DON ANTONIO

domenica 4 settembre 2011

Quarto convegno ecclesiale di Verona.Prolusione.S.Em. Card. Dionigi Tettamanzi

Il Signore doni alla Chiesa italiana
umili e coraggiosi testimoni di Gesù risorto,
speranza del mondo
«Cristo è Risorto. Questa è la fede della Chiesa. Questa è la speranza che illumina e
sostiene la vita e la testimonianza dei cristiani» (Traccia…, n.1).
Carissimi, con questa professione di fede e di speranza il Signore ci dà la grazia di iniziare
la celebrazione di questo quarto Convegno della Chiesa italiana, di quella Chiesa
che voi partecipanti rappresentate nelle sue 226 diocesi e nelle sue molteplici e diverse
vocazioni e realtà: una Chiesa che è presente e viva nel nostro Paese.
Sentiamo particolarmente presenti tra noi S.E. Mons. Cataldo Naro, uno dei vicepresidenti
del Convegno, che il Signore ha improvvisamente chiamato a godere il
frutto maturo e pieno della speranza cristiana, e S.E. Mons. Giuseppe Betori, il Segretario
Generale della CEI: egli ci offre il più prezioso dei contributi, quello della
sua sofferta lontananza. Mentre esprimiamo gratitudine per il suo qualificato e generoso
apporto dato alla preparazione del Convegno, ci rassicurano le confortati notizie
sul suo rapido e pieno ristabilimento.
Introduzione
Il nostro Convegno prosegue i precedenti di Roma (1976), Loreto (1985) e Palermo
(1995), quali momenti importanti nei quali la Chiesa in Italia ha ricevuto e vissuto il
messaggio di rinnovamento venuto dal Concilio. Era proprio questa l’intenzione originaria
del primo Convegno: «tradurre il Concilio in italiano».
Ritengo che una simile intuizione debba essere ripresa e riproposta con forza
come criterio anche per questo nostro Convegno: ovviamente con l’accresciuta ricchezza
ecclesiale e nella modificata situazione sociale-culturale-ecclesiale del periodo successivo,
e insieme sull’onda di una preparazione al Convegno ampia e capillare, impegnata e
appassionata, come testimoniano – tra l’altro – le relazioni regionali e diocesane, i
contributi degli organismi nazionali e delle aggregazioni ecclesiali e di ispirazione cristiana,
e gli innumerevoli apporti giunti dalle più diverse parti.
In apertura del Convegno e nello stesso tempo giungendo alle sue radici, sono sicuro
di poter condividere con tutti voi un pensiero, un sentimento, un’istanza estremamente
semplici ma di grande significato. Li esprimo con una frase che mi è
abituale: parliamo non solo “di” speranza, ma anche e innanzitutto “con” speranza. È la speranza
come “stile virtuoso” – come anima, clima interiore, spirito profondo – prima
ancora che come contenuto.
È proprio questo lo stile del Vaticano II, verso cui il nostro Convegno rilancia il suo
ponte di raccordo, accogliendo in modo convinto e rinnovato il testimone che i Padri
conciliari hanno consegnato al mondo nel loro “congedo”: «Le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli
di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la
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sua storia» (Gaudium et spes, n. 1). A ricordarci questa consegna strategica del Concilio alla
Chiesa e al mondo è Paolo VI, che nell’omelia di chiusura lo difendeva dall’accusa
di «un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla
moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui» (EV I 454*), ne esaltava
l’atteggiamento «volutamente ottimista» e lo indicava in modo programmatico come
stile tipico della Chiesa: «Una corrente di affetto e di ammirazione – diceva il Papa – si è riversata
dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la
carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore.
Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi
di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori
sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni
purificate e benedette» (EV I 457*).
La speranza come stile virtuoso è parte essenziale e integrante del realismo cristiano. Certo,
nessuno di noi può minimamente negare o attenuare l’esistenza dei tantissimi
mali, drammi, pericoli crescenti e talvolta inediti dell’attuale momento storico –
l’elenco non terminerebbe mai –, ma tutti, grazie alla presenza indefettibile di Cristo
Signore e del suo Spirito nella storia d’ogni tempo, possiamo e dobbiamo riconoscere
che la speranza non è solo un desiderio o un sogno o una promessa, non riguarda
unicamente il domani, ma è una realtà molto concreta e attuale, che non abbandona
mai la nostra terra: le persone, le famiglie, le comunità, l’umanità intera, soprattutto
la Chiesa del Signore.
È dunque nella coscienza umile dei nostri ritardi, fatiche, lentezze e inadempienze e
nel segno di un’immensa gratitudine al Signore e di una fiducia incrollabile nel suo amore che
siamo chiamati a vivere questo Convegno nell’orizzonte della speranza. Chi ha occhi
e cuore evangelici vede e gode del numero incalcolabile di semi e germi e frutti e
opere concrete di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti delle nostre Chiese
e nella nostra società. Ci sono tantissime persone e gruppi che continuano a scrivere
“il Vangelo della speranza” nelle realtà e nelle vicende più disagiate e sofferte
della vita quotidiana. Possiamo allora applicare qui quanto leggiamo nell’esortazione
Christifideles laici: «Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso:
quello di tantissimi laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività
d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della
terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella
vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi – certo per la potenza della grazia
di Dio – della crescita del regno di Dio nella storia» (n. 17).
