DON ANTONIO

martedì 27 marzo 2012

SERVO DI CRISTO GESÙ Rm 1,1 .riflessione di Erwuin Kräutler C.PP.S vescovo di Xingu Brasile





“Paolo, servo di Cristo Gesù,
apostolo per vocazione,
prescelto per annunziare il vangelo di Dio,”




L’Apostolo inizia la sua Lettera ai Romani rivelando la sua identità, convinto che il Signore
“l’ha chiamato con la sua grazia” (Gal 1,15).
Divideremo la nostra riflessione in tre parti prendendo lo spunto dalla presentazione che l’apostolo
Paolo fa di sé alla comunità di Roma:


1. Paolo servo di Cristo Gesù
2. Chiamato ad essere apostolo
3. Prescelto per annunziare il vangelo di Dio


Servo di Cristo Gesù


Paolo non si presenta ai Romani come Dottore della Legge, come Maestro in teologia biblica o
come Scriba che “penetra le sottigliezze delle parabole” (Sir 39,2), né come profeta che parla “da parte
di Dio” (2 Pt 1,21). Paolo rinuncia a titoli accademici. Il titolo con il quale si presenta non è abituale
a un messaggero di buone notizie. Egli si presenta semplicemente come “servo”.
Lui e Timoteo si presentano, ai Filippesi, allo stesso modo (Fil 1,1) e Paolo vuole informare la
comunità, che quello che dice e scrive non è il suo pensiero, ma tutto lo dice nel nome di Cristo
Gesù, colui che egli serve1.
In greco la parola servo ha primariamente il significato di “schiavo”. Schiavo è colui che
dipende totalmente e esclusivamente dal suo Signore, sottomesso a lui in tutto, obbediente senza
mai contestare, fedele esecutore dei comandi ricevuti, senza chiederne motivo o domandarsi il
perché.
Dopo l’esperienza di Damasco, per Paolo, Cristo è il Signore assoluto, è Lui che orienta, indica,
stimola, appassiona e avvince. Egli diventa totalmente dipendente dal suo Signore: “tutto ormai io
reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho
lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere
trovato in lui” (Fil 3,8-9). Paolo è uno strumento nelle mani del Signore, è una sua proprietà. Senza
riserve e senza condizioni si è messo totalmente al servizio del Signore e giustifica così il suo
operato: “Se io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo” (Gal 1,10).
Quello che conta è “piacere” al suo Signore e compiere la sua missione fino alla fine. Questo ha
come conseguenza l’accettare ogni tipo di sofferenza per causa del Signore (cf. At 9,16).
Paolo arriva al punto di esclamare: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo
nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa
sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola”
(Col 1, 24-25).
 Epafra, della comunità di Colossi (Col 1,7), viene così chiamato da Paolo: “nostro caro compagno nel ministero e
fedele servo di Cristo”, inoltre viene elogiato in questo modo: “il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere”
(Col 4,12).
Tito, a sua volta si dichiara “servo di Dio” e Giacomo dice di essere “servo di Dio e del Signore Gesù”.
La lettera di Giuda comincia così: “Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo” (Giuda 1,1).
Nella prima lettera di Pietro troviamo scritto: “agli eletti che vivono come stranieri dispersi nel mondo” (1Pt 1,1);
“comportatevi come servitori di Dio” (1Pt 2,16).
L’Apocalisse inizia così: “Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi” (Ap 1,1).
La sofferenza avvicina Paolo, in modo molto intenso, al Signore al punto che afferma ai Galati:
“Sono stato crocifisso con Cristo” (Gal2,20) e ai Corinti: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a
voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1 Cor 2,2).
Il servo appartiene al suo Signore.
Ai Romani, Paolo, scrive che questa appartenenza non si rompe neppure con la morte, essa
oltrepassa tutte le dimensioni possibili e immaginabili: “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e
nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il
Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14, 7-8).
Paolo è un esperto nella Legge e nei Profeti, “formato alla scuola di Gamaliele” ( At. 22,3). Per lui
la parola “servo” “schiavo” ha un grande significato biblico.
