DON ANTONIO

giovedì 15 settembre 2011

LA SPERANZA COME VIRTU’.Sintesi della relazione del PROF. DON RICCARDO BATTOCCHIO.(Facoltà teologica del Triveneto).MEIC, gruppo di Padova, 15 ottobre

In questi giorni non è facile parlare di speranza, perché se ne parla tanto e bisogna stare attenti che le parole che usiamo non perdano il loro significato.

Ci sono state anche a Padova, in anni recenti, occasioni pubbliche in cui si è parlato di speranza (al Centro universitario di Via Zabarella e all’Antonianum). Anche la teologia si è interessata della speranza, non solo come contenuto, realtà sperata, ma anche come virtù, forma dell’esistenza, quella che san Tommaso definiva come attesa certa della beatitudine futura. Verso la metà del 1900 l’interesse era stimolato dal confronto con le così dette speranze secolarizzate della tradizione marxista e liberale. Nel 1950, il filosofo tedesco Ernst Bloch, ha scritto Il principio speranza, cui ha reagito in maniera molto elaborata, J. Moltmann con La teologia della speranza, un testo letto ancora oggi. Negli anni sessanta la teologia si era scoperta chiamata a dimostrare che anche il cristianesimo è capace di dare speranza per questa umanità concreta, e che la speranza della beatitudine dopo la morte non giustifica il disimpegno dalla realizzazione delle speranze terrene. E’ un’anteprima della Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II. Per Moltmann la speranza escatologica ha il carattere di una forza che suscita le utopie creatrici, capaci di creare storia nuova, di libertà ed emancipazione da tutte le alienazioni.

Verso la fine del ventesimo secolo il clima culturale e filosofico è cambiato ed è messa in discussione non solo la speranza dei cristiani, ma tutta la speranza, in quanto tale. Se negli anni sessanta dominava il principio speranza ( Bloch), alla fine del ventesimo secolo si è sentita più l’urgenza di puntare sul principio della responsabilità, mediante il quale il presente ci chiede di essere responsabili. Al periodo delle utopie è succeduto quello in cui le attese più importanti per l’uomo sono quelle di una comunicazione ben riuscita, nella prospettiva del presente. Ci sono letture di tipo filosofico e sociologico che affermano questo: per il principio di responsabilità Hans Jones, per il passaggio dall’utopia alla comunicazione Jurgen .Habermas.

La fine del ventesimo secolo interpellava credenti e non credenti a riflettere sulla stessa possibilità di sperare, se mi è lecito sperare, non solo su ciò che noi possiamo sperare (Terza domanda di Kant). Compito quindi per il credente che riflette, è oggi quello di provare che sperare è sensato, tenendo conto, però, che gli anni che abbiamo vissuto recentemente ci suggeriscono che il problema è quello di un certo conflitto di speranze. I conflitti, legati all’appartenenza morale e religiosa, che agitano il nostro tempo, sono anche conflitti rispetto a ciò che ci attendiamo per il futuro: emergono

forme di fondamentalismo religioso o, all’opposto, di torpore indifferente.
LA SPERANZA CIECA

Il testo rappresentativo della figura della speranza cieca è tolto da una delle più grandi opere letterarie della civiltà classica, il Prometeo incatenato di Eschilo.

C’è un conflitto tra gli dei, tra padri e figli: Cronos è il padre, Zeus il figlio che vuole prendere il posto del padre. Cronos chiede aiuto ai Titani per lottare contro Zeus, ma vince Zeus che distribuisce agli dei i suoi doni, mentre abbandona gli uomini al loro destino. Nessuno gli si oppone tranne Prometeo, che libera i mortali dall’essere dispersi nella morte. Per questo si trova punito, incatenato nella roccia con l’aquila che gli rode il fegato, ad intervalli regolari. Il coro chiede: "Forse non sei andato troppo oltre? ". La risposta è: "Spensi all’uomo la vista della morte "." Che farmaco trovasti a questo male? " " Seminai la speranza che non vede , la speranza cieca ". Prometeo dona all’uomo il fuoco, la possibilità di controllare le forze della natura, cioè la tecnica, ma manca la riserva escatologica e la speranza diventa cieca.