Ora questa mia Prolusione vuole solo “introdurre” al Convegno. Ma come? Lo penso,
questo Convegno, come un momento di grande grazia e di forte responsabilità, nel quale
siamo posti di fronte ad una rinnovata effusione dello Spirito santo che tutti ci coinvolge
e ci sollecita all’ascolto: sì, all’ascolto reciproco – piccola e grande cosa, questa! -,
ma ancor più all’ascolto della voce di Dio e del suo Spirito, dei “sogni” che Gesù
Cristo oggi ha nei riguardi delle nostre Chiese e della nostra società: «Chi ha orecchi,
ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Apocalisse 2,7).
In concreto, l’appello è a rivisitare alcuni cammini ecclesiali che stiamo facendo, a
lasciarci incrociare dalle sfide di cui oggi sono segnati e a scioglierle con la forza della
nostra testimonianza, con il nostro essere “testimoni di Gesù Risorto, speranza del
mondo”.
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Con voi desidero ora soffermarmi, nella prospettiva indicata, su di un triplice cammino
della nostra Chiesa in Italia.
Gesù Cristo crocifisso e risorto: speranza che non delude
Il primo cammino avvenuto è quello di una maturazione sempre più chiara e forte della coscienza
della Chiesa circa la sua missione evangelizzatrice. È questa, e non altra, la missione
della Chiesa: le viene riconsegnata ogni giorno da Cristo e dal suo Spirito come missione
tipica, irrinunciabile, sempre aperta, necessaria e insostituibile perché voluta in
ordine alla fede e alla salvezza di tutti gli uomini.
E aggiungiamo: si tratta di una missione che sta vivendo una stagione di singolare
urgenza e indilazionabilità. Infatti, in intimo rapporto con la coscienza evangelizzatrice
registriamo una più diffusa ed esplicita consapevolezza della “distanza” (nel senso
di estraneità o/e di antitesi) che nel nostro contesto socio-culturale e insieme ecclesiale
esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. È, da un lato, il
contesto del secolarismo, dell’indifferentismo religioso, della cultura estranea o contraria
al Vangelo quando non addirittura alla stessa razionalità umana; e, dall’altro lato,
è il contesto di un’interruzione o di un rallentamento dei canali ecclesiali classici
di trasmissione della fede, come la famiglia, la scuola, la stessa comunità cristiana.
Se è così, non è allora esagerato dire che l’evangelizzazione e la fede si ripropongono
oggi con singolare acutezza come il “caso serio” della Chiesa.
Di qui l’urgenza di tenere viva la preoccupazione per la “distanza” che esiste tra la fede
cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. Senza dimenticare, peraltro, che
una simile distanza – sia pure in forme e gradi diversi – ha sempre segnato la vita
della comunità cristiana, e ancor più ha segnato e continua a segnare il cuore di ogni
credente, che nella prospettiva di san Giovanni è pur sempre un incrocio di fede e di
incredulità, di sequela del Vangelo e di arroccamento su se stessi e sul proprio egoismo.
Ma la grande sfida pastorale rimane in tutta la sua gravità: come eliminare o attenuare
questa “distanza”?
Risponderei dicendo che prioritario e decisivo oggi è di tenere massimamente desta
non tanto la preoccupazione per la “distanza”, quanto la preoccupazione per la “differenza”,
per la “specificità” della fede cristiana. Meglio e inserendoci nell’orizzonte del
Convegno, diciamo: siamo chiamati a “custodire”, ossia conservare, vivere e rilanciare
l’originalità, di più la novità – unica e universale – della speranza cristiana, il
DNA cristiano della speranza presente e operante nella storia.
L’appello del Convegno è di tornare e ritornare senza sosta, con lucidità e coraggio,
a interrogarci – per agire di conseguenza – su: chi è la speranza cristiana? quali sono i
suoi tratti qualificanti? come essa incrocia l’uomo concreto d’oggi nei suoi problemi e nelle sue attese?
1. La speranza è Gesù Cristo! Non pronuncio una formula, ma proclamo una convinzione
di fede: la mia, la nostra, quella della Chiesa. È la stessa fede dell’apostolo
Paolo, che così scrive nella lettera ai Romani: «La speranza poi non delude, perché
l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci
è stato dato» (5,5).
Fondamento incrollabile e sorgente viva – e insieme dinamismo inarrestabile e
formidabile risorsa – della speranza cristiana è l’amore di Dio effuso in noi dallo Spirito,
quell’amore senza misura o calcolo, sovrabbondante, eccedente, folle, “sprecato”
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(cfr. Marco 14,3-9), vissuto «sino alla fine» (Giovanni 13,1) che è stato donato totalmente
da Gesù Cristo sulla croce e che viene riofferto con le sue ferite sempre aperte e il suo
costato squarciato nel memoriale del suo sacrificio, cioè nell’Eucaristia.
