DON ANTONIO

domenica 11 settembre 2011

Tratto da:Xavier Thévenot, Ha senso la sofferenza?, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2009, p. 31-36

Il primo settembre abbiamo pubblicato l’introduzione di Luciano Manicardi, monaco di Bose, al volume “Ha senso la sofferenza?” di Xavier Thévenot, sacerdote e teologo, a lungo affetto dal morbo di Parkinson. Commentando l’approccio anticonvenzionale di Thévenot al problema del male e del dolore, Manicardi osservava: «Diffidando dei “bei discorsi” e delle “belle teorie”, mettendo in guardia dalle “scorciatoie del linguaggio” e dagli inganni di un “linguaggio approssimativo” che nutrono frasi spirituali e disumane, elevate e antievangeliche al tempo stesso, l’autore persegue il fine di umanizzare ed evangelizzare la sofferenza e dunque anche le parole sulla sofferenza».
Oggi proponiamo la prima parte di una serie di riflessioni che illuminano con molta efficacia questa impostazione. Thévenot punta il dito contro un certo tipo di uomo religioso, sempre pronto a dare spiegazioni della sofferenza, ma capace in sostanza di produrre solo «chiacchiere prive di equilibrio». I tipici ragionamenti che incoraggiano a “offrire” la sofferenza a Dio, a vedervi il segno della “predilezione” divina o uno strumento di “redenzione”, vengono smascherati nella loro ingannevole ambiguità, nel loro germogliare da un terreno che poco o nulla ha da spartire con l’autentico messaggio della Bibbia, e del Vangelo in particolare.
«Com’è possibile dire che ciò che disumanizza è liberatore, sta salvando il mondo, redime? A quale Dio, a quale Padre potrebbe piacere ricevere in dono ciò che disumanizza, rovina, mutila, in una parola il male?», chiede accorato Thévenot. In realtà, come suggerirà nella seconda parte della riflessione, ciò che salva, ciò che conferisce senso e compiutezza alla nostra vita, non è la sofferenza in sé, ma il modo in cui l’attraversiamo continuando ad amare Dio, noi stessi e gli altri, senza lasciarci travolgere dalla disperazione e dal non senso.

Cosa fare davanti a tanta sofferenza?
Ci sentiamo, innanzitutto, come estranei a noi stessi: «Non mi capisco più. Sono un altro rispetto a chi ero prima di soffrire. Come se fossi abitato da qualcun altro». Quando è forte, la sofferenza mi possiede, mi violenta. Non sono più padrone di me stesso, un’esperienza davvero dura.
Di noi si impadronisce anche una solitudine estrema. Chi mi può incontrare nella mia sofferenza? Tutte le parole che mi sono rivolte risuonano più o meno false... Mi sento solo. Chi è in grado di capire ciò che c’è di unico nel mio dramma interiore, nella mia prova fisica, psichica? Conosco allora la tentazione di rinchiudermi in questa solitudine. Eppure, nello stesso movimento, una parte di me vorrebbe comunicare. Sono lacerato tra questi due desideri, tirato da una parte all’altra.
Quando è molto forte, la sofferenza ci sembra stupida e assurda, come dicono i filosofi: «È folle guanto mi succede, non ha senso». Proprio quello che mi procurava la gioia di vivere, il corpo, la famiglia, i figli, la fede cristiana, oggi mi disorienta. Crollano ora tutte quelle certezze facili che sorreggono la fede e l’amore. A chi o a cosa rivolgermi per rimettermi in piedi? È lo smarrimento! Se sono cristiano, cerco di trovare il senso di quello che mi succede. Ascolto quello che si dice della sofferenza intorno a me. In particolare, coloro che stanno bene, i quali qualche volta diventano per me quasi come un insulto, perché scoppiano di salute, di gioia di vivere. Ci sono persone che hanno sempre pronte spiegazioni della sofferenza. I teologi, i preti, gli amici pieni di buone intenzioni che non esauriscono mai i discorsi e le belle teorie. Li ascolto con onestà ma per lo più sento solo chiacchiere prive di equilibrio.