Egli parla correttamente il greco (At 21,37) ma la sua lingua materna è l’ebraico (At 22,2). Quando
usa la parola greca “schiavo”, egli pensa a “ebed” che lo riconduce a “ebed di YHWH” come è
scritto nella Legge e nei Profeti.
In realtà tutti gli israeliti ortodossi si rifacevano a questa denominazione, che da un lato significava
umile sottomissione al Signore Adonaj e dall’altro però era un titolo onorifico.
I patriarchi venivano chiamati così.
La parola “ebed” evoca tutta la teologia del “Servo Sofferente” che troviamo nei commoventi
“canti del servo” (Is 42,1-9; Is 49,1-6; Is 50,4-11; Is 52,13-53,12).
Sono due le caratteristiche del “servo”:
sottomissione illimitata: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come
agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”
(Is 53,7) e nello stesso tempo
un’assoluta, profonda, decisiva e continua fiducia in Dio: “Il Signore Dio mi assiste, per
questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare
deluso. È vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi
accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste” (Is 50,7-9).
La sofferenza accompagnerà sempre la “missione” del servo.
Il Servo è servo per vocazione.
Non rinuncia alla sua missione nemmeno quando è scoraggiato a causa delle avversità.
Per questo, nella Chiesa, la persecuzione e la morte dei servi e serve di Cristo Gesù, continuano fino
ai nostri giorni, per seguire l’esempio del Signore, “servo sofferente” per eccellenza.
Il sangue sparso di Stefano, che “contempla i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di
Dio” ( At 7,56) è senza dubbio la semente per la conversione di Paolo (At 7,57-60).
Si rimane molto impressionati nel constatare, come il giovane Stefano preferisca morire lapidato
piuttosto che negare la sua fede in Cristo Gesù…Le sue ultime parole da martire “Signore Gesù,
accogli il mio spirito” non permettono a Paolo la tranquillità del cuore e dello spirito.
L’esperienza di Damasco è la conseguenza e la conclusione della conversione che si è compiuta nel
cuore e nella mente di Saulo a partire dal martirio di Stefano, da quel momento diventa Paolo.
Non si allontanerà né mai più cambierà il suo “Cammino2”, e abbraccerà ogni tipo di sofferenza a
causa del nome del Signore Gesù (cf At 9,16; 2 Cor 11, 23-28), poiché annunciare il vangelo sarà la
passione della sua vita.
Gli basterà la grazia divina (cf 2 Cor 12,9).
Le sofferenze, le tribolazioni del “servo di Cristo Gesù” sono previste, programmate, inevitabili,
fanno parte della missione.
Anania, il discepolo di Damasco, riceve dal Signore il comando d’incontrare, sulla via Diritta, colui
che “un tempo nel giudaismo, perseguitava fieramente la Chiesa di Dio e la devastava, superando nel
giudaismo la maggior parte dei suoi coetanei e connazionali, accanito com'era nel sostenere le tradizioni
dei padri” (cf Gal 1,13-14), di battezzarlo e gli rivela che “egli è per me uno strumento eletto per portare
il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio
nome” (At 9,11-16).
La sofferenza non è qualcosa di accidentale, fortuito, occasionale, la sofferenza è parte intrinseca,
essenziale della missione.
2 Nel modo più assoluto il termine “cammino” è peculiare agli Atti degli Apostoli, ed è l’esperienza delle Comunità.
Per esempio: “mentre era in viaggio” (At 9,3); “lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di
Dio” (At 18,26).
 I Padri della Chiesa non esclusero mai questa dimensione del “servo”, al contrario, essi si
riempivano di giubilo in previsione di essere scelti per seguire l’esempio di Cristo Signore, fino
all’estrema conseguenza.
Sant’Ignazio di Antiochia insiste: “Sono frumento di Dio” e chiede ai suoi fratelli e alla sue sorelle
nella fede: “Concedetemi di essere imitatore della passione del mio Dio. Chi conosce il mio cuore,
capirà che cosa desidero…” 3.