Ave crux spes unica! È la morte gloriosa di Cristo il luogo sorgivo e l’alimento costante
della speranza della Chiesa e dell’umanità. Qui, nell’incontro vivo con Gesù
crocifisso e risorto, viene dato alla Chiesa quel grande appuntamento che la costituisce
nella storia – in ogni sua epoca – quale sacramentum spei, segno e luogo di speranza
per tutti gli uomini, le persone e i popoli. Ed è qui l’incontro di tutti noi che, come
membri della Chiesa, riceviamo la grazia e la responsabilità di essere, nel cuore e
nella vita, annunciatori e testimoni dell’unica speranza – quella assolutamente nuova
e rinnovatrice che viene dalla morte e risurrezione di Gesù – che sa dare risposta vera
e piena alle attese delle persone e della società.
2. “La speranza che non delude” presenta, tra gli altri, alcuni tratti qualificanti, che
pongono oggi al cammino spirituale-pastorale-culturale della nostra Chiesa nuove
sfide. Sono sfide gravide sì di difficoltà, ma insieme di opportunità feconde, di appelli
di grazia proprio a partire dalla forza incontenibile, pervasiva e trasformatrice
della speranza cristiana.
Ricordo, in particolare, che la novità della speranza cristiana si ritrova e si sprigiona
in particolare nell’evento della risurrezione di Cristo, nella vita eterna che ci attende,
nella comunione beatificante con Dio come destino offerto all’umanità.
Non è questo il momento per l’analisi di questi contenuti caratteristici della speranza
cristiana. È piuttosto il momento di sottolineare l’urgenza e la drammaticità di un
loro ricupero e rilancio, prendendo coscienza tutti che la scommessa più forte, in un certo
senso cruciale, all’inizio del terzo millennio – nel contesto di una società cosiddetta liquida
e ripiegata e quasi esaurita sull’immediato – consiste nel mettere in luce – con la
parola e con la vita – la fondamentale e ineliminabile dimensione escatologica della fede
cristiana. E dunque la sua valenza o proiezione di futuro, ma di un futuro che si sta
costruendo nel presente, proprio dentro le tante e più diverse “attese umane”.
In realtà, in questione non è semplicemente la fine, la conclusione della vita, ma il
fine, il senso, il logos della vita dell’uomo. E questo, proprio perché tale, rimandandoci
al traguardo ci coinvolge nel cammino in atto: la speranza cristiana entra, abita, plasma
e trasforma l’esistenza quotidiana. Per il cristianesimo – che è memoria, celebrazione
ed esperienza viva dell’evento del Figlio eterno di Dio fatto uomo per noi
nella “pienezza del tempo” – è una vera e propria eresia pensare che l’aldilà sia ininfluente
o alienante l’uomo che vive sulla terra e nel tempo. Desidero citare un testo
del Concilio, che scrivendo dell’atteggiamento di fronte all’ateismo afferma: la Chiesa
«insegna che la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni
terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della attuazione di essi. Al contrario, invece,
se manca il fondamento divino e la speranza della vita eterna, la dignità umana
viene lesa in maniera assai grave, come si costata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi
della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto
che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione» (Gaudium et spes, 21).
Di qui il grave e inquietante pericolo, religioso ed umano ad un tempo, di
un’eclissi o smemoratezza del tratto escatologico della fede cristiana, che viene proclamato
nelle ultime parole del Credo: «Credo la risurrezione della carne e la vita eterna
». Sì, sono le ultime parole, ma in qualche modo sono quelle riassuntive e decisive
dell’intero Credo, proprio perché offrono la chiave di lettura e di soluzione dei
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problemi antropologici più complessi e decisivi per l’esistenza, a cominciare dal senso
del morire e quindi dell’intera esistenza umana come tale.
E così siamo introdotti a cogliere lo spessore umano, la consistenza antropologica
della speranza cristiana.
3. La speranza in Cristo genera un rinnovato pensiero antropologico. Sbocciata nel cuore di
Cristo - Dio fatto uomo, morto risorto e veniente – e riversata dal suo Spirito nel
cuore del credente e di ogni uomo, la speranza raggiunge e coinvolge l’uomo nella sua
totalità e radicalità, quale meraviglioso microcosmo: di struttura, dinamismi, finalità; di
anima psiche e corpo; di individuo e comunità; di unicità irripetibile e tessuto vivo di
relazioni; di tempo e di eternità, di spazio e di infinito.
Si fa qui inevitabile, e insieme quanto mai interessante, l’intreccio tra la speranza cristiana
e la questione antropologica, che si è riproposta in modo particolarmente acuto
nella nostra cultura. Non sto parlando soltanto della cultura cosiddetta “alta” – appannaggio
dei filosofi e teologi, degli scienziati e tecnocrati, degli uomini dell’economia-
finanza-politica-comunicazione sociale, ecc. –, ma e non meno della cultura
che contagia e modula ogni persona e ogni gruppo sociale nella loro esistenza quotidiana.
Ora la speranza cristiana, grazie alla novità dei suoi contenuti e in concreto all’esperienza
di Dio e dell’uomo che essa genera e alimenta, possiede un formidabile potere
di trasformazione sulla visione, di più sull’esperienza odierna dell’uomo: vale a dire su
l’immagine e la concezione della persona, l’inizio e il termine della vita, la cura delle
relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, l’educazione e la trasmissione dei
valori, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure
della convivenza tra le religioni e le culture e i popoli tutti.