La prima figura della speranza, se si può chiamare speranza, è legata all’illusione di poter manipolare il mondo.

LA SPERANZA MORTA

Nella Turandot di Puccini c’è l’episodio dei tre enigmi: Calaf, il principe che non ha ancora svelato il suo nome, per avere la mano della principessa Turandot, figlia dell’imperatore della Cina, deve rispondere a tre enigmi. I pretendenti che l’hanno preceduto non hanno saputo rispondere e hanno perso la testa, ma Calaf dà le tre risposte esatte. Il primo enigma dice: "Nella cupa notte vola un fantasma iridescente - sale e spiega l’ale sulla nera infinita umanità…..ma il fantasma sparisce con l’aurora, per rinascere nel cuore. E ogni notte nasce ed ogni notte muore " La speranza, risponde Calaf. "Sì, la speranza che delude sempre ", conclude Turandot.

Un altro esempio di speranza morta è offerto dal racconto del vangelo di Luca (Lc4, 21), quando i due discepoli di Emmaus, al viandante, che si è accostato loro chiedendo di che cosa stessero parlando, rispondono di Gesù Nazareno e aggiungono: " Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele " Una speranza al passato è una speranza morta che, anche in questo caso, sembra aver deluso! Chi dice speravamo, non spera più.

L’esito del venir meno della speranza può non essere la disperazione. Il disperare è un atteggiamento, un affetto, una passione che rimane apparentato alla speranza, non è una negazione della speranza, così si esprimeva Massimo Cacciari, in una conferenza di cinque anni fa, al Centro universitario di via Zabarella. La negazione della speranza assume piuttosto la forma della rassegnazione, che può non essere espressa in forme violente. E’ il lasciarsi andare, l’abbandonarsi alla realtà così com’è, senza resistere. Salvatore Natoli, figura della cultura laica recente, dice che chi non crede regge il limite, si adegua alla realtà, senza tragedie.

LA SPERANZA VIVA

La speranza viva è quella della prima lettera di Pietro, scelta dal convegno ecclesiale di Verona. Dice Pietro: "Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva. " Nell’articolo di Severino Pagani (Il Regno, Attualità, 16/2006, pp.574-575) la tesi di fondo è che è possibile, forse, recuperare la speranza viva, grazie alle relazioni con gli altri. La radice della non speranza o della debolezza della speranza, secondo Severino Pagani, si può trovare nella tendenza delle persone, e soprattutto dei giovani, a chiudersi in se stessi. Le chiama le totalità invadenti: la totalità del corpo, dell’io, dell’immagine, del piacere e negando che si possa entrare in relazione con altre persone, altre esperienze. Se vogliamo rendere vivibile la speranza, l’uscita da sé diventa la strada da percorrere. Per il cristiano è l’annuncio di una possibile relazione con il Risorto: la memoria della Pasqua fa vivere la speranza. Paradossalmente il Nuovo Testamento non mette al primo posto la speranza come valore, ma la coscienza dell’adempimento delle promesse nella Pasqua, in cui il futuro ha già fatto irruzione nella storia. La pienezza della realtà è calata in Gesù Cristo ed è affidata ai credenti anzitutto in un atto di memoria. La speranza vive grazie alla memoria, che rende attuale questa relazione con una Persona, con un evento presente nella vita della chiesa, nella relazione con l’altro.

