista metafisico.

3) Alla sola enunciazione della tesi di un Dio infinitamente buono che
lascia sopraggiungere il male nella Sua opera, il nostro cuore si stringe. Un
grido di protesta sta per prorompere in esso. Ma finché tale protesta resta
confusa, è ambigua: può essere santa o presuntuosa, può andare verso
l'adorazione o verso la bestemmia. Bisogna mostrare in che cosa essa è
santa, prima di mostrare in che cosa sarebbe precipitata, illusoria,
antropomorfica. Essa è santa e legittima, quando insorge contro l'idea che
il Dio infinitamente buono possa permettere al male di distruggere la Sua
opera e lasciargli l'ultima parola. Essa sarebbe folle e presuntuosa se
volesse andare oltre e, per esempio, proibire a Dio, in nome della Sua
bontà infinita, di creare un mondo nel quale appaiano quelle forme di bene
che sono un trionfo sul male.

Concluderemo dunque che, in ragione della Sua bontà infinita, Dio, se
crea, è tenuto, senza dubbio, a creare un mondo che, a conti fatti, sarà
buono.

b) A che cosa non è tenuto Dio in ragione della Sua bontà infinita?
L'errore consiste nel pensare che in ragione della Sua bontà infinita Dio sia
tenuto a creare piuttosto che a non creare; oppure a creare un certo mondo
migliore piuttosto che un certo altro mondo buono; oppure a creare un
certo mondo nel quale il male sia ammesso in vista di qualche grande
bene; oppure a creare “il migliore del mondi possibili”.

Senza dubbio Dio poteva creare un mondo senza male e senza peccato. Se
dunque si pensa che a causa della Sua bontà infinita lo doveva fare, si sarà
inevitabilmente indotti a dire che Egli è, per lo meno indirettamente,
responsabile del male e particolarmente del peccato. Ma dire e pensare
queste cose significa precisamente fare di Dio un idolo. Uno del
“vantaggi” del mistero del male (ed essi sono in verità numerosi) è
precisamente quello di costringerci a non adorare nessun idolo; ma nulla
di meno che Dio.

c) Dio era tenuto a creare?
Un istinto che sembra autentico, ma che è soltanto antropomorfico, ci
spinge a rispondere di sì. Dio, che è onnipotente, poteva creare. Orbene,
chi può produrre un bene e non lo fa, è riprovevole (119). Dunque Dio, per
essere irreprensibile e rimanere la bontà infinita, doveva creare.
Ma questo ragionamento, che sembra esemplare, non vale niente. La
minore di esso è vera riguardo a tutte le volontà create, che sono ordinate
al bene come la potenza all'atto, come il vuoto al pieno, e che, di
conseguenza, in virtù della loro stessa natura, sono tenute, costrette a
tendere verso una partecipazione sempre più alta del bene sovrano, a
divenire migliori e, in seguito a ciò, ad elevare costantemente il livello
d'essere dell'universo. Noi non siamo tenuti a fare del bene, se non in
quanto siamo tenuti a divenire migliori e a tendere verso il Bene sovrano
(120). Ci è impossibile tendere verso Dio, Bene comune esterno
all'universo, senza divenire migliori, e senza elevare di conseguenza il
livello del bene comune immanente nell'universo. L'obbligo d'essere noi
stessi migliori coincide ontologicamente con quello di fare del - bene agli
altri. Dove cessa l'obbligo di divenire migliori, e di elevare di conseguenza
il bene dell'universo, cessa l'obbligo di fare del bene. E divenire migliore è
cosa impossibile per Dio.

Per dirla in breve, la minore di quel ragionamento: “chi può produrre un
bene e non lo fa, è riprovevole”, è vera riguardo a tutte le volontà create,
perché la loro legge, in quanto create, è di tendere verso l'Assoluto. Ma,
trasportata attraverso all'antropomorfismo nell'Assoluto, diventa assurda.
Una Bontà infinita tenuta a creare, è, in ogni caso, una Bontà infinita che
non sarebbe tale se non creasse, che dunque sarebbe infinita
dipendentemente dalla sua creazione. E, nella prospettiva di un mondo che
non è stato creato da sempre, ma che ha avuto principio nel tempo, è una
Bontà infinita che non sarebbe stata tale anteriormente alla creazione, che
sarebbe divenuta tale nell'istante della creazione (121).