Si apre oggi con più forza a tutta la nostra Chiesa in Italia il compito di elaborare –
con un’interpretazione che sappia intrecciare fede e ragione, teoria e prassi, spiritualità
e pastoralità, identità e dialogo – una rinnovata figura antropologica sotto il segno della
speranza. Esiste infatti, in sintonia con l’intellectus fidei, un intellectus spei, un’intelligenza
della speranza – una vera speranza è realtà che è nella storia e la costruisce, e dunque
non può non vedere, non leggere, non interpretare, non decidere, non toccare il vissuto
concreto dell’uomo – da cui deriva un sapere della speranza che si ripercuote sulla
questione antropologica.
Non potrebbe incominciare da qui una specie di “seconda fase” del progetto culturale in
atto nella nostra Chiesa? una fase che rimetta al centro la persona umana e il suo bisogno
vitale e insopprimibile, appunto la speranza, come rilevava in modo incisivo
sant’Ambrogio dicendo che «non può essere vero uomo se non colui che spera in
Dio» (De Isaac vel anima, 1,1)? Forse è possibile un’analogia: come la Dottrina Sociale
della Chiesa e la conseguente prassi hanno la persona umana come principio fondativo
e architettonico dei loro più svariati contenuti, così l’azione spirituale-pastoraleculturale
della Chiesa potrebbe strutturarsi in riferimento alla centralità della persona
umana, nella sua dignità di immagine viva di Dio in Cristo e nella concretezza delle
sue situazioni e relazioni quotidiane.
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La Chiesa: una comunione nella varietà per l’unità e l’universalità
Un secondo cammino avvenuto e in atto nelle nostre Chiese è quello di una maturazione
della coscienza e della prassi della comunione ecclesiale. È il frutto e il segno
dell’ecclesiologia di comunione donataci dal Concilio e vissuta nel periodo successivo,
eco viva e sviluppo concreto dell’antica parola di san Cipriano: la Chiesa è come
«un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (De Oratione
Dominica 23).
Questa maturazione si trova oggi a dover affrontare nuove sfide, perché la testimonianza
dei cristiani si situa all’interno di un mondo e di una società gravati da molteplici
tensioni, contrapposizioni, divisioni, conflitti, solitudini immense e angosce
profonde, ecc.; ma anche all’interno delle stesse comunità e realtà ecclesiali che non
poche volte faticano o rinunciano a “camminare insieme”, non conoscono la “sinodalità”:
non certo come parola, ma come esperienza di vita e di partecipazione ecclesiale.
Senza dire, in positivo, che oggi si danno opportunità inedite e urgenze più
forti per vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e, proprio per
questo, più missionaria.
E la risposta alle sfide passa, ancora una volta, attraverso il ricupero e il rilancio
della fede professata-celebrata-vissuta, di una fede che genera e corrobora la speranza
cristiana. E questa ha un suo proprio contributo da offrire per il realizzarsi della comunione
ecclesiale. Mentre illumina alcuni aspetti propri del nostro “camminare insieme”
come Chiesa, la speranza cristiana ci garantisce le risorse specifiche necessarie.
E ora con la preoccupazione pastorale concreta, propria di un Vescovo, desidero
offrire alcuni spunti sulla comunione ecclesiale in quanto comunione nella varietà per
l’unità e l’universalità.
1. La comunione ecclesiale è un dono di Dio, è un bene della Chiesa e per la Chiesa
(e insieme della e per la società), è una promessa di Cristo e del suo Spirito, è un ideale
alto ed esigente, un comandamento, una responsabilità per tutti, ecc. Certo, sto ricordando
a me e a voi una prospettiva di fede. Ma questa, con la forza della grazia e la libera
risposta del credente, costruisce la storia quotidiana di una Chiesa, delinea il volto
visibile e preciso di una comunità cristiana che a tutti può presentarsi nella realtà
concreta di una comunione di persone, una comunione singolare, perché segnata insieme
dalla varietà e dall’unità, dall’unità e dall’universalità.
Eccoci allora a riprendere in modo più convinto e determinato il compito spirituale-
pastorale-culturale della nostra Chiesa, chiamata a rielaborare e rivivere il tessuto
dei profondi legami che intercorrono tra la varietà e l’unità della e nella Chiesa, tra
la sua unità e universalità, tutto come riflesso luminoso del mistero dell’infinita ricchezza
di Cristo e del suo Spirito. Varietà e unità, unità e universalità non si contrappongono,
ma si incontrano nel segno della complementarietà, della circolarità,
anzi della compenetrazione profonda. Più radicalmente la varietà è generata dall’unità,
dell’unità è espressione e vita, nell’unità sfocia come a suo fine.
Così come si ripropone con maggiore forza il compito di rielaborare e realizzare
l’indissolubile legame che esiste tra l’unità e l’universalità della Chiesa. Come il bonum
è diffusivum sui, così il bene della comunione ecclesiale quanto più si fa profondo e intenso
tanto più si apre e si dilata, insieme si concentra e si espande senza limiti: dai
singoli cristiani a tutti i cristiani, dalle singole Chiese locali alla Chiesa universale. Ri7
troviamo qui il meraviglioso fatto della communio sanctorum, e nello stesso tempo ci
vengono incontro le nuove possibilità aperte dai fenomeni della globalizzazione. E
così il credente è membro della Chiesa cattolica e cittadino del mondo.