Paolo spiega che il desiderio di essere “servo” gli è entrato fino nel midollo, fino alla radice
della persona, fin nel profondo dell’anima.
Il servizio dei “servi di Cristo” arriva all’estremo: “desiderare con tutto il cuore di fare la volontà di
Dio”(cf. Ef 6,6).
Essere “servo di Cristo Gesù” per Paolo significa avere un profondo amore e una fedeltà
irrevocabile. “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita
nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
“Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi,
tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per
il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”
(Fil 3,7-8).
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso dichiara: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello
che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a
voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro
frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Gv 15,15-16).
Il servo diventa amico per grazia di Dio, perché è il Signore stesso che lo assicura.
D’ora innanzi “né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né
profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”
(Rm 8,38-39).


Chiamato ad essere apostolo.


San Gerolamo traduce: “vocatus apostolus”.
Paolo è apostolo per vocazione, riceve una chiamata specifica.
La vocazione non si può confondere con la scelta di una professione.
Quando diciamo che ci sono medici che esercitano la professione “per vocazione”, intendiamo dire
che non c’è solo una competenza professionale, ma una passione. Quando si afferma che qualcuno è
“nato” per essere medico, insegnante, ingegnere, infermiere, si vuol sottolineare che c’è
un’inclinazione naturale, un carisma speciale per quella determinata professione, quel determinato
servizio.
La vocazione “religiosa” non è come una professione, è qualcosa di essenzialmente differente.
La vocazione religiosa non ha le sue radici nelle doti naturali di una persona, né nasce solo in
determinate categorie di persone o di classi sociali, non esistono elementi esclusivi che
predispongono una persona ad essere chiamata e ad optare per questo stato di vita.
In altre parole non ci sono parametri psicologici, antropologici o sociologici che possano spiegare
perché una persona intraprende questo cammino.
Non c’è nessuna possibile spiegazione!
Vocazione presuppone qualcuno che chiama e qualcuno che ascolta e risponde alla chiamata.
Sono tre gli elementi che caratterizzano le vocazioni nel Nuovo Testamento.
La chiamata dei primo discepoli nel Vangelo di Marco ci può essere di esempio (Mc 1, 16-20).
C’è un incontro, una chiamata, e una reazione alla chiamata.
Gesù cammina sulla riva del mare della Galilea, vede Simone e suo fratello Andrea e, inseguito i
figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni.
L’incontro avviene in un contesto normale del vivere quotidiano, nel mezzo di un lavoro disagevole
e faticoso come quello della pesca. Senza nessun motivo o spiegazione, senza nessuna conoscenza o
presentazione previa, Gesù si avvicina a loro e li chiama, ma contemporaneamente, mentre li
chiama, dà un ordine e fa una promessa: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”.
3 Sant’Ignazio di Antiochia: Lettera ai Romani, cap. 4
Pietro e Andrea continuano ad essere pescatori, ma la loro professione è sublimata ad un altro
livello, ad un’altra dimensione. D’ora in avanti saranno “pescatori di uomini”.
La loro professione si trasforma in una vocazione che oltrepassa la dimensione puramente umana.
Il mare dove pescano si trasforma “nel mare della vita”, nell’impegno e nel coinvolgimento con la
realtà che li circonda.
Sono chiamati a seguire Gesù e a credere nella Buona Notizia, per dar testimonianza e contagiare il
mondo con la Buona Notizia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,14).
La sorprendente reazione dei discepoli è la stessa: “lasciarono” e “seguirono”.
Senza nessuna discussione preliminare, nessuna richiesta sulle prospettive future, sulle effetti
riguardanti la vita famigliare di ciascuno (pensiamo al vecchio Zebedeo che in un attimo perse i
figli…), delle imprevedibili conseguenze sulla salute, sulla sicurezza della vita futura, nessun
analisi riguardo le conseguenze che questa decisione repentina avrebbe provocato sulla loro vita
futura. Anzi, un dettaglio molto significativo ci fa capire l’atteggiamento profondo dei discepoli:
non solo “lasciarono”, ma lasciarono “immediatamente”.
