DON ANTONIO

domenica 25 marzo 2012

«Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» di ROBERTO FORNARA




L’espressione di san Paolo nella lettera agli Efesini (3,17) si presta
bene al nostro intento di approfondire l’esperienza spirituale della beata
Elisabetta della Trinità (1880-1906), giovane laica e poi carmelitana, che
ha fatto dell’interiorità e dell’inabitazione trinitaria il centro della propria
vocazione e della propria missione. È possibile rileggere tutta la sua
esperienza spirituale alla luce di Ef 3,17, sia perché si tratta di un testo
molto caro alla giovane mistica francese, sia perché lei stessa – soprattutto
negli ultimi periodi della sua esistenza – rilegge la propria vita e la ridice
servendosi soprattutto delle espressioni del suo «caro san Paolo», maestro e
guida nella vita dello Spirito. Si può affermare, senza esagerare, che se
dapprima Elisabetta legge l’epistolario paolino per nutrirsene nella vita di
orazione, negli ultimi periodi san Paolo le serve soprattutto per dire la
propria esperienza.
Dal brano della lettera agli Efesini attingiamo quattro punti
fondamentali di riflessione sulla spiritualità trinitaria di Elisabetta;
partiamo dalla centralità di Cristo nella sua vita spirituale, per soffermarci
poi sulla metafora dell’«abitare» e sull’importanza della fede. Da ultimo,
attingiamo dallo stesso v. 17 l’espressione «radicati e fondati nella carità»,
che tanto ha nutrito la carmelitana.
Paolo chiede che il Cristo abiti stabilmente nel cuore dei credenti. La
vita mistica, secondo Elisabetta, è prima di tutto vita cristiana, è spiritualità
battesimale. In tutta la sua esistenza non cerca altro che questo: che il
Cristo abiti in lei, che prenda pieno possesso di lei, che egli cresca mentre
Elisabetta diminuisce (cf Gv 3,30). Se chiedessimo alla carmelitana, con la
sua forte sensibilità estetica ed artistica, di tratteggiare con un’immagine la
vita cristiana, forse la definirebbe con l’immagine dello Spirito Santo
(iconografo interiore), che scrive in noi l’icona del volto di Cristo, passo
dopo passo, di splendore in splendore: «noi tutti, a viso scoperto,
riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati
in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello
Spirito del Signore» (2Cor 3,18). Anche l’ultima malattia, che la condurrà
alla morte, obbedisce a questo progetto divino: è l’ultima pennellata, quella
che la rende partecipe delle sofferenze di Cristo.
Ogni vocazione cristiana, per la beata, si fonda chiaramente su
questa base solida e sicura (giunge ad affermare, scrivendo ad un sacerdote,
che «carmelitana ed apostolo sono la stessa cosa»: entrambe le vocazioni,
infatti, hanno come scopo quello di preparare un’incarnazione del Verbo
nelle anime, in forme diverse).
La lectio divina quotidiana, in particolare, è la via che la conduce
all’esperienza cristiana. Si scopre abitata da una Presenza, e la Parola – il
Verbo fatto carne – è appunto la Presenza interiore che consola, illumina,
esorta, rivela i segreti del Padre. In questo cammino Elisabetta è guidata
dalla certezza esperienziale di un detto evangelico: «il Regno di Dio è in
mezzo a voi» (Lc 17,21). La carmelitana lo legge in un’altra traduzione,
conosciuta e apprezzata da molti padri della chiesa: «il Regno di Dio è
dentro di voi». Lo affermava Simeone il Nuovo Teologo, mistico orientale
del X secolo, per molti versi affine alla mistica francese: «siate solleciti di
possedere coscientemente dentro di voi il regno dei cieli» (Catechesi, 34,
III, 277-278). E ancora: «Io sono il grano di senape nascosto nella terra,
(…) sono io il regno dei cieli nascosto in mezzo a voi; (…) anche adesso,
pur essendo nascosto, risplendo al di sopra di tutti i cieli» (ibid., 34, III,
296).
Parlare di regno di Dio nella persona non significa semplicemente
fare riferimento alla signoria di Dio, ma anche al primato dell’azione
divina, della sua iniziativa d’amore (è Lui - scrive Elisabetta nella lettera
172 - che «si crea dentro di noi una solitudine amata»). Il regnare di Dio
implica una sfumatura dinamica, parla di un processo evolutivo nel centro
della persona. Elisabetta della Trinità lo indica rileggendo l’esperienza
spirituale in chiave mariana, ma non in chiave devozionale: per lei il
momento più significativo della vita di Maria è rappresentato dai mesi della
gestazione. Nel tempo che va dall’annuncio dell’arcangelo Gabriele alla
nascita di Gesù, la futura madre accoglie, porta e sente dentro di sé, in
modo misterioso, invisibile, una Presenza viva che è capace di determinare
e orientare tutto il suo vissuto: emozioni, sentimenti, pensieri, progetti,
scelte e decisioni. In quei mesi per Maria, «sepolta» nell’adorazione, «tutto
accade al di dentro» (Ultimo ritiro, 40-41). La spada evangelica
profetizzata da Simeone diviene, come leggiamo nella lettera agli Ebrei,
metafora di quella Parola (il Figlio) che la guida e la illumina, ma la sradica
anche da se stessa, chiedendole distacchi molto dolorosi.
La vita spirituale si identifica talmente con il cammino di Maria che,