I bei discorsi e le belle teorie
«Stai soffrendo, ma devi sapere che Dio prova in modo speciale chi ama. La tua sofferenza è segno della sua predilezione per te».
Negli ambienti cristiani è questa spesso la prima riflessione che si sente. Certo, se voglio essere un buon padre o una buona madre di famiglia, so di dover talvolta punire i miei figli per farli crescere, so di dover imporre loro delle esperienze dure, se non altro per formare la loro volontà ed educarne i desideri. Ma so anche di non dover mai imporre ai miei figli in modo arbitrario sofferenze che li schiacciano, che li mutilano, che spezzano il loro gusto di vivere e le loro relazioni.
Perciò pensieri di questo tipo, secondo i quali Dio ci invierebbe queste sofferenze come segno del suo amore per noi, ci sembrano insopportabili. Come se essere prediletti da Dio significasse essere mutilati del proprio gusto di vivere! Che fine fanno così le parole di Gesù: “Sono venuto perché abbiate la vita in abbondanza. Vi do la mia gioia. Nessuno potrà rapirvela” (cf. Gv 10,10; 15,11)?
No, queste teorie non sono affatto conformi al cristianesimo autentico.
Si ascoltano anche altri discorsi: «Stai soffrendo. Sii felice, perché la tua sofferenza serve a salvare il mondo. La tua sofferenza redime». In un primo momento, mi aggrappo a pensieri come questo. Almeno mi mostrano che la mia sofferenza, che in apparenza non serve a nulla se non a farmi disperare, è utile a qualcuno. Ma abbastanza in fretta anche qui spunta il dubbio.
Infatti, la sofferenza in quanto tale isola, deprime, spezza le forze di vita, con il suo peso può schiacciare chi mi è vicino e, quando è davvero forte, mi può far desiderare di farla finita con i miei giorni. In poche parole, la sofferenza disumanizza! Com’è allora possibile dire che ciò che disumanizza è liberatore, sta salvando il mondo, redime? Il cancro di qualcuno contribuisce a liberare gli altri? La sofferenza di un bambino innocente può essere liberatrice per qualcuno? C’è qualcosa di orribile nel dire cose simili. Decisamente, la formula “la sofferenza redime” mi sembra per lo meno piena di trappole, e carica di alcuni errori. E, in un attimo, ho voglia di unirmi ai miei amici non credenti che dicono: «Come fai a pensare che la sofferenza redima il mondo, se ti schiaccia tanto? Ne sparano tante i preti...».
Un altro discorso spesso ascoltato è: «Stai soffrendo? Offri le tue sofferenze a Dio». Certo, si vede bene l'atteggiamento autentico che si cerca di esprimere in questo modo: offri la tua vita a Dio, anche quando è sfigurata dalla sofferenza. Ma alla lettera la formula “offri le tue sofferenze” fa riferimento a un Dio quanto meno strano. Infatti, cos’è la sofferenza? Il male! A quale Dio, a quale Padre potrebbe piacere ricevere in dono ciò che disumanizza, rovina, mutila, in una parola il male? Questi non sarebbe forse un Dio perverso?
Già non è facile trovare il senso della mia sofferenza quando ci sono in mezzo, e mentre ci provo devo anche imbattermi nei discorsi di certi cristiani che mi sembrano in parte sbagliati e a dir poco pieni di insidie. Parole che non aiutano infine quella riconquista di me che mi sforzo di vivere dentro la prova.
Diffidare delle scorciatoie del linguaggio
Di scorciatoie ne facciamo di continuo... Talvolta è difficile eludere le trappole tese da un linguaggio approssimativo. Dire che Cristo ci redime con le sue sofferenze è una scorciatoia enorme!
Dovremmo dire, invece, che Gesù ci salva, ci libera con la sua intera vita, intessuta d’amore appassionato per l’essere umano, di speranza contro ogni speranza, di fede radicale nel Padre e negli uomini. E questo anche quando lo hanno condotto a soffrire terribilmente. A redimere non è la sofferenza di Cristo in sé, ma il fatto che dentro le sue sofferenze Gesù è stato un uomo che ha vissuto in pienezza l’amore, la fede e la speranza.
Dobbiamo sempre tenere in mente questa verità: solo quello che costruisce e libera l’essere umano redime. Ora, la sofferenza in sé non lo fa, di conseguenza non può redimere. Lo fa, invece, il modo in cui ciascuno cerca di umanizzare la propria vita dentro le sue sofferenze. E questo grazie a Dio e con Dio.
Anche l’espressione “offri le tue sofferenze” è un’enorme scorciatoia. Poiché la sofferenza in sé distrugge, il “piacere” di Dio non dovrebbe essere nel ricevere qualcosa che rovina. Dio, invece, trova la sua gioia nel ricevere ciò che costruisce l’uomo. La sua gioia è nell’accogliere ciò che l’amore di Gesù permette di edificare all’essere umano, malgrado le forze di disunione della sofferenza. Dio ama ricevere la fede, la speranza, l’amore, l’umiltà, la pazienza al cuore delle nostre sofferenze. Davvero ciò che costruisce l’essere umano permette alla persona che soffre di continuare a entrare in relazione!
Non si tratta di essere contro le scorciatoie del linguaggio, ma di essere consapevoli di quello che rappresentano. Altrimenti ci fanno deviare dalla vera fede e rischiano di farci immaginare un Di perverso. Dobbiamo, ad esempio, essere consapevoli che quando dico: «Signore, ti offro le mie sofferenze», in realtà voglio esprimere un’altra cosa: «Signore, ti offro il dono che mi fai di continuare ad accogliere la fede, la speranza e l’amore che tu, Dio, vivi verso di me». Ecco infatti una delle affermazioni più grandi della fede cristiana: Dio crede in me. Si parla sempre della fede dell’uomo in Dio, ma anche Dio crede in me. Dio spera in me. Dio mi ama, e ciò che libera è riconoscere questo dentro la sofferenza e sviluppare il dono che egli mi fa in suo Figlio.