Queste le conseguenze provocate dall’incontro con Gesù di Nazareth ai margini del Mare della
Galilea!
Che trasformazione nella vita di questi quattro pescatori!
Lasciano la famiglia, i compagni di lavoro, le reti da pesca, ma lasciano anche la “rete (il tessuto)
“sociale”, lasciano tutto quello che dà loro sicurezza, stabilità, futuro. Lasciano un presente certo
per un futuro incerto e misterioso, una vita sicura, avviata, per una vita insicura, senza previsioni e
certezze.
Dove e quando terminerà questo cammino? Nessuno può prevedere.
Tutto è appena iniziato, ma già sanno, nel profondo del loro cuore, che non sarà possibile tornare
indietro.
Il cammino sarà segnato dalla gioia del successo della missione, “tornarono pieni di gioia dicendo:
Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (lc 10,17), ma anche dalle incomprensioni e
da profonde crisi di scoraggiamento e paura, Gesù stesso li rimproverava: “Perché siete così paurosi?
Non avete ancora fede?” (Mc 4,40).
Nella vocazione di Saulo, anche se in circostante totalmente differenti, ci sono gli stessi
elementi: l’incontro, la chiamata e la risposta alla chiamata.
Negli Atti degli Apostoli (At 9,1-22; 22, 4-16; 26,9-18) troviamo tre racconti della chiamata e un
cenno breve, ma molto significativo, nella Lettera ai Galati (Gal 1,11-17).
Saulo stesso confessa che “perseguitava e devastava la Chiesa di Cristo” (Gal 1,13) e che “era sempre
fremente e minacciava di morte i discepoli del Signore” (At 9,1).
Ma i piani di Dio sono altri.
In questo contesto di odio violento e totale contro i seguaci della dottrina di Cristo (At 9,2), Gesù
entra nella vita di Saulo e lo “travolge”, lo costringe a “cadere a terra”.
L’incontro di Gesù con Saulo non ha niente di delicato e piacevole.
È un incontro estremamente violento!
Non assomiglia all’incontro sulla riva del mare di Galilea, quando Gesù dice ai discepoli
“seguitemi!”.
Alle porte di Damasco, Egli gli appare come una luce “che lo avvolge dal cielo, luce più brillante del
sole” e lo chiama due volte con il suo nome “Saulo, Saulo”. Subito lo immobilizza con una domanda
esplicita “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo” (At 29-6,14).
Non serve colpire con un pugno la punto di un coltello affilato!
Paolo più tardi dirà con immensa gratitudine: “mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1,15).
“Chi sei Signore?” osa chiedere.
La risposta è una chiamata, che divide la vita del giovane Saulo in due parti, una prima e una dopo:
“Chi sei, o Signore?” E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi;
ti sono apparso infatti per costituirti servo e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti
apparirò ancora” (At 26,15-16).
Come la chiamata di Gesù a Pietro e Andrea, a Giacomo e Giovanni è stata imperativa e
incisiva, così con Saulo, non c’è stato nessun “sondaggio preliminare”, nessuna “consulta”, nessuna
“ricerca sul campo” per sapere se la proposta verrà accettata. No! Non c’è nessun romanticismo,
nessuna indulgenza né tolleranza. È un ordine, un comando, un mandato!
 Non c’è possibilità di scelta, non si può accettare per piacere o desiderio.
C’è “Uno” che chiama, afferra con insistenza chi è chiamato e lo conquista.
Più tardi nella Lettera ai Filippesi Paolo, racconterà così del suo travolgente incontro con il Signore
alle porte di Damasco: “sono stato conquistato da Gesù Cristo4” (Fil 3,12).
Gesù ha fatto così con Saulo, l’ha afferrato, l’ha preso, dominato, conquistato.
Non è stata un’idea, una visione causata da circostanze fortuite, un nuovo modo di interpretare la
storia, una tesi filosofica o un trattato teologico che gli fecero abbandonare il vecchio cammino e
andare addirittura nella direzione opposta.
“Qualcuno” è entrato nella sua vita e ha causato un vero terremoto alla sua esistenza.