Certo, sono prospettive note. Ma come lasciarci concretamente contagiare e trasformare
quando rischiamo di rimanere chiusi e prigionieri di un camminare insieme
troppo angusto, stolto e sterile? La comunione “nuova” e “originale” della Chiesa è
di essere “cattolica”, chiamata dunque a coinvolgere tutti, a raggiungere l’umanità intera.
Per sua natura è il segno dell’amore universale di Dio, è il frutto del dono di
Cristo che muore sulla croce per tutti, è missionaria e lo è da Gerusalemme «fino agli
estremi confini della terra» (Atti 1,8).
Da qui nasce la missio ad gentes, da qui deriva la modalità ecclesiale che deve distinguere
tutte le forme di presenza nelle Chiese di altri popoli o di altri mondi, da qui
emerge il paradigma d’ogni impegno pastorale missionario: dentro e attraverso la
comunione tra Chiese sorelle. E da qui vengono anche la grazia e la responsabilità di
una nuova visione e realizzazione della mondialità e della grande questione della giustizia e della
pace!
Come si vede, sto declinando il riferimento alla comunione ecclesiale in termini di
universalità, ma tale riferimento si fa subito anche estremamente “domestico”, perché
ci tocca nella concreta comunione che di fatto esiste – o non esiste – nelle e tra
le nostre Chiese, nelle e tra le nostre diverse realtà ecclesiali. Da parte mia ritengo
quanto mai appropriata e stimolante la rilettura ecclesiologica del comandamento biblico
dell’«ama il prossimo tuo come te stesso», che con rigorosa logica si declina così: «ama la
parrocchia altrui come la tua, la diocesi altrui come la tua, la Chiesa di altri Paesi
come la tua, l’aggregazione altrui come la tua, ecc.». Sto forse esagerando e rifugiandomi
in una specie di sogno, o non piuttosto confessando la bellezza e l’audacia della
nostra fede? Non ci sono dubbi: nel mysterium Ecclesiae ciò è possibile, ciò è doveroso:
non solo nell’intenzione e nella preghiera, ma anche nella concretezza dell’azione.
Per concludere questo primo spunto, rilevo come proprio a questo livello quotidiano
possiamo cogliere l’intimo e inscindibile legame tra comunione e missione, tra missione e
comunione. Sono assolutamente inseparabili: simul stant vel cadunt. Secondo la categorica
parola di Gesù, anzi secondo la sua appassionata preghiera: «Come tu, Padre, sei
in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu
mi hai mandato» (Giovanni 17,21). La Christifideles laici così chiosa il testo evangelico:
«In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione» (n. 31).
2. Il secondo spunto vuole rileggere la Chiesa quale “comunione nella varietà per
l’unità e l’universalità” in più diretto riferimento alle persone che della Chiesa sono “le
pietre vive”: alle persone nella concretezza del loro stato e condizione di vita, di vocazioni,
di doni e compiti, di ministeri, ecc. È l’unico popolo di Dio nella sua eccezionale
varietà. Sono tutti i Christifideles. Sono i presbiteri e diaconi, le persone consacrate,
i laici.
Ma nella Chiesa – che come memoria vivente di Gesù, il Verbo incarnato, è composta
di uomini e donne concreti – la comunione donata e richiesta dal Signore può
e deve essere vissuta e testimoniata non soltanto nella modulazione specificamente
ecclesiale (in rapporto alle categorie ora ricordate), ma anche in una sua modulazione
antropologica e sociale. Proprio nella Chiesa, in una maniera nuova e rinnovatrice, può e
deve realizzarsi la comunione più variegata e talvolta più difficile: è, per esemplifica8
re, la comunione tra uomini e donne, giovani e adulti, ricchi e poveri, studenti e maestri,
sani e malati, potenti e deboli, vicini e lontani, cittadini del paese e cittadini del
mondo, giudei e greci, schiavi e liberi (per usare le parole dell’apostolo: cfr. Galati
3,28), fortunati e disperati, ecc.
E per ritornare alla modulazione propriamente ecclesiale della comunione, al di là
dei tanti passi positivi compiuti nella nostra Chiesa, siamo consapevoli che l’essere
oggi “testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” domanda una comunione missionaria
tra le diverse categorie di fedeli più compattata e dinamica, più libera e insieme
strutturata, più convinta e convincente, più visibile e credibile. Non si dà testimonianza
cristiana al di fuori o contro la comunione ecclesiale!
Una comunione, questa – lo dobbiamo marcare con forza –, che nel suo spirito
interiore e nel suo realizzarsi storico fiorisce e fruttifica sempre e solo come triade
indivisa e indivisibile di comunione-collaborazione-corresponsabilità. La comunione ecclesiale
conduce alla collaborazione: dall’anima e dal cuore alle mani, ai gesti concreti della vita,
alle iniziative intraprese, in una parola al dono reciproco e al servizio vicendevole (cfr.
