DON ANTONIO

domenica 11 settembre 2011

«Chi mi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Meditazione su Mc 8, 27-35 Enzo Bianchi, Priore di Bose

Enzo Bianchi ci presenta un brano del Vangelo di Marco che ben giustamente definisce di “importanza capitale per la comprensione dell’intero vangelo”. Si tratta infatti del momento in cui Cristo enuncia senza mezzi termini le esigenze che si pongono a tutti coloro che intendano seguirlo: rinnegare se stessi e prendere la propria croce. Lo proponiamo in questa sede perché forse nessuna altra affermazione di Gesù ha generato tanti equivoci nel corso dei secoli, finendo per alimentare una spiritualità doloristica e rassegnata che nulla ha a che vedere con la chiamata cristiana all’amore sopra ogni altra cosa, e che giustamente viene respinta dai laici come cinica e disumana. “Prendere la propria croce”, nell’autentica prospettiva di Cristo, ha tutto un altro significato: vuol dire, come sottolinea Bianchi, smettere di considerare se stessi come misura di ogni cosa, rinunciare a difendersi anche a rischio della morte (simbolica o reale che sia), e abbandonarsi con piena fiducia al Signore della vita.
Scrive a questo proposito il teologo Henry Bruston: «Un cristianesimo che ha perso di vista il suo compito ha subito attribuito a questo gesto un significato a propria misura: portare la croce significa allora accettare le prove e le sofferenze della nostra vita quotidiana, rassegnarci ad esse pensando che è quello il destino del cristiano e fors’anche la garanzia di una ricompensa celeste... Ma la parola di Cristo non ha nulla a che fare con queste prospettive: la sofferenza e la prova sono la condizione di tutti gli uomini e non esigono affatto da parte nostra una decisione personale; ci sono imposte dall’esterno. Certo, accettarle con coraggio, viverle nella fede, non lasciare che invadano il campo della nostra coscienza in un confidente abbandono a Dio, fa parte integrante della vita spirituale. Ma portare la propria croce è tutt’altra cosa» (H. Bruston, Prendre sa croix, in L’invincible espérance, Lumière des hommes, Ales 1984, p. 17-19. In: Comunità Monastica di Bose, Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 97-99).
E gli stessi monaci della comunità di Bose, in un altro contesto, spiegano: «Le parole di Gesù urtano l’attuale vague spirituale psicologizzante che riduce il cristianesimo a dilatazione di sé e a ricerca del benessere interiore. Ma sono anche parole che, assolutizzate, distorcono gravemente la visione della vita cristiana divenendo la base di un annuncio che genera nevrosi e dimentica che il centro della vita di Gesù e del credente è l’amore, una vita spesa liberamente nell’amore fino alla morte. Gesù ha amato Dio e gli uomini con una scelta senza ritorno. La rinuncia e la perdita di Gesù, come del cristiano, trovano senso all’interno di questo amore» (cfr. Comunità di Bose, Eucaristia e Parola, Testi per le celebrazioni eucaristiche – Anno B, Vita e Pensiero, Milano 2008, pag. 235).

Siamo al centro del vangelo secondo Marco e il brano che oggi leggiamo è di importanza capitale per la comprensione dell’intero vangelo e, più in generale, per chiarire che cosa comporta la sequela di Gesù Cristo.
In cammino verso Cesarea, Gesù domanda ai discepoli: “Chi dice la gente che io sia?”. La loro risposta, che riporta l’opinione corrente (cf. Mc 6,14-16), indica che Gesù era comunemente considerato un profeta: alcuni lo ritengono il nuovo Elia, il grande profeta rapito da Dio in cielo (cf. 2Re 2,1-18), altri vedono in lui il nuovo Giovanni il Battezzatore, accostato da Gesù stesso a Elia (cf. Mc 9,12-13). Gesù prende allora l’iniziativa e interroga direttamente i discepoli: “Voi chi dite che io sia?”. Pietro risponde prontamente: “Tu sei il Cristo”, cioè il Messia, l’Unto, il Re a lungo atteso da Israele, inviato da Dio a regnare definitivamente su tutto il popolo e su tutta l’umanità.
A questa confessione di fede messianica Gesù reagisce in un modo che può stupirci: sgrida i discepoli, imponendo loro di non parlare di lui a nessuno, così come aveva fatto con gli spiriti impuri scacciati dagli indemoniati, che conoscevano la sua identità (cf. Mc 1,24-25.34; 3,11-12): un ammonimento volto, da un lato, a ricordare che non è sufficiente una retta confessione di fede proclamata a parole ma non testimoniata con tutta la propria vita e, d’altro lato, a sottolineare l’incompletezza della confessione di Pietro, priva com’è della comprensione del Messia quale Servo sofferente di Dio, la figura profetica descritta da Isaia (cf. Is 42,1-9; 49,1-7; 50,4-11; 52,13-53,12) e pienamente incarnata da Gesù. Ecco perché proprio ora Gesù inaugura il primo dei tre annunci della passione, morte e resurrezione che lo attende (cf. Mc 9,30-32; 10,32-34): “Gesù cominciò a insegnare che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”.
Un “dovere” che non indica una volontà crudele da parte di Dio, che esigerebbe uno spargimento di sangue per soddisfare la propria collera nei confronti degli uomini peccatori, bensì innanzitutto una necessità umana, perché in un mondo ingiusto il giusto può solo essere perseguitato, fino a essere ucciso (cf. Sap 2). Ora, se Gesù, il Giusto, affronta questa situazione senza difendersi, senza rispondere ai suoi persecutori con la violenza, ma restando fedele a Dio, allora la necessità umana può anche essere letta come necessità divina, nel senso che la libera obbedienza alla volontà di Dio, che chiede di vivere l’amore fino all’estremo, esige una vita di giustizia e di amore, anche a costo della morte violenta. Così ha vissuto Gesù… Ma Pietro non accetta che questa sia la sorte del Messia e si spinge fino a rimproverare Gesù, meritandosi una durissima replica da colui che pur aveva riconosciuto come il Cristo: “Va’ dietro a me, Satana! Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Gesù comanda a Pietro di non ostacolare il suo cammino, ma di tornare in piena obbedienza al posto che gli spetta, dietro al suo Maestro e Signore, le cui parole rivelano l’intenzione profonda del cuore di Dio.
E affinché questa radicale esigenza evangelica sia chiara per tutti, Gesù chiama a sé la folla e aggiunge: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. Parole che, nella loro paradossalità, hanno un significato assai netto: chi vuole essere realmente discepolo di Gesù deve smettere di considerare se stesso come misura di ogni cosa; deve rinunciare a difendersi e accettare di portare lo strumento della propria condanna a morte; deve uscire dai meccanismi di autogiustificazione e abbandonarsi totalmente al Signore. Solo chi accetta di fare questo può conoscere Gesù Cristo e cogliere se stesso in lui; in caso contrario finirà per rinnegare Gesù, come Pietro (cf. Mc 14,71).
Ma noi cristiani siamo ancora convinti che vale la pena perdere la vita per Gesù Cristo e per il suo Vangelo? Ovvero: crediamo che il suo amore vale più della vita (cf. Sal 63,4), che solo a motivo di questo amore trova senso ogni nostra rinuncia, ogni sofferenza che ci può essere dato di vivere?


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