È stata una persona che l’ha chiamato, la luce che quel giorno ha avvolto Paolo, mentre si trovava
vicino alle mura della città di Damasco, è stata il segnale indelebile della presenza di Cristo Risorto.
Da quel momento diventerà il testimone del Signore “come se vedesse l'invisibile” (Eb 11,27).
Mai più dimenticherà il momento di Damasco, come Giovanni non dimenticò l’ora del primo
incontro con il maestro, quella indimenticabile “decima ora” (Gv 1,39).
Si arriva a un punto in cui non c’è più ritorno!
S. Agostino riesce a descrivere tutta la carica emotiva e la profondità dell’esperienza della
vocazione nel decimo libro della sue Confessioni: “Tardi ti ho amato” (Libro 10,27).
La chiave per comprendere come la chiamata del Signore ha trasformato la vita di Paolo la
troviamo nella Prima Lettera ai Corinti quando esclama: “Non è infatti per me un vanto predicare il
vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16).
Paolo, parlando della sua missione di apostolo totalmente gratuita e per descrivere la ragione del
suo impegno e della sua missione, utilizza una parola greca che ricorda i personaggi delle tragedie
greche5.
Perché Paolo usa questo termine per definire la sua condizione di annunciatore del vangelo?
Perché prende a prestito dalla mitologia greca la parola “destino” che suscita paura, terrore e indica
una sorte a cui nessuno può scappare?
Paolo non trova altri termini adeguati per descrivere la sua esperienza, un’esperienza di
conversione, di totale capovolgimento della sua vita.
È chiaro che la parola “destino”, per lui, non ha il significato di paura, terrore e non è mai un
destino poco chiaro, impersonale, sinistro o fatale.
“Destino”, per Paolo, è un coinvolgimento totale, illimitato, senza riserve alla chiamata del Signore.
Niente oramai potrà mai separarlo dal suo Signore: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo?
Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35).
Chi almeno una volta ha bevuto a questa fonte, chi ha partecipato a questo banchetto, chi almeno
una volta si è immerso in questo amore, non sarà più lo stesso!
“Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto
ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il
quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”
(Fil 3,7-8).
Questa è la mistica della vocazione di Paolo!
Non esiste altra mistica se non questa, che è capace di motivare e sostenere la vocazione dei
discepoli e delle discepole, dei missionari e delle missionarie: “per Lui perdo tutto” (Fil 3,8).
Questa è la vera e unica base della vocazione: “per Lui!”, questa è la mistica e la motivazione
esistenziale!
Non è più possibile liberarsene!
Non si può più vivere senza annunciare il vangelo, senza essere un testimone di fede, di speranza e
di carità.
È impossibile non gridare nel mondo, sulle piazze, sulle strade, nelle famiglie e nelle chiese, di
giorno e di notte, che “Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,11).
 In greco non ha solo il significato di “essere conquistato” ha un significato ancora più forte “Essere afferrato”:
“qualcuno che si avvicina a te e ti afferra la nuca con la mano”.
5 Questa parola ricorda un personaggio delle tragedie greche (es. Antigone di Sofocle) ed esprime una forza cieca, una
fatalità inesorabile, un potere inesplicabile del destino, alla quale non è possibile ribellarsi o disobbedire, una forza
oscura e misteriosa che determina la sorte dell’essere umano.
Questa è la reazione di Paolo alla chiamata di Gesù: “subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di
Dio” (At 9,20). “Immediatamente” senza esitazione o timore, senza mezze parole, senza timidezza o
fiacchezza! Con “parrhesia”!6
I tempi cambiano! La Chiesa al tempo di Paolo era diffusa nelle regioni intorno al Mediterraneo,
ora ha oltrepassato tutte le frontiere ed è presente in molte culture.
L’impeto missionario di Paolo e la passione che caratterizza l’apostolo della genti, anima anche
oggi i discepoli e le discepole, i missionari e le missionarie del Signore. “è l'amore del Cristo che ci
spinge” (2 Cor 5,14). Non fa nessuna differenza tra quello che scrive Paolo a Timoteo: “so infatti a chi
ho creduto” (2 Tm 1,12) e la parola che suor Doroty7 nella sua ultima intervista rilasciata una
settimana prima del suo assassinio disse: “io credo molto in Dio e so che Egli sta con me”.