Romani 12,9ss). E, a loro volta, comunione e collaborazione non possono non portare
a forme di vera e propria corresponsabilità, perché l’incontro e il dialogo sono tra
soggetti coscienti e liberi, tra le menti che valutano la realtà e le volontà che liberamente
affrontano e forgiano la realtà stessa, e dunque nell’ambito del discernimento e della
decisione evangelici-pastorali. Certo, una corresponsabilità nella quale sono diverse
le competenze e diversi i ruoli dei vari membri della Chiesa, ma sempre un’autentica
corresponsabilità.
È in questo contesto e secondo questo spirito che è più che legittimo, anzi doveroso
il richiamo alla specificità dei vari stati di vita, vocazioni e missioni nella Chiesa. Infatti,
solo nel confronto e nell’incontro e nel riferimento all’unità e universalità la specificità
può essere custodita, promossa ed esaltata: diviene cioè ricchezza per tutta la
Chiesa. Secondo la parola dell’apostolo: «a ciascuno è data una manifestazione particolare
dello Spirito per l’utilità comune» (1 Corinzi 12,7). E secondo la parola di papa
Benedetto XVI: «Al di là dell’affermazione del diritto alla propria esistenza, deve
sempre prevalere, con indiscutibile priorità, l’edificazione del Corpo di Cristo in
mezzo agli uomini» (Al II Congresso dei Movimenti ecclesiali, 22 maggio 2006).
Il nostro Convegno è chiamato qui a dire una parola, molto attesa e doverosa, sui Christifidels
laici, sui laici e sul laicato. Occorrerebbe, forse, un’intera Prolusione ad hoc. Ma
pur rapidamente esprimo qualche convinzione e qualche urgenza per la Chiesa in Italia
e per il nostro Paese.
Inizio con una parola che è di quasi vent’anni fa: è venuta l’ora nella quale «la
splendida ‘teoria’ sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un’autentica ‘prassi’
ecclesiale» (Christifidels laici, 2). E l’ora è aperta, conserva tutta la sua urgenza, ma va
accelerata nel senso di coglierne l’intera ricchezza di grazia e di responsabilità per la
missione evangelizzatrice della Chiesa e per il servizio al bene comune della società,
in una parola per la testimonianza cristiana e umana nell’attuale situazione del mondo.
Sento poi di dover esprimere stima e gratitudine per la testimonianza evangelica e
civile che tantissimi laici e il laicato nelle sue varie forme, grazie alla loro propria e
peculiare co-appartenenza alla Chiesa e al mondo, hanno dato e continuano a dare a
Gesù Risorto e all’avvento del suo Regno nella storia, e dunque nelle più diverse
problematiche, realtà e strutture terrene e temporali.
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Il disegno di Cristo circa la sua Chiesa domanda a tutti noi di rinnovare il nostro
riconoscimento cordiale e gioioso del posto e del compito comuni e specifici dei fedeli
laici: il riconoscimento cioè del diritto – in chiave ecclesiale e quindi nel suo senso
più originale e forte e nel suo spirito evangelico di glorioso servizio – e insieme il
riconoscimento della responsabilità. L’affermazione è teorica, ma proprio per questo
ognuno di noi può coglierne le implicazioni di vita e di azione nella Chiesa e nella
società.
È anche necessario un rinnovato impegno delle nostre Chiese e realtà ecclesiali
per sviluppare una più ampia e profonda opera formativa dei laici – singoli e aggregati –
che assicuri loro quell’animazione spirituale, quella passione pastorale e quello slancio
culturale che li rende pronti e decisi (e aggiungerei: competenti, dialoganti, coerenti,
operativi e coraggiosi) nella loro tipica testimonianza evangelica e umana al
servizio del bene comune, in specie nel campo familiare, sociale, economicofinanziario,
culturale, mediatico e politico, e tutto ciò nell’ambito del Paese, dell’Europa
e del mondo. Il Convegno ci offre una meta e un programma di grande respiro
e insieme di singolare concretezza quotidiana – e dunque di riferimento alle sacrosante richieste
della gente, dei poveri in particolare –, là dove ci apre alla riflessione e all’impegno
sulla vita affettiva, sul lavoro e la festa, sulla fragilità umana, sulla trasmissione
dei valori, sulla cittadinanza.
In questa prospettiva si fa logico e straordinariamente bello, confortante, stimolante
ricordare a tutti i laici che nella Chiesa identica è la missione evangelizzatrice e
ancor più la vocazione alla santità, alla “misura alta” della vita cristiana ordinaria (cfr.
Novo millennio ineunte, 31). Ciò vale per tutti, anche per i politici cristiani. Mi rimangono
indimenticabili le parole di Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non la
sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Octogesima adveniens, 46).
3. Un ultimo spunto riguarda la comunione ecclesiale nel suo rapporto con la speranza cristiana.
Questa tocca sì l’individuo e le sue personali attese, ma coinvolge anche le
comunità nelle loro aspettative. La Chiesa stessa, sappiamo, si configura come “popolo
pellegrinante” verso la comunione piena e definitiva con Dio (cfr. Lumen gentium,
9). E i contenuti tipici della fede cristiana sopra ricordati – quelli, in particolare,
della risurrezione di Gesù il crocifisso, la vita eterna e la beatitudine –, offrendo una
intelligenza nuova e un vissuto nuovo ai membri della comunità cristiana, non possono
non ripercuotersi sulla comunione ecclesiale, nel suo dinamismo operativo e
nelle sue caratteristiche: è una comunione ecclesiale segnata dalla speranza, dono
dello Spirito di Cristo.
