DON ANTONIO

domenica 4 settembre 2011

SFORZIAMOCI DI GENERARE SPERANZA

Nelle riflessioni preparatorie e nei primi interventi di questo Convegno, abbiamo più volte ricordato che il testimone è colui che vive come “pellegrino e straniero” in questo mondo, che affronta il viaggio della vita consapevole delle difficoltà e dei ri-schi che incontrerà sul suo cammino, ma fiducioso e determinato a raggiungere la meta, fonte di senso della sua stessa vita.
Parole chiave del suo percorso sono libertà dai condizionamenti del mondo; corag-gio di scommettere sul futuro al di là delle possibilità e dei limiti umani; fiducia in una presenza che accompagna e sostiene, anche nella prova e nell’afflizione. In altre pa-role, testimone è colui che sa sperare di una Speranza viva che interroga e interpella l’umano sentire, perché fondata sulla sconvolgente differenza del mistero di morte e Resurrezione del Vangelo. È questa una Speranza che si mostra soprattutto nel do-lore e nelle inevitabili prove della vita, ma di cui non siamo padroni: essa ci travolge e ci supera.
Abbiamo anche più volte sottolineato la difficoltà odierna di parlare di speranza: la perdita di un orizzonte escatologico (espressa da un generalizzato appiattimento sul “qui ed ora”), il tramontare dell’idea che la storia abbia una direzione, un senso; la confusione superficiale tra speranza e vago sentimento di ottimismo: tutto tende a banalizzare una dimensione umana che ha un respiro infinito, ossia un’esperienza che solo il Risorto può donare.
La vita affettiva, di cui ogni uomo fa esperienza dal suo nascere e che occupa grande spazio lungo tutta la sua esistenza, è oggi particolarmente soggetta a questa banalizzazione e rappresenta pertanto un vero e proprio banco di prova per una te-stimonianza credibile della speranza cristiana. La libertà, il coraggio, la fiducia e la speranza del testimone sono così messe alla prova anche e soprattutto nelle espe-rienze affettive, oggi sempre più vissute come realtà dell’io individuale, pieno del suo sentire e delle sue emozioni e quindi senza spazio per l’incontro con l’altro, che di-viene così qualcosa di minaccioso da cui difendersi o del quale appropriarsi per non esserne a propria volta fagocitato: in altra parole un’affettività senza speranza.
L’origine di tale di-sperazione è rintracciabile nella dicotomia cui, nel nostro con-testo socio-culturale, sono stati sottoposti gli affetti. Assistiamo oggi infatti ad una tendenza a contrapporre affetto e norma, passione (pathos) e ragione (logos) e a ridurre a pura emotività l’esperienza affettiva, concepita come tutta interna al soggetto, autogenerantesi, passiva e ingovernabile dalla volontà e dalla ragione. Tale dicotomia ci parla di un vero e proprio stravolgimento a livello antropologico. In evidenza c’è una concezione di uomo che nel campo affettivo tende sempre più a diventare “ciò che si sente”, frutto di una separazione tra corpo e mente; una concezione dalla quale ciò che viene a mancare è l’idea stessa di Persona come essere umano con suoi at-tributi di dignità e libertà, in cui fisicità e spiritualità, natura e cultura sono ricondotti ad unità secondo una prospettiva che supera e trascende ogni deriva spiritualistica e materialistica, ma anche individualistica e collettivistica. Nella “persona”, coscienza, affetti e responsabilità sociale infatti non si contraddicono, ma sono dimensioni in-dispensabili per la piena realizzazione dell’uomo che, proprio in quanto persona, è fondamentalmente “relazione” con l’altro. La vita affettiva, luogo privilegiato del “re-ligo”, del legame tra gli uomini, dove libertà individuale e vincolo sociale hanno lo stesso peso e la stessa dignità (“legare” ed “essere legati” all’altro implicano infatti una duplice valenza di dono libero/debito vincolante), paga così lo scotto di questa dissipazione antropologica e da esperienza squisitamente personale viene sempre più ridotta ad esperienza puramente individualistica.
Non stupisce dunque il fatto che oggi ci troviamo di fronte ad una sorta di “ma-rasma” terminologico indifferenziato in cui affetto e amore sono spesso confusi con emozione, sentimento, soddisfazione effimera. Occorre dunque ribadire con forza (come il Magistero Ecclesiale non si stanca di fare) che veramente degno dell’uomo è un amore che non si riduce alla dimensione istintiva e sessuale, ma al tempo stesso non la rinnega a favore di un astratto spiritualismo; è un amore che trascende il de-terminismo dell’ordine biologico per approdare ad un orizzonte di libertà; è un amo-re che è espressione della persona nella sua interezza, ossia dell’essere umano come essere individuale e sociale, dotato di istinto e di ragione, di passione e responsabilità.
Prima di parlare di affetti è importante pertanto chiedersi di quale vita affettiva si sta parlando e soprattutto di quale uomo si sta parlando. Quando si costruisce, oc-corre sempre verificare il fondamento.

http://www.convegnoverona.it/

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