nella sua preghiera più celebre (O mio Dio, Trinità che adoro…), la beata
Elisabetta chiede che si compia in lei come una nuova incarnazione del
Verbo: ciò che è accaduto fisicamente nel grembo della Vergine deve
accadere spiritualmente nel cuore della carmelitana. L’icona della
gestazione, che riaffiora qua e là negli scritti della mistica, oltre a
richiamare il tema dell’unificazione dei pensieri e dei sentimenti intorno ad
un unico valore (una Persona!), svela anche la tensione esistente tra una
Presenza reale, effettiva (la donna gravida ne è sicura, la sente) e
l’impossibilità, per il momento, di vederla e toccarla. È il già e non ancora.
In questo cammino spirituale cristocentrico, è l’apostolo Paolo la
guida sicura. L’espressione di Col 3,3, ad esempio, ritorna spesso sotto la
penna di Elisabetta: «voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta
con Cristo in Dio». L’essere nascosti con Cristo non è solo l’impegno delle
giornate di ritiro o il simbolo della sua vita monastica carmelitana, ma
un’esigenza della sua vita cristiana. Rileggendo il testo paolino con l’aiuto
di san Giovanni della Croce e del venerabile Ruysbroeck, interpreta la
lettera dell’«essere morti» come un invito al raccoglimento, ad essere
spiritualmente separata, spogliata da ogni cosa, amando e passando – per
mezzo dell’amore – al di sopra di ogni realtà, positiva e negativa (Il cielo
nella fede, 11). Più ancora, nell’Ultimo ritiro (§ 16), la morte a se stessa
diviene condizione irrinunciabile del cammino spirituale: «senza questo, si
può essere nascosto in Dio a certe ore; ma non si VIVE abitualmente in
questo Essere divino, perché tutte le sensibilità, le ricerche personali e il
resto, vengono a farcene uscire».
Un testo paolino che segna ancora più profondamente il fondamento
cristocentrico della spiritualità elisabettiana è Gal 2,20: «sono stato
crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me…»
(si può notare, analizzando le citazioni paoline nell’epistolario di
Elisabetta, che la carmelitana non predilige i testi parenetici, morali, ma le
sezioni dottrinali – da gustare e assaporare nei momenti di preghiera
contemplativa – e soprattutto i brani autobiografici, in cui l’apostolo apre
uno spiraglio sulla propria esperienza interiore). Il tema della
trasfigurazione cristologica ritorna ampiamente: non è più Elisabetta a
vivere, ma Cristo vive in lei, con tutte le sfumature di concretezza che ciò
può comportare. La preghiera, ad esempio, non è più un’attività umana, ma
opera di Cristo in lei (cf Lettera 105).
L’espressione di Paolo contiene una duplice verità: da una parte
parla di una trasfigurazione, di una trasformazione in atto, di una presenza
viva in azione, ma dall’altra dice che tale trasformazione in Cristo può
avvenire solo attraverso la morte dell’uomo vecchio, attraverso un
cammino di purificazione e di kenosi. Elisabeth Catez ricorre spesso alla
metafora della morte (così come l’apostolo parla di essere «crocifisso» con
Cristo) o anche a quella della sepoltura, convinta che occorra donare tutto a
Dio, dimenticandosi del tutto per la felicità dell’altro, vivendo «più con la
volontà che con l’immaginazione» (Lettera 278).
La giovane monaca si sente identificata anche con un’altra celebre
espressione paolina: cotidie morior (1Cor 15,31), che le parla della
quotidianità, della costanza, del dinamismo di questa morte a se stessa. Per
lei è un vero e proprio progetto di vita (cf Il cielo nella fede, 12; tutto il
paragrafo è ispirato a Gv 3,30). Ogni giorno l’uomo nuovo che è Cristo
cresce, se la creatura accetta di far morire il proprio orgoglio, se è
disponibile a far tacere la propria sensibilità ferita. Ad una conoscente
scrive: «che il regno dell’amore si stabilisca dunque pienamente nel suo
regno interiore, e che il peso di questo amore la trascini fino all’oblio totale
di se stessa, fino a quella morte mistica di cui parlava l’Apostolo quando
esclamava: “Vivo, non più io, è Gesù Cristo che vive in me”» (Lettera
264).
Fino alle ultime settimane di vita può dire di aver fatta propria
l’affermazione di san Paolo: «Mihi vivere Christus est» (Fil 1,21).
Commenta in proposito: «non voglio più niente se non essere identificata
con Lui: “Mihi vivere Christus est”, Cristo è la mia vita!... Tutta l’anima
ardente di san Paolo passa attraverso queste righe» (Il cielo nella fede, 28).
Ef 3,17, da cui siamo partiti, ricorre alla metafora di Cristo che
«abita» nel cuore dei credenti. Il testo greco ricorre al verbo katoikésai, che
potremmo tradurre con «inabitare» o «abitare presso» qualcuno. Siamo nel
centro della spiritualità di Elisabetta, che vive un’esperienza unica
dell’inabitazione trinitaria. Fin dal giorno della sua prima comunione, le
viene indicato (seppure erroneamente) che l’etimologia ebraica del suo
nome di battesimo significa «casa di Dio». Per lei è una scoperta, un dono
inatteso, una rivelazione a cui adeguerà il proprio pregare, rimanendovi
fedele per tutta la vita.
La preghiera alla Trinità ricorre molte volte alla metafora della casa.
Elisabetta si percepisce come la «dimora amata» di Dio, vuole essