DON ANTONIO

lunedì 5 settembre 2011

SUL SENSO DEL TEMPO FUTURO

«Solo chi crede nel futuro più grande di Dio
troverà il coraggio di affrontare il futuro finito del mondo
e avrà la forza di dissipare le ombre che su questo futuro pesano »
(Giovanni Paolo II)

PREMESSA
La presente riflessione sul "senso del tempo futuro" parte dalla esigenza critica di ricercare i fondamenti antropologici per un'etica sociale cristianamente ispirata. E' un primo personale tentativo di accostamento ad una tematica forte, poco dibattuta e meditata in ambito divulgativo, ma importante per la sua funzione pedagogica, in una prospettiva etica che vede e pone l'uomo come persona [1]. Ho cercato di dare un ordine ad alcune idee che possono costituirsi fondamentali e fondanti, nate dalle letture o colte tra le righe di studi contemporanei, idee che potrebbero svilupparsi con maggiore razionalità scientifica e apertura teologica.

FUTURO ED ESCATOLOGIA:
CATEGORIE IN DIALOGO O IN CONFLITTO?
Sant'Agostino, nella sua acutissima e geniale interpretazione della natura e del significato del tempo, afferma che passato, presente e futuro sono compresenti per l'uomo nel presente: il presente come visione chiara, contuitus, dell'oggi; il passato vivo nel presente come memoria; il futuro vivo nel presente come attesa e speranza, expectatio [2]. La nostra vita ritrova senso e significato nel momento in cui noi riusciamo a convivere armonicamente e in modo costruttivo dentro di noi il presente (contemporaneità), il passato (la memoria) e il futuro (l'attesa e la speranza).

La memoria e la ricerca del passato, come l'attesa e la preparazione del futuro, non sono per nulla sganciati dal presente d'ogni uomo. Se la memoria del passato comporta al presente una purificazione o un ripensamento, la progettualità del futuro richiede un più convinto senso di responsabilità e di onestà intellettuale nel presente.

Il fatto di pensare il futuro con la nozione di "progettualità" rende legittimo, urgente, attuale il compito "profetico" del cristiano. Sorgono subito spontanee due domande che orienteranno la nostra riflessione: c'è un "futuro escatologico" che deve anzitutto muovere, motivare, stimolare, provocare il nostro pensiero? Oppure: c'è un futuro della terra e dell'uomo (le grandi problematiche bioetiche ed ecologiche) che deve porsi come questione urgente e prioritaria in ogni analisi progettuale?

A noi sembra che la seconda domanda sia dipendente dalla risposta che sappiamo dare alla prima. Infatti le condizioni morali e i presupposti filosofici per affrontare le problematiche terrene e umane del futuro del tempo richiedono un pensiero sapienziale di sapore metafisico che permetta alla libertà e alla ragione di esprimersi con retto discernimento e con chiarezza metodologica. Essenzialmente parlando, per un pensiero cristiano, la futurologia è "escatologia".

Così, in questo tipo di riflessione, due categorie, per diversità epistemologica, si incontrano e si scontrano: quella di "futuro" che è scientifica, quella di "escatologia" che è teologica. La prima si basa sulla sicurezza delle scienze naturali empiriche, la seconda sulla fedeltà di Dio alle sue promesse e sullo spirito di fede.