Orbene, un Dio tenuto ad esercitare la Sua potenza creatrice onde
aggiungere qualche cosa alla Sua perfezione, vale a dire al Suo proprio
essere, è propriamente una finzione, un idolo. Dal punto di vista
metafisico, è contraddittorio, impensabile che la produzione dell'essere
partecipato, creato, dipendente, possa aggiungere qualche cosa all'Essere
in sé, increato, indipendente, per elevarne il livello. Se Dio crea, non ci
sarà, dopo la creazione, più perfezione, più essere, più esistenza (plus
esse); ci saranno semplicemente più soggetti esistenti (plura entia). Senza
dubbio, nell'ordine quantitativo, un chilometro più un millimetro fanno più
di un chilometro; ma già nell'ordine qualitativo, vediamo che non si fa
salire il livello della scienza del maestro, addizionandovi la scienza del
suoi allievi. A più forte ragione, Dio tutto solo non rappresenta meno
perfezione, meno essere, meno esistenza, che Dio più il mondo. Quando
dunque si dice che Dio ha creato tutte le cose per Lui, ciò significa per
volgerle verso di Lui, per volgerle immediatamente verso la loro propria
perfezione, che è una similitudine ed una partecipazione alla Sua bontà
infinita (122). Ciò non può assolutamente significare per acquistare
qualcosa creando. Mentre tutti gli altri esseri coscientemente o no,
agiscono per acquistare qualcosa (123) (essendo magnanimi se tendono
verso un bene che li eleva, ed egoisti, se tendono verso un bene che li
avvilisce). Dio solo agisce in un modo puramente gratuito, senza ricevere,
unicamente per dare (124). E per questo, senza dubbio, il Signore Gesù
diceva che “c'è maggiore felicità nel donare che nel ricevere” (Atti, XX,
35).

Dio, in quanto Bontà infinita, può effondersi al di fuori in un'infinità di
modi, è vero. Lo deve fare? No, è impossibile ed inconcepibile che Egli lo
debba. Perché? Proprio perché Egli è la Bontà infinita. Ciò che è possibile
da parte di ogni bontà finita è impossibile alla Bontà infinita e cioè
divenire migliore, essere ordinata per effondersi al di fuori onde divenire
migliore, come la potenza è ordinata all'atto. La bontà infinita è così
trascendente, così libera, in rapporto alle cose finite, che essa può lasciarle
dormire nel loro nulla eterno o chiamarle all'esistenza senza che il minimo
atomo di essere sia spostato in lei. Soltanto che, se essa crea e se il male
compare nella sua opera, non comparirà certamente per avere la
prevalenza. Ogni concezione della bontà divina che non si elevi fino a
questo punto è inconsciamente sacrilega: viola il mistero di Dio, vi
sostituisce un simulacro. Dixi Domino: Deus meus es tu, quoniam
bonorum meorum non eges.
Ecco quanto si deve dire riguardo alla necessità della creazione; passiamo
ora alla tesi affine, cioè a quella della necessità dell'eternità del mondo.

d) Se Dio voleva creare, non doveva creare da sempre?
Quando i filosofi della reazione pagana, Platino, Porfirio, Proclo,
opponevano alla rivelazione giudaico-cristiana di un mondo che ha avuto
un inizio, la loro idea della necessità dell'eternità del mondo, essi
pensavano senza dubbio di esaltare il mistero di Dio, ma, in realtà,
lavoravano per un simulacro. “Con quale intenzione - domandava Proclo
ai cristiani Dio, dopo un ozio di una durata infinita, passerà a creare?
Perché pensa che è meglio? Ma prima, o lo ignorava o lo sapeva. Dire che
lo ignorava è assurdo e se lo sapeva, perché non ha incominciato prima?”
(125).

Si riconosce il sofisma di poco fa: Dio poteva creare da sempre (126). Chi
può produrre il bene subito e non lo fa è riprovevole. Dunque Dio,
siccome è irreprensibile, ha dovuto creare subito, vale a dire da sempre, ed
il mondo necessariamente è eterno. Dire che Dio ha potuto esistere solo,
senza coesistere col mondo, sarebbe come dire che Dio è stato imperfetto,
poiché poteva creare e non ha creato (127).

