DON ANTONIO

giovedì 1 settembre 2011

Luciano Sandrin, Fragilità e speranza, in “Consacrazione e servizio”, 9/2006

La speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, al cammino della vita»1. E questo può avvenire solo non emarginando la fragilità dalla nostra vita ma riconoscendola come caratteristica della nostra “umanità” e umanizzando la relazione con tutti coloro che, in modi e situazioni particolarmente dolenti, ne vivono gli effetti più gravi.
Nelle esperienze di particolare fragilità cadono le nostre illusioni, le nostre finzioni, le nostre maschere e le nostre difese, siamo chiamati a guardare in faccia il limite proprio della nostra umana identità. Interrogandoci sul significato della fragilità umana, specialmente quando è la nostra fragilità, finiamo per interrogarci sul senso della nostra esistenza, siamo spinti a chiarire a noi stessi la grandezza e i limiti della nostra libertà, l’inter-dipendenza che ci costituisce fin da prima del nostro nascere, la reciproca fragilità che definisce qualsiasi relazione d’amore, come anche quella di cura. Eliminare la fragilità è forse una delle utopie che qualificano il nostro tempo. Ma la fragilità continua ad esistere e con la fragilità dobbiamo continuamente misurarci.

… Ciascuno si chiede il senso delle fragilità che ci fanno soffrire e nel cercare una risposta pone più volte questa domanda a Dio. Ma quel Dio, al quale pone la sua domanda, gli risponde dall’estrema fragilità della croce. «Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta». Nella croce Dio fa compagnia al dolore umano e il suo senso di assurdità è vinto dall’interno2.
Il significato definitivo della sofferenza di Gesù appare però, in maniera compiuta, solo nell’evento della risurrezione, risposta ultima del Padre al grido del suo Figlio, che dà senso e compimento al suo atteggiamento di filiale fiducia e obbedienza. La domenica di Risurrezione non annulla, però, il Venerdì di passione. La potenza del Risorto non annulla la fragilità del Crocifisso.
La tensione tra croce e risurrezione continua a segnare la vita dei cristiani, chiamati a vivere tra due atteggiamenti diversi ma contemporaneamente presenti: la ricerca di un senso per il dolore non ancora eliminato, per la fragilità che segna la nostra vita, accolta e vissuta come un segno della partecipazione alla passione del Cristo; la consapevolezza che la potenza scaturita dalla risurrezione del Figlio di Dio è già efficace nel tempo della Chiesa, nelle sue “mediazioni” salvifiche e nelle sue relazioni d’amore. Sono queste “mediazioni” del suo amore ad esserne la testimonianza narrante, la miglior “teo-logia”.
La figura più adulta del nostro testimoniare Dio è la «fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6), la fede che prende “corpo” e si fa storia nella condivisione e nell’amore3.

… Se è vero che solo l’amore è credibile, anche noi, attraverso le nostre pur fragili relazioni d’amore possiamo rendere credibile Dio (e quindi salvarlo agli occhi di chi soffre) «nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi»4.

… La fragilità può trovare significato (essere “salvata”) nella fraterna solidarietà, nell’affetto, nell’amore che riconcilia con la condizione umana. Ognuno di noi è frutto della cura donata alla nostra non-autonomia, alla nostra fragilità che non è solo iniziale, biologica, ma perdura per tutto il nostro percorso biografico: la fragilità ci definisce, è causa di bisogno, ma anche motivo di dono. Quello che l’umana fragilità cerca è la relazione di riconoscimento (il reciproco riconoscimento del bambino da parte della madre e della madre da parte del bambino) e per questa strada passa il dono (reciproco anche se in forme differenti).
Solo il riconoscere e accettare nella nostra vita e nelle nostre relazioni l’apertura a Dio, e la relazione creaturale e filiale che a Lui ci lega, è capace di riscattare la nostra fragilità, di inserirla in una dinamica d’amore che la trascende, in un futuro che definitivamente la salva. Tutto questo è evidente nelle situazioni-limite di sofferenza, dove materialmente ben poco si può fare, ma che comunque hanno un senso, perché sono l’occasione del reciproco riconoscimento come persone in rapporto a Dio, del reciproco donarsi il suo Amore. Siamo prima dei nostri scambi d’amore ma di questi abbiamo bisogno per crescere.

La speranza è un bene fragile e prezioso, e solo nell’amore trova il suo nutrimento, il grembo per crescere. Nella relazione con chi soffre la speranza si impegna nell’amore e da esso viene nutrita. E in questo servizio il cristiano dà ragione della speranza che è in lui (1Pt 3,15). La speranza ultima può essere trovata nelle speranze finite ogni volta che le speranze finite contengono i segni relazionali di Dio e del suo amore. Il concetto di viaggio ci parla di una speranza (e quindi di un futuro) basata sulla fiducia dell’alleanza, anche quando la fine non è in vista, ma ci sono presenze amiche e significative che ci e accompagnano e ci rassicurano.
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