Il futuro non sarà mai l'originalità o l'inedito della forma, ma l'evolversi o involversi della sostanza, cioè del patrimonio ricevuto e investito. Può esserci d'aiuto, per esempio, la parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32) come una Weltanschauungen e un progetto di vita futura. Le sostanze, ousia in greco, ricevute dal figlio minore sono personalizzate (ipostasi) a suo uso e consumo, in modo autonomo, egotico. Staccandosi dal padre, in un "paese lontano" il figlio "sperpererà" tutto, vivendo da dissoluto, senza avere nulla, se non la sorte di desiderare persino le ghiande dei porci, quando arriverà la carestia nel paese che era stato il sogno del suo futuro. L' uomo può personalizzare le sostanze, può assumere in sè e per sè il creato, ma solo perchè è persona in quanto figlio, e solo in riferimento alla persona del padre, quale origine e sorgente, può realizzare la sua essenza. Ribellandosi a lui si avvia su un cammino tragico, opera uno sconvolgimento ontologico. «Il creato non esiste per essere posseduto. Possedendolo, già lo si spinge fuori dalla sua verità e dalla sua finalità. Infatti san Paolo dice che il creato geme sottomesso alla morte e aspetta la rivelazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19). Il creato, posseduto da un principio di autoaffermazione, diviene schiavo e non riesce a vivere la propria verità che consiste nell'amore con cui e per cui è stato creato»[3] . Oggi, fatto unico nella storia del mondo, è tanto potente la ricchezza ereditata dall'uomo, è tanto forte la sua libertà di dominio sul creato, che si può rischiare di sperperare in un annullamento cosmico le proprie cose, se stessi , con ghiande e porci, prima ancora di poterli desiderare e invidiare.

Il cristiano è chiamato a storicizzarsi escatologicamente, tra kairos ed eschaton si muove il suo itinerarium vitae, quasi come uno sviluppo del seme cristico, una escatologia in atto fra gli eventi quotidiani, nella consapevolezza radicale di un adventum che è contemporaneamente venuta ed attesa, desiderio ed incontro, speranza e compimento [4]. Anche una lettura filosofica del senso del futuro non può non tenere conto dell'esperienza della preghiera intesa, secondo san Tommaso, come interpretatio spei, atrio della attesa e dell'accoglienza silenziosa che eleva la persona alla sursumactio, capace di intra-vedere l'altro e l'oltre con occhi nuovi. Nella preghiera, come inveramento dell'essere, avviene una graduale assimilazione del figlio nel Figlio che ci responsabilizza nell'evangelizzazione o cristianizzazione del tempo diveniente: «ciascuno raccoglierà quel che avrà seminato» (Gal 6,7).

Su queste connotazioni recuperiamo due piste di approfondimento, che ci sembrano feconde per motivazioni originali e per ripensamento radicale di principi etici e teologici che danno fondamento ad una onesta visione dell'uomo e del mondo. Ci sono suggerite dalla riflessione di due grandi pensatori contemporanei, Romano Guardini e Hans Jonas, che con acutezza e audacia hanno saputo cogliere i limiti e i valori della modernità occidentale.

1. Il ritorno viene dal Futuro: il Figlio dell'uomo tornerà
La vita cristiana è aperta al futuro, alla parusia del Signore che si attuerà al di là della storia. C'è dunque la metastoricità di un Evento che polarizza tutta la storia della salvezza, non come epilogo, ma come «la vita del mondo che verrà». L'esortazione del Cristo ad una attesa vigilante di ciò che deve venire indica una attitudine permanente che deve distinguere quotidianamente il cristiano. I cristiani devono saper stare svegli quando gli altri dormono, fedeli ai valori che Gesù ha insegnato, anche quando sembra che nessuno si appelli a questi valori. Uomini della speranza, pazienti tessitori di progetti che si collegano in un progetto unitario che ha in Cristo il centro e il vertice e nel suo Regno, atteso e invocato, l'orizzonte che dà a tutto il pieno significato. Si tratta, dunque, di non perdere di vista, di rimanere dentro il mistero straordinario, soprannaturale, teandrico della Rivelazione cristiana che non è la proposta di un cammino parallelo tra tanti possibili umanesimi o scelte religiose, ma è totale e assoluta rigenerazione, ri-creazione, riordinamento del cammino esodale dell'uomo.

Il futuro del tempo è per il cristiano il parto di Maria, la tomba vuota, lo spirito pentecostale, è questo frammento di tempo nel quale irrompe l'eternità, questa economia di parole nelle quali irrompe il silenzio altissimo. L'urgenza di Dio fa gridare nei cuori che «si compia la beata speranza e venga il Salvatore».