Non si tratta di tre passaggi, per cui prima abbiamo la speranza cieca, poi quella morta, poi quella viva, ma sono tre situazioni, che fanno parte della nostra esperienza. Compito dei cristiani dovrebbe essere quello di dimostrare che è possibile far vivere la speranza, grazie alle relazioni e alla relazione fondamentale che è quella con Gesù Cristo, che si rende presente attraverso le persone concrete. Ma dove cercare la speranza? In quali situazioni, in quali relazioni?
Simboli di speranza
Il primo simbolo è quello del sonno. Nel salmo 4, utilizzato anche nella preghiera di Compieta, l’ultimo versetto dice: " In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo Signore al sicuro mi fai riposare ".In latino l’ultimo verso è:" Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me. ". Singulariter, cioè Tu, Signore, in modo singolare, buono per me, mi hai costituito nella speranza. La tranquillità, la fiducia è una dimensione che rende possibile la speranza. Questo perché il sonno dice quella passività originaria che ci costituisce: non siamo solo attivi, siamo anche passivi e questa passività non è un dato negativo, è una passività buona e il sonno ci ricorda questo: l’abbandono nel sonno. Il sonno è anche il luogo del dono, non solo nella Bibbia, ma anche in altre culture. Figura emblematica è il sonno di Adamo, quando Dio vuole donargli un aiuto che gli stia di fronte. La donna viene donata all’uomo nel sonno, per dire che ciò che è fondamentale per vivere non è il prodotto di un’attività, ma il dono accolto nella passività, un dono che però risveglia nell’uomo ciò che in lui è più vero, cioè la relazione che lo fa vivere. Questo sonno che è immagine della morte, è anche dono che diventa simbolo di speranza, risveglia e suscita responsabilità.

Altra immagine, quasi speculare, altro luogo simbolico è il cammino. Adamo ed Eva, l’uomo e la donna sono chiamati a porsi in relazione e a camminare insieme. Sono citati i due testi della prima lettera di Pietro e della lettera agli Ebrei. Qui si ricorda che il cristiano, ma in generale l’uomo su questa terra è in una posizione di pellegrinaggio. Il versetto 17 del capitolo primo, della prima lettera di Pietro dice: Comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio (in greco paroikia, cioè l’abitare di un forestiero in un luogo). La parrocchia è quella situazione di cammino in cui il credente si trova, la comunità cristiana è un popolo in cammino. E così pure il versetto 11 della prima lettera di Pietro, al capitolo secondo: Carissimi vi esorto come stranieri e pellegrini. E ancora la lettera agli Ebrei (11-13) in riferimento ai padri, che hanno visto e salutato i beni promessi solo da lontano, fa dire loro di essere stranieri e pellegrini sopra la terra, verso la città futura.

L’immagine del cammino è bene espressa dal testo di Charles Peguy, da tutti noto: " La speranza, piccola, s’avanza tra le sue due grandi sorelle, la fede e la carità. I cristiani non fanno attenzione che alle due grandi sorelle…., quasi non vedono quella che sta in mezzo, la piccina…In realtà, è lei che fa camminare le altre due! " La speranza non è solo ciò che viene prima della fede e della carità, ma è quella che le fa camminare. Qualche teologo recente ha riflettuto sul carattere non provvisorio della speranza, osservando che c’è anche la speranza del compimento per sé e per gli altri. Speranza è quindi virtù, come modo di esistere in rapporto agli altri, come orientamento stabile verso un bene, virtù assieme del sonno e del cammino e della libera accoglienza del dono. Nella tradizione filosofica greca la speranza non è una virtù, ma una passione e come tale va dominata. La patristica (San Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino) incomincia a chiamare virtù la speranza, anche se con qualche perplessità, perché il termine virtù, dal latino " vir ", sembra dire un modo di essere dell’uomo. La speranza, la carità, la fede, invece, sono doni che vengono dall’alto, ma che, affidati alla libertà e alla responsabilità dell’uomo, diventano virtù. Ecco allora il simbolo del sonno come luogo del dono e il simbolo del cammino come luogo dell’accoglienza e della responsabilità.

http://www.diweb.it/pd/meic/pubblicazioni/0607_20061015sintesi_conferenza_battocchio.htm

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