Non cercare “il senso” della sofferenza
Si tratta in realtà di voler rendere la nostra vita più umana, più cristiana, più evangelica, malgrado la sofferenza. A sentire certi cristiani si potrebbe credere che la fede doni il senso della sofferenza: basta aprire la Bibbia, consultare la dottrina della chiesa o anche ascoltare la voce interiore di Dio. Ora, questo modo di pensare è sbagliato e non può che bloccare in vicoli ciechi. La sofferenza è l’esperienza dell’assurdo: non si capisce niente!
La fede cristiana mi impedisce di lasciarmi affascinare da questi sentimenti di stupidità e assurdità. Essa dà la forza di capire che Dio è dalla mia parte e al mio fianco per condurre con coraggio la lotta per dare senso alla mia vita... La fede mi fa compiere un vero e proprio lavoro su di me e con gli altri. Non semplicemente l’elaborazione del lutto, come dicono oggi gli psicologi, ma un lavoro pasquale: si tratta di abbandonare un certo modo di essere in una vita completamente sconvolta dalla sofferenza per trovare a poco a poco un altro modo di assumere il reale. Intuiamo che per un cristiano è molto importante rivolgersi a Dio, perché dispieghi la sua forza nella debolezza del credente e lo aiuti a condurre la buona battaglia. È anche fondamentale rivolgersi al Dio fatto uomo, Gesù di Nazaret. Anch’egli ha dovuto combattere contro l’assurdità e contro la sofferenza. Diventa perciò importante vedere in cosa Gesù ha sofferto e come ha vissuto la sua sofferenza.
Per evitare di perdersi nella riflessione sulla sofferenza, dobbiamo ritornare sempre all’esperienza di Gesù di Nazaret. I teologi ci giocano a volte degli scherzi identici a quelli del nostro psichismo. Ci presentano delle immagini di Dio bizzarre. Ritornare alla parola di Gesù: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9) è l’unico modo di sapere chi è Dio. Se voglio sapere come Dio si comporta con chi soffre, come Dio stesso ha vissuto nella sua umanità la sofferenza, devo ritornare a Gesù. Solo cosi disporrò di un criterio perfettamente sicuro per tentare di umanizzare la mia sofferenza.

http://www.fondazionegraziottin.org/it/articolo.php?EW_CHILD=13796

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