Osservando il nostro tempo, Romano Guardini scriveva: «Non diciamo certo di troppo se riteniamo che la coscienza del ritorno del Signore non esercita più, purtroppo, anche nella vita cristiana, un influsso serio. Essa è intesa come un avvenimento remoto - così remoto da potersene stare tranquilli. Tra quel ritorno e la propria esistenza si apre una specie di vallo: la concezione scientifica del mondo. Ma non perde con questo l'esistenza cristiana un elemento essenziale? Essa si è accomodata nel mondo. E' divenuta, come "cultura cristiana", un fattore costitutivo dell'universo, e la parusia del Signore viene facilmente confusa con la fine del mondo che, per ciò stesso che è fine, avrà il suo naturale carattere di epilogo. Così viene meno all'esistenza cristiana d'oggi quella tensione che colmava i primi secoli cristiani: quella serietà nel riflettere, quell'entusiasmo nel donarsi, quel fervore diffuso nell'aria e nei cuori - come pure quel nitore della coscienza e quell'austerità provenienti dal fatto che la maggior parte dei cristiani erano passati alla fede già maturi d'età. Malgrado tutto, la fede nella parusia del Signore c'è - e ogni forma di fede ha sempre i caratteri del germe. Può intorpidirsi, ma poi anche rivivere. Ora, perchè riviva, è necessario che la vita cristiana cessi di apparire come la cosa più naturale; che il concetto di cultura cristiana si affermi, chiarificandosi; che il dissidio tra mondo e rivelazione emerga di nuovo. E' necessario, forse che si scatenino nuove persecuzioni e che il cristiano sia messo nuovamente al bando, affinché ciò che lo contraddistingue si imprima di nuovo nella nostra coscienza. Allora si ridesterà da capo anche l'interesse per il Signore che viene. Peraltro non si può dire molto a questo riguardo: anche i singoli elementi della verità cristiana hanno i loro tempi: tempi nei quali sono tersi e potenti, e tempi nei quali perdono di significato consapevole e si perdono - per poter sorgere più tardi in risposta a problemi nuovamente vissuti.» [5].

«Quando il Figlio dell'Uomo tornerà troverà la fede sulla terra»? (Lc 18,8) E' la perenne provocazione del Cristo. Lo sguardo dunque verte sul futuro. Esso è proprietà di tutti, non cè un futuro amorfo. Noi sappiamo dove stiamo andando e chi attendere. E' la certezza della speranza e della fede cristiana che ci pone in questa prospettiva. Mantenere la lampada accesa, vegliando saggiamente, significa sostanziare la fede con cose sperate, tentando di argomentare l'Invisibile, il "non ancora", avanzando decisamente,coerentemente, eroicamente nell'unica via, la stessa tracciata da Cristo, dove si alternano misteri e stazioni di dolore, di gioia e di gloria. Sappiamo che la fede vive di trasmissione, è una traditio. In questo processo tutti siamo responsabili e impegnati quotidianamente affinché alle generazioni future venga trasmesso fedelmente ciò che da tutti, sempre e in ogni luogo, è stato creduto. Non dobbiamo cambiare il vino in acqua, ma restare servitori della fede che continua a trasformare ogni giorno l'acqua delle nostre potenzialità naturali nel vino buono della gioia cristiana, cioè della grazia di Dio. Solo allora il futuro sarà denso di significato perchè, ancora una volta, inserito nell'alveo della salvezza rivelata da Cristo, unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre.