Ecco lo stesso ardore, la stessa passione per Cristo e il suo Regno, che attraversa i secoli!


Prescelto per annunziare il Vangelo di Dio


Paolo scrive ai Galati: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la
sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza
consultare nessun…” (Gal 1,15-16).
Paolo usa lo stesso linguaggio delle vocazioni profetiche dell’Antico Testamento.
Essere apostolo non dipende da un’iniziativa particolare personale, ma è opera, grazia di Dio.
È Dio che prende l’iniziativa.
È Lui che chiama e invia: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha
pronunziato il mio nome” (Is 49,1b).
Nel sesto capitolo del profeta Isaia leggiamo come Dio prepara il suo profeta.
Manda un Serafino per togliere un tizzone ardente dal fuoco dell’altare per purificare le labbra di
Isaia perché possa diventare la “bocca” del Signore: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è
scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato” spiega il serafino. Solo dopo si ode la voce di Dio:
“Chi manderò e chi andrà per noi?” Isaia risponde: “Eccomi, manda me!” (cf Is 6,6-8).
Ezechiele è obbligato a mangiare il rotolo che contiene la parola del Signore (Ez 3,1-3).
Prima cosa è necessario assimilare la Parola, farla penetrare.
Essa per un metabolismo misterioso si trasformerà in “protoplasma” diventerà vita in Ezechiele.
Egli deve solo ascoltare la voce di Dio: “Figlio dell'uomo, và, recati dagli Israeliti e riferisci loro le mie
parole” (Ez 3,4). “con le mie parole!” non sono le parole di Ezechiele.
Egli è solo lo strumento, la bocca, il portavoce!
Ancora più significativo è il racconto della vocazione di Geremia (Ger1,4-19).
Paolo, quando afferma che è stato “scelto per il vangelo di Dio” si riferisce, senza dubbio, al testo che
racconta la vocazione di Geremia, che si ripete in Paolo.
Dio “conosce” Geremia prima di essere formato nel grembo materno. È Dio che lo “consacra”, che
lo “costituisce” profeta.
Il verbo “consacrare” significa “separare” dal mondo profano, togliere dalle circostanze considerate
“normali” per una persona, per destinarla ad un ministero profetico.
“Consacrare” comprende due movimenti: “separare da” e “destinare a”.
Nella Lettera agli Ebrei, quando si parla del sommo sacerdote che è “preso fra gli uomini” non è
perché possa vivere una vita tranquilla, ma perché sia “costituito per il bene degli uomini nelle cose che
riguardano Dio” (Eb 5,1).
 Il termine “parrhesia” è usato negli Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli), ma la sua origine è nella letteratura
greca, specialmente in Euripide. È composto da due parole che letteralmente significano “tutta la parola”. Parrhesia
dunque significa una decisione coraggiosa di dire “tutto”, “tutta la verità”, senza ritenere o nascondere niente. Ha
diverse traduzioni. Ma solamente tutte insieme danno il vero significato della parola parrhesia: intrepidezza, ardimento,
fermezza, audacia, valore, coraggio, fiducia, sicurezza, passione, ardore, fervore (cf At 4,13; 4,29; 4,31; 9,27;13,46;
14,3; 19,8; 26,26; 28,31).
7 Doroty Mae Stang, suora statunitense, brasiliana di adozione, della Congregazione delle suore di Notre Dame di
Namur, è arrivata nel 1982 in Brasile nella Prelazia di Xingu, è morta assassinata il 12 febbraio 2005 a 73 anni di età
nella città di Anapu, a 140 Km da Altamira. Lottava contro i progetti di colonizzazione che non favorivano il rispetto
della foresta e dei suoi abitanti, per questo difendeva anche le famiglie degli agricoltori minacciati dai “pistoleros” e dai
tagliatori di legname della foresta.
 La reazione di Geremia, alla chiamata del Signore, è molto umana: “io non so parlare, perché sono
giovane!”(Ger 1,6). Il Signore però risponde solo con un comando, un mandato: “non dire sono
giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò” (v. 7).