In particolare, è lo Spirito santo – come vinculum amoris tra il Padre e il Figlio, tra la
divinità e la carne umana di Cristo, tra il Signore Gesù crocifisso e risorto e la sua
Chiesa – il principio sorgivo della comunione ecclesiale – varia, unita e universale – e
insieme la legge nuova e la risorsa permanente per la sua quotidiana realizzazione storica.
Emergono così la gratuità e la serietà della comunione ecclesiale: proprio perché segnata
dalla speranza che viene dallo Spirito, essa è un dono e un compito. È allora la
forza dello Spirito che sostiene – al di là di ritardi, lentezze, errori, mancanze, ecc. –
il cammino della comunità cristiana verso una comunione autentica e costantemente
tesa alla sua perfezione.
Potremmo dire che, connotata dalla tensione escatologica, la comunione ecclesiale
può ritrovare l’umiltà e la conversione di fronte alle sue diverse forme di lacerazione,
può farsi più ricca di vigilanza e di desiderio e di slancio operativo, può aprirsi
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all’audacia profetica di una singolare libertà e di una grande snellezza nei suoi cammini e passi
nelle varie vicende storiche. Cito dalla Lettera apostolica Orientale Lumen: «Se la Tradizione
ci pone in continuità con il passato, l’attesa escatologica ci apre al futuro di
Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e
quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto
ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre
dono gratuito» (n. 8).
La testimonianza: di tutti i cristiani e di ogni giorno
Giungiamo finalmente al cuore del Convegno: alla testimonianza di Gesù Risorto, che
è dono e compito di tutti i cristiani ed è questione di ogni giorno.
La tirannia del tempo mi offre, lasciando a chi lo desidera la lettura del testo scritto,
la libertà di limitarmi al semplice indice o poco più. Del resto, è l’intero Convegno,
con la ricchezza della sua preparazione ed ora della celebrazione che si apre, un
corale approfondimento dei contenuti, delle forme e degli spazi della testimonianza
cristiana.
1. La testimonianza cristiana è generata e sostenuta dalla fede in Gesù Cristo, il
Crocifisso Risorto e il Veniente. È la fede cristiana nella sua unitotalità, nella sua triplice
e inscindibile dimensione di fede professata-celebrata-vissuta. È, dunque, la fede
che sta in ascolto della Parola di Dio, che celebra ed esperimenta l’incontro vivo
e personale con Gesù Cristo nella sua Chiesa con il Sacramento e la preghiera, che si
fa “carne della propria carne” nel vissuto di ogni giorno.
Così la testimonianza cristiana, per essere vera e autentica, ha assoluto bisogno
della Parola e del Sacramento, dei quali proprio il vissuto del credente deve dirsi frutto,
verifica, “compimento”. In questo senso si deve riprendere la prospettiva indicata
nella “Traccia” (cfr. Allegato) e più volte ricordata nella Prolusione: la testimonianza
è questione globale e unitaria di spiritualità, di pastorale e di cultura, perché per interiore esigenza
e di fatto essa scaturisce dalle radici vive e vivificanti di una intensa spiritualità,
si esprime nell’agire pastorale-missionario della Chiesa e dei credenti e trova nella
cultura lo strumento e insieme la forza per “aprirsi” e “dialogare” con i linguaggi e le
esperienze della vita dell’uomo d’oggi. Ci troviamo dunque di fronte a tre realtà, più
tre dimensioni, che vanno profondamente saldate insieme.
In particolare, la cultura viene intesa «come capacità della Chiesa di offrire agli
uomini e alle donne di oggi un orizzonte di senso, di essere con la stessa esistenza un
punto di riferimento credibile per chi cerca una risposta alle esigenze complesse e
multiformi che segnano la vita».
In questo senso il vissuto, come testimonianza, si configura come sintesi finale di
un processo di discernimento evangelico che si snoda attraverso le fasi del leggere e interpretare
i segni di senso o di speranza, del decidersi con scelte libere e responsabili per offrire
senso e seminare speranza, dell’impegnarsi in atteggiamenti e comportamenti
concreti e, dunque, in opere di speranza, giungendo sino a una specie di coraggiosa
“organizzazione della speranza” anche sotto il profilo comunitario e strutturale.
In questa linea la testimonianza, che passa attraverso il discernimento, presuppone
un umile e forte esame di coscienza e diviene il frutto di una vera e propria conversione:
a Cristo e all’uomo!
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2. La testimonianza punta come a suo specifico sul vissuto, sul vissuto esistenziale,
quello “concreto” nel senso di una fitta serie di elementi che “crescono insieme” alla
e nella persona, alla e nella comunità, quindi nel senso fondamentale della relazione
interpersonale e sociale dentro le vicende e situazioni storiche e i più diversi ambiti di vita.