2. Il principio responsabilità
La parola responsabilità deriva dal verbo rispondere; in latino respondere richiama il verbo spondere che significa promettere, impegnarsi. Chi è responsabile si impegna, rispondendo delle proprie scelte, delle proprie azioni. La fede, oltre che dono, è anche risposta ad un appello divino; c'è una domanda che viene dall'Oltre e dall'Altro - al di là di un orizzonte di senso immediato - la cui risposta e impegno d'alleanza allarga le prospettive, anzi ricrea nella natura in statu deviationis il senso dell'eternità e dell'infinito; la «terra promessa» è la vera utopia biblica, essa, in fondo, non è mai pienamente raggiunta, la quotidianità è lo spazio e il tempo di questa terra, perchè è sempre legata ad un impegno e possibilità di fedeltà alla legge dell'alleanza.

Il principio responsabilità di Hans Jonas, per quanto si ponga nella visione di una morale laica, costituisce uno stimolo e una sapiente provocazione per la teologia [6]. Il suo pensiero ritorna frequentemente negli studi etico teologici sul futuro dell'uomo e del cosmo. Egli ci aiuta a capire che noi oggi, quotidianamente, siamo responsabili anche delle conseguenze più lontane dei nostri atti, soprattutto in relazione agli interventi tecnologici sull'ambiente, così siamo responsabili del futuro e del futuro stesso della natura davanti alle generazioni a venire. Oggi il baricentro dell'etica e della responsabilità si è spostata sulle sorti comuni dell'umanità; si sbilancia verso il futuro, oltre la contemporaneità; insiste sul rapporto dell'umanità con la natura e la vita; coinvolge soggetti collettivi e la totalità degli uomini, quanto meno in senso passivo [7].

Per Jonas il principio responsabilità si traduce nella preoccupazione per il futuro, in quanto esso è da un lato una minaccia da stornare, dall'altro una realtà minacciata da preservare. Questa responsabilità riguarda soprattutto le società industriali progredite: «Noi del cosiddetto "Occidente" abbiamo creato il colosso tecnologico e l'abbiamo liberato nel mondo; siamo noi, inoltre, i principali consumatori dei suoi fruttri e quindi i principali peccatori contro la terra. Dobbiamo quindi aspettarci una limitazione della nostra opulenza» [8].

La sfida del futuro è così essenzialmente un problema di libertà, che tocca non l'individuo semplicemente, ma la collettività alla quale si giunge mediante la formazione delle singole coscienze. Per questo è necessario anzitutto provocare una educazione "spontanea", rimettendo a misura d'uomo, non di macchina o di mercato, l'economia politica, la burocrazia, ecc. . Su questa linea anche Guardini, meditando sulla crisi della modernità occidentale , vede nella "macchina" la novità epocale che costituisce la civiltà tecnico-scientifica, nella "massa" la nuova forma di esistenza della società attuale. Questi fenomeni creano un vero e proprio dominio sulle energie fondamentali della natura e dell'uomo, per ciò il pensatore italo-tedesco sostiene che nell' epoca postmoderna diventa più urgente l'attenzione pedagogica alla persona e alla libertà.

L'uomo ha già sperimentato, con Chernobyl e la distruzione di intere foreste-polmoni della terra, le conseguenze disastrose dell'eccessivo proliferare della tecnologia. Continuando così, afferma Jonas, «in futuro vi sarà qualcosa di più grande e ancor più allarmante» [9]. Il nostro futuro dunque dipende dal retto uso della ragione umana e dalla buona volontà, «quella ragione che si è già dimostrata così straordinaria nell'ottenere il nostro potere e che ora deve assumerne la guida circoscrivendolo» [10]. Realisticamente cosciente che la "minaccia di una catastrofe" sarà sempre in agguato, l'uomo è responsabilmente interpellato a sopravvivere, a fare del mondo una dimora degna di lui. Per questo «il principio della responsabilità si ricongiunge con il principio della speranza. Non è più la speranza entusiastica in un paradiso terrestre, ma quella più modesta nell'abitabilità anche futura del mondo e nella sopravvivenza della nostra specie secondo una condizione degna dell'uomo e nel retaggio a lui affidato, che non è certamente misero, ma è in ogni caso limitato» [11].