Dio conosce il futuro del suo profeta, prevede le angustie e le persecuzioni che soffrirà a causa del
suo mandato, per questo aggiunge: “Non temerli, perché io sono con te per proteggerti” (v. 8).
Dio non abbandonerà mai il suo profeta!.
La storia di Paolo sarà simile a quella del profeta Geremia.
Soffrirà molto per la missione per la quale Dio l’ha “afferrato” e, quando in Macedonia, viene
accusato di essere un bestemmiatore, da Dio riceve la stessa promessa di Geremia,: “E una notte in
visione il Signore disse a Paolo: Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te
e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città (At 18,9-10).
“Io sto con te!” L’apostolo non vive separato dal mondo per rimanere solo.
Per l’apostolo non si tratta di rinunciare a tutto quello che il mondo offre!
L’amore è più grande! Vince!
Dio non promette di togliere tutti gli ostacoli, di risolvere tutti i problemi, di facilitare il cammino.
Dio dice solo: “Io sarò con te”. Questa promessa del Signore attraversa tutta la Bibbia.8
Quando il Signore sceglie qualcuno per una missione speciale, farà sempre questa promessa.
In ogni circostanza la persona chiamata potrà contare sulla presenza e la vicinanza del Signore.
Mosè reclama: “Chi sono io per andare dal faraone…?
Dio risponde semplicemente: “Io sarò con te” (Es 3,11-12).
Gli succede Giosuè che riceve dal Signore la stessa promessa:
“Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada” (Gs 1,9).
Nel Nuovo Testamento la presenza di Dio fra noi raggiunge il suo punto culminante in Gesù:
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14)9
Il Vangelo di Matteo cita il profeta Isaia per annunciare la nascita di Gesù: “Ecco, la vergine
concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23; Is 7,14).
È proprio Matteo che fornisce la traduzione della parola Emmanuele: “Dio sta con noi”.
Nell’ultimo versetto, sempre del Vangelo di Matteo, Gesù afferma:
“io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Nel Vangelo di Luca, l’angelo Gabriele si rivolge a Maria con questo saluto:
“Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te” (Lc 1,28).
Con il sì di Maria la presenza di Dio è diventata reale, tangibile, visibile. “egli è in mezzo a noi”.
Paolo, “chiamato per il vangelo di Dio” ci fornisce una relazione della sua vita di “servo di Cristo Gesù
chiamato per essere apostolo”: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro:
molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo
di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe,
una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle
onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai
pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e
travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio
assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 23-28).
La chiave per capire come un uomo sia capace di accettare tante contrarietà e sofferenze senza
scoraggiarsi, senza perdere l’entusiasmo, senza spegnere l’ardore, senza raffreddare la passione, è
solo questa, e non può essere che la promessa del Signore: “Non aver paura, ma continua a parlare e
non tacere, perché io sono con te…” (At 18,9-10).
Itaici (Indaiatuba) SP 5 aprile 2008
Tratto dal massaggio del vescovo di Xingu ERWIN KRÄUTLER C.PP.S
Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile a Itaici (Indaiatuba)SP 46ª Assemblea Generale 2-11 aprile 2008
 Ecco alcune citazioni dell’ Antico Testamento dove Dio fa questa promessa:
Gn 24,26; Dt. 4,7; Es 3,1-6; Ez 48,35; Gdc 6,1-24; se vuoi puoi fare una ricerca personale più approfondita
9 “Carne” designa l’umanità. Il Verbo si è rivestito di tutta la nostra umanità con tutta la sua debolezza e fragilità,
inclusa anche la morte (cf Fil 2,6-8).
In greco la parola “abitare” ricorda la Tenda simbolo della presenza di Dio nell’Esodo.
Nel Verbo, l’Unigenito del Padre, risiede la presenza di Dio “io sono colui che sono” (Es 3,14), è “l’Emmanuele”, il
“Dio con noi” e nello stesso tempo è “ Yehoshua” “Dio salva”, Dio libera”.

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