DON ANTONIO

lunedì 12 settembre 2011

Al cuore della tempesta .Primo Mazzolari, La parola che non passa, La Locusta, Vicenza 1984, p. 55-57Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture .

La presenza di Dio non esenta il cristiano dalla fatica e dalla sofferenza, ma gli dà la certezza che – se non smarrisce la fiducia – tutto potrà andare bene, nonostante la gravità delle situazioni. E’ il messaggio di questa pagina di Primo Mazzolari, sacerdote “scomodo” e vera voce profetica della Chiesa degli anni Cinquanta.
Patteggiare per avere un po’ di bonaccia nella traversata della vita, avverte Mazzolari, non è nello stile cristiano, perché non è stato nello stile di Cristo: non che si debbano auspicare le tribolazioni, come sembra sostenere una certa spiritualità deviata, ma sarebbe illusorio pensare di aver diritto a un’esistenza facile, tutta in discesa, solo in virtù della fede. Il dolore colpisce l’empio e il giusto, senza distinzioni, come poco per volta scopre il popolo ebraico dell’Antico Testamento. Senza contare che, sul piano storico-sociale, vivere con coerenza e annunciare con franchezza le esigenze della “giustizia più grande” proposta dal Vangelo (cf. Mt 5,20) sono quasi una garanzia del fatto che la tempesta non tarderà a colpire: perché, come ricorda Enzo Bianchi, priore di Bose, in un mondo ingiusto il giusto è destinato ad essere perseguitato.
L’ideale, prosegue Mazzolari, sarebbe dunque remare duramente e nel silenzio, continuando a credere e a lavorare con il Signore: ma sono pochi gli uomini e le donne capaci di questa ascesi delle emozioni e della volontà. L’alternativa è «l’appello pressante, persino sgarbato» al Maestro che sembra non accorgersi del dramma che ci angoscia: il che è pienamente legittimo, «perché la preghiera più confidenziale ed esigente non è mai un peccato». A patto però di non smarrire la capacità di sorprenderci per le svolte talora inaspettate della nostra vita, svolte cui certamente contribuiamo noi stessi, con tutte le nostre forze, ma che – per il credente – dipendono in ultima analisi dall’amore libero e sempre preveniente di Dio.
E un laico, quale messaggio può trarre da un’analisi così profondamente innestata nella fede evangelica? Una certezza che potremmo definire “trasversale”: nella lotta quotidiana che tutti siamo chiamati a sostenere contro il male, la malattia, il dolore, chi non crede in Dio, o per lo meno in questo Dio, ha il diritto di esigere dai cristiani un atteggiamento non passivo, non rassegnato, men che meno arrogante, bensì la disponibilità a lavorare insieme e con umiltà, perché la solitudine, la disperazione e la morte del cuore non siano l’esito ultimo della sofferenza che ci colpisce.
«Perché temete, uomini di poca fede?» (Mt 8,26). C’è il Signore sulla barca dei discepoli, ma la tempesta non risparmia la barca. Viene da pensare che la tempesta s’accanisca contro la barca appunto perché «il Signore è entrato nella barca»...
La presenza del Signore non è una promessa d’esenzione, ma la certezza che tutto finirà bene, qualunque sia la vicenda... Se esigo una traversata tranquilla perché ho con me il Signore, non so neanche quel che mi dico.
La nostra religione non ci sottrae alla condizione umana, né ci garantisce l’immunità da qualsiasi prova di corpo e di anima: anzi, poiché ci salda in una più vera e completa umanità, ci getta ove la corrente è più forte, quindi in maggiori tribolazioni. Si deve aver paura non quando siamo legati alla croce, ma quando ne siamo sciolti e ci pare di star bene. Invece, perché siamo uomini di poca fede, ci allarmiamo appena le onde s’increspano e la barca sbanda. Non la bonaccia, ma la tempesta è il tempo del cristiano: non il successo ma le persecuzioni...
Il patteggiare, per avere un po’ di bonaccia, non è dello stile cristiano, il quale comporta o l’appello pressante e perfino sgarbato al Maestro che dorme, oppure il remare duro e silenzioso per tener fronte alla tempesta, in nome di colui, che, pur essendo addormentato, resta con noi e ci assicura, con la sua sola presenza, che a fine la vittoria sarà di chi ha creduto e sperato lavorando col Signore.
Non sono molte le epoche in cui i cristiani raggiunsero collettivamente l’eccellenza di quest’ultimo atteggiamento. Anche adesso ci arrivano soltanto poche anime elette... La maggior parte di noi resta al livello del cristiano mediocre, che, spaventato, si mette a gridare: «Signore, salvaci, siamo perduti!» (Mt 8,25). Il che non è un male, perché la preghiera più confidenziale ed esigente non è mai un peccato: perché lo stesso che si è addormentato sulla barca, conosce la nostra stanchezza e la compatisce: perché l’opera viene compiuta da lui, sia che agisca sugli elementi, sia che agisca sul nostro animo: perché anche questo volto sfiduciato e urlante è il nostro volto, il volto dell’uomo.
Però, è bene che tu, Signore, ci rimproveri come gente di poca fede e di troppa paura, e ci costringa ad ammirare con stupore quei mutamenti salutari che tu compi nel mondo senza di noi o contro di noi... «Che uomo è mai questo, che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?» (Mt 8,27).


http://www.fondazionegraziottin.org/it/articolo.php?EW_CHILD=12500

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