Anche quelli messi a tema dal Convegno. Sono ambiti, questi, trasversali, che intrecciandosi
tra loro si situano – in modo unico e irripetibile – nella singola persona e
nel suo tessuto relazionale.
Ora, vissuti nella testimonianza evangelica dei cristiani, questi ambiti delineano un
volto concreto e “popolare” di Chiesa missionaria, un volto di Chiesa fortemente radicato
nel territorio e presente nei passaggi fondamentali dell’esistenza: quello cioè di una
comunità col volto di famiglia, costruita attorno all’Eucaristia e alla domenica, forte delle sue membra
più deboli, in cui le diverse generazioni si frequentano, dove tutti hanno cittadinanza e contribuiscono
ad edificare la civiltà della verità e dell’amore.
Come si vede, il vissuto fa riferimento all’uomo reale, che nella sua prima enciclica
Giovanni Paolo II qualifica come «ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell’essere
e dell’agire, dell’intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. L’uomo,
nella sua singolare realtà (perché è “persona”), ha una propria storia della sua vita e,
soprattutto, una propria storia della sua anima… L’uomo, nella piena verità della sua
esistenza, del suo essere personale e sociale – nell’ambito della propria famiglia,
nell’ambito di società e di contesti tanto diversi, nell’ambito della propria nazione, o
popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell’ambito di tutta l’umanità –
quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della
sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso,
via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione
» (Redemptor hominis, 14).
La testimonianza, dunque, fa tutt’uno con la vita quotidiana dell’uomo: il vissuto
umano è lo spazio storico e insieme la forma necessaria della testimonianza.
3. Ma qual è la forma specifica della testimonianza, e più precisamente della testimonianza
cristiana? Ora, se a decidere la risposta generale è la coerenza – cioè il vissuto
in sintonia con i valori ideali e con le esigenze morali delle persone e della comunità
–, la risposta propria della testimonianza cristiana è la coerenza con la grazia e le responsabilità
che ci vengono dall’incontro vivo e personale con Gesù Cristo morto e risorto, dall’obbedienza
alla sua parola, dalla sequela del suo stile di vita, di missione e di destino. Non ci sono
alternative! Solo con il nostro vissuto quotidiano possiamo confessare la nostra fede
in Cristo e rendergli testimonianza. La prima, necessaria, irrinunciabile, possibile e
doverosa testimonianza al Vangelo è la vita di ogni giorno, una vita nella quale “seguiamo
Cristo”, ci “rivestiamo” di lui, siamo mossi dalla sua carità, ascoltiamo la sua parola,
obbediamo alla sua legge, entriamo in comunione di vita con lui, diventiamo suoi
“amici”, ci lasciamo animare e guidare dal suo Spirito. In una parola, viviamo nella grazia
di Dio e camminiamo verso la santità.
Potremmo fare sintesi dicendo che testimone è chi vive nella logica delle beatitudini evangeliche.
E questo in ogni situazione, anche la più complessa e difficile e inedita; a
qualsiasi costo, anche della rinuncia e del massimo coraggio, anche di venir incompreso,
irriso, emarginato e rifiutato. Anche a prezzo del martirio, nelle sue più diverse
forme. Al riguardo ci sono, infatti, parole inequivocabili di Cristo che non possiamo
zittire: sono lì sempre scritte nel suo Vangelo, sempre stampate a fuoco nel nostro
cuore dal suo Spirito. Il richiamo ci viene risvegliato in continuità dal fenomeno
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sempre in atto dei grandi e piccoli martiri della fede. Pure il Concilio, facendo eco alla
voce di sant’Agostino, ci ammonisce dicendo che «la Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio
fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la
passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1 Corinzi 11,26)» (Lumen
gentium, 8).
Senza dimenticare che la beatitudine della persecuzione è da Cristo segnata da una sua originalissima
gioia: non solo futura, ma già ora operante. «Beati voi – così proclama il
Signore Gesù – quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e
v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio
dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa
è grande nei cieli» (Luca 6,22-23).
E perché non rilanciare una rinnovata “spiritualità della gioia cristiana”, l’unica
capace di scuotere un mondo annoiato e distratto?
Non c’è bisogno, a questo punto, di offrire una qualche riflessione sul rapporto tra
la testimonianza e la speranza cristiana. Proprio il testimone – in specie il martire – costituisce
l’incarnazione più radicale e il vertice supremo della speranza: per amore di
Cristo, egli è pronto a donare nel sangue la propria vita (cfr. Esortazione Ecclesia in
Europa, 13).
E ora l’ultima parola. Non è da me, ma viene da lontano, dall’Oriente, da un vescovo
martire dei primi tempi della Chiesa, da sant’Ignazio di Antiochia. Desidero
che la sua voce risuoni in questa Arena e pronunci ancora una volta una parola
d’estrema semplicità, ma capace di definire nella forma più intensa e radicale la grazia
e la responsabilità che come Chiesa in Italia chiediamo di ricevere da questo
Convegno.
E che, per dono di Dio, il cuore di ciascuno di noi ne sia toccato e profondamente
rinnovato!
Ascoltiamo: «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno
dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma
di perseverare nella pratica della fede sino alla fine.

http://www.convegnoverona.it/

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