E' evidente che quei filosofi che trattavano il cristianesimo con disprezzo,
non uscivano dall'antropomorfismo. Essi si facevano un'idea troppo bassa
di Dio. Non comprendevano l'altezza della libertà divina, né
comprendevano che essa consiste in una indifferenza dominatrice assoluta
(128) verso tutto l'universo, in modo che Dio può creare o non creare,
creare questo o creare quello, creare un mondo senza un inizio temporale o
un mondo con un inizio temporale, esistere da solo o coesistere con lo
svolgimento del tempo, senza essere accresciuto o diminuito o toccato in
nulla. E' tutto il mistero della trascendenza della libertà divina di fronte al
mondo, forse più ancora che il fatto della creazione nel tempo, che ci
viene rivelato nella grande preghiera di Gesù: “E ora, o Padre, glorificami
presso di Te, con la gloria che avevo presso di Te, prima che il mondo
fosse fatto... Padre, coloro che Tu mi hai dati, voglio che là ove io sono,
siano con me, affinché vedano la gloria che Tu mi hai data prima della
creazione del mondo” (Gv., XVII, 5, 24). Oppure nelle parole di san Paolo
sul Dio “che ci ha scelti fin da prima della creazione del mondo, perché
fossimo santi ed irreprensibili davanti a Lui” (Ephes., I, 4).

E' una sola ed unica illusione quella che fa credere che, in ragione della
Sua bontà infinita, Dio sia tenuto, sia a creare, ed a creare da sempre, sia a
creare il migliore del mondi possibili.

e) Dio poteva creare del mondi migliori del nostro.
Il sillogismo fatale ricompare. Voi ammettete, ci dicono, che Dio poteva
creare un mondo migliore del nostro. Dunque lo doveva fare a causa della
Sua bontà infinita. Qualcuno aggiungerà anche: un Dio infinitamente
buono non doveva creare altro che il migliore del mondi possibili.
A questo ragionamento Leibniz non trova che una risposta che consiste nel
negare la maggiore (129): non ammette che Dio avrebbe potuto fare un
mondo migliore. Eppure Egli sa bene che c'è del male, molto male, nel
nostro mondo. Alla scuola di sant'Agostino (130), ha appreso che il male è
permesso soltanto in vista di un bene, che il mondo in cui appare ne riceve
del vantaggi e diviene di conseguenza migliore di quanto lo sarebbe stato.
Tutto ciò è esatto: ed è esatto, conseguentemente, che questo mondo è
buono. Un mondo migliore sarebbe possibile? Leibniz dice di no, san
Tommaso dice di sì. Quale di queste due risposte apre e quale chiude la
porta del mistero della trascendenza divina?

Il punto di vista di san Tommaso è semplice e profondo; da una parte, egli
dice, Dio non può non amarsi. La volontà divina si porta necessariamente
sull'Essere divino, sul bene divino.
D'altra parte è evidente che se Dio crea è per manifestare, per esprimere al
di fuori, il bene infinito ed incarnato che Egli stesso è.
Supponiamo, per assurdo, che un universo qualunque sia in grado di
manifestare e di esprimere adeguatamente il bene infinito ed in creato.
Dio, avendo deciso di creare, non potrebbe, nella Sua sapienza, volere
altro che quel mondo, lo vorrebbe necessariamente, non potrebbe volerne
un altro. Ma effettivamente l'ipotesi è assurda: un mondo che esprima
adeguatamente il bene infinito ed increato, non è creabile. C'è
contraddizione nei termini.


Un abisso insormontabile separa il bene infinito ed increato da tutto
l'universo delle cose create e creabili. Esso non ha con loro alcuna
proporzione, improportionabiliter excedens res creatas. Il bene finale
verso il quale si orienta tutto il movimento e tutto il progresso del nostro
universo (intendiamo parlare del suo bene comune, intrinseco, immanente,
del suo supremo livello di essere) è un bene finito e creato, essenzialmente
incapace di uguagliare il bene infinito ed increato. Persino a Dio è
impossibile esaurire mai la pienezza dell'essere in creato nel vaso degli
esseri creati, chiudere l'infinito nel finito. Qualunque mondo decida di
fare, ciò che sarà manifestato della sua pienezza infinita non equivarrà mai
ciò che da parte di essa è manifestabile.

Resterà sempre un margine infinito nel quale altri mondi potrebbero venire
a disporsi.

E' circa nello stesso periodo della sua vita che san Tommaso propone, nel
De potentia (131) e nella Summa (132), il problema: Dio può fare delle
Cose che non fa? A questo proposito egli riscontra due errori: da una
parte, quello del filosofi antichi che hanno pensato che Dio avesse fatto il
mondo non per libera volontà, ma per necessità di natura. Dall'altra parte,
quella del teologi come Abelardo (133) (e questo sarà pure l'errore di
Leibniz) che hanno pensato che la potenza di Dio sia stata costretta dalla
Sua sapienza e dalla Sua giustizia, a scegliere il corso presente delle cose.
Ma “l'ordine impresso nelle cose dalla sapienza divina, nel quale risiede la
ragione di giustizia, non può eguagliare la sapienza divina, né chiuderla
nei suoi limiti, non adaequat divinam sapientiam, ut sic divina sapientia
limitetur ad hunc ordinem”. Quando l'opera è proporzionata al fine, la
sapienza dell'artefice è limitata ad un ordine stabilito. “Ma la bontà divina
è un fine che eccede senza proporzione le cose create. Dal che risulta che
la sapienza divina non è determinata verso un ordine di cose stabilito, al
punto che un altro ordine di cose non possa essere emesso. Perciò, bisogna
dire che assolutamente Dio può fare altre cose oltre a quelle che ha fatto”
(134), e che “qualunque cosa Egli abbia fatto, ne può fare una migliore”
(135).

Troviamo gli stessi pensieri in De potentia. Il fine naturale della volontà
divina è la bontà divina che essa non può non volere. Ciò che Dio chiede
alle creature è questo: che manifestino questa bontà. Ma esse sono
incapaci di farlo adeguatamente. Dimodochè la volontà divina, senza
pregiudizio della sua sapienza, potrà sempre superare le proprie
realizzazioni. L'errore di Abelardo (e di altri dopo di lui) consiste
nell'immaginare che la creazione, qualunque essa sia, possa essere un
mezzo adeguato, commensuratum, per esprimere la bontà infinita di Dio e,
di conseguenza, per imporsi come necessaria (136).
Ne risulta che, se si suppone che Dio abbia scelto di creare questo mondo,
è necessario che questo mondo esista: ecco la necessità consecutiva ad una
supposizione, la necessità ipotetica.

f) La distinzione fra potenza divina assoluta e potenza divina ordinata
suddivisa in potenza ordinaria e potenza straordinaria.
Il limite che separa l'ampiezza illimitata della potenza divina e la sua
scelta effettiva, è indicato dalla distinzione fra la potenza divina assoluta e
la potenza divina ordinata. E' assai importante comprendere bene questa
distinzione. “In noi... ciò che è nella nostra potenza può non dipendere
dalla volontà giusta e dall'intelligenza saggia. Ma in Dio, potenza ed
essenza, volontà ed intelligenza, sapienza e giustizia, sono tutte la
medesima cosa. Così non può esserci nulla nella Sua potenza che non sia
nel medesimo tempo nella Sua volontà giusta e nella Sua intelligenza
saggia (137). Ma, come la volontà divina non è determinata
necessariamente verso questa o quella scelta, nulla impedisce che vi sia
nel campo della potenza divina qualcosa che Dio non vuole realizzare e
che non sia compreso nell'ordine che ha imposto alle cose... Si dirà che ciò
che dipende dalla potenza divina considerata in se stessa, Dio lo può fare
secondo la Sua potenza assoluta, e con questo si intende tutto ciò in cui
può essere salvaguardata la ragione d'essere. Si dirà che ciò che dipende
dalla potenza divina, in quanto essa eseguisce la decisione della volontà
giusta, Dio può farlo secondo la Sua potenza ordinata” (138).

Utilizzeremo dunque l'opposizione fra potenza assoluta e potenza ordinata
per ricordare la distanza infinita che esiste fra i mondi che Dio avrebbe
potuto creare nella Sua sapienza e nella Sua bontà, e il mondo che ha
liberamente stabilito di fare, sempre nella Sua sapienza e nella Sua bontà.
E nel mondo della Sua potenza ordinata aggiungeremo che Dio può agire
sia secondo le regole della Sua potenza ordinaria, sia in modo miracoloso
e secondo la Sua potenza straordinaria.

E' evidente che queste distinzioni fra potenza assoluta e potenza ordinata,
suddivisa in potenza ordinaria e potenza straordinaria, qualificano la
potenza divina non secondo ciò che essa è in se stessa, ma in rapporto ai
suoi effetti diversi (139).
http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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