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Il senso del tempo futuro è per noi, oggi, ricerca di senso del tempo: da un tempo quantitativo (tempo del mercante- pensiero calcolante) ad un tempo qualitativo (tempo dell'essere-pensiero meditante) [12].

Le domande relative al senso della vita mantengono sempre attuale l'ontologica "inquietudine del cuore", accendono una pre-occupazione che problematizza la trasformazione tecnica del mondo, incidendo sul futuro del tempo e della storia. Su questa linea di pensiero, circa trent'anni fa, Heiddeger formulava questa rapida sequenza: «Ciò che è veramente inquietante, non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca» [13].

L'epoca che sorge già presenta l'orizzonte futuro: il processo tecnologico e irreversibile, ma non è immodificabile la logica di un progresso organizzato secondo l'idolo del grande mercato tecno-centrico, l'homo faber e sapiens possiede ancora risorse per riequilibrare responsabilmente il suo sistema naturale (Jonas). Anche se dobbiamo constatare l'affermarsi di un nuovo paganesimo «di natura diverso da quello antico» che «rifiuta la dottrina e l'ordine cristiano della vita» (Guardini) e, di conseguenza, l'attesa operosa della parusia, cioè la cristificazione piena dell'uomo e del cosmo, ciò non toglie nulla all'oggettività del fatto cristiano, e al fatto che Dio è Dio. Egli non è un postulato del nostro pensiero. Non c'è da decidere un nostro rapporto con Dio, ma riconoscere che Lui ha già stabilito, da sempre e per sempre, un rapporto con noi, ed è fedele alla sua promessa.

Il principio responsabilità e la virtù speranza permettono un dialogo fecondo, offrendo punti chiari e oggettivi per il superamento di inevitabili conflittualità tra il futuro visto dallo scienziato e l'escatologia annunciata dal teologo, liberando l'uomo dalla dissolvenza del pensiero schiavo di inquietudini e di paure. Le riflessioni di Guardini e le indicazioni suggerite da Jonas ci aprono la via ad un ulteriore approfondimento per un pensiero meditante che guardi il futuro dell'umanità con occhi di speranza e con una intelligenza responsabile del suo dovere e dell'uso della sua libertà. Il pensiero meditante dell'homo sapiens deve dare significato, senso e fondamento al pensiero calcolante dell'homo faber, alle cui mani operose è stato affidato l'universo, perchè lo custodisca, armonizzando la sua intelligenza nella logica dell'amore che risponde ad ogni speranza e garantisce il vero futuro dell'umanità.

Il principio speranza, per il cristiano, è sostenuto da una invocazione escatologica (cfr. Padre nostro) e dalla determinazione (metanoia) che rende le utopie, en-topie, cioè possibilità, in cui in modo sorprendente, la fedeltà di Dio alla sua promessa - o il mistero della Provvidenza - offre sempre nuove condizioni di autenticità per l'uomo. Il cristianesimo non predica un vita futura, ma una vita eterna, come non annuncia una immortalità dell'anima, ma la resurrezione della carne, già nell'io sono c'è ciò che io sarò.

Per il sapere teologico, un servizio sapienziale che rende l'uomo più umano, il futuro non è una ideologia, non è una tecnologia, non è una minaccia, ma è "pienezza di vita", a condizione che l'uomo diventi la speranza dell'uomo, se l'uomo diventa «conforme all'immagine del Figlio dell'Uomo». E' quì l'eccedenza della fede che mette Dio, uomo e mondo in una correlazione vitale, armoniosa. Dio stesso, infatti, ha voluto essere la speranza dell'uomo, facendosi uomo, entrando nel mondo. Così la memoria pasquale di Cristo, la sua attesa e contuizione nel presente, qualificano il tempo, generando e prospettando il futuro dell'uomo, figlio di Dio.

di Filippo Ramondino
http://www.cdmisrvv.it/CDM/cdm_news/Numero2/Scriptorium/SulSensoDelTempoFuturo_Ramondino.htm

Nessun commento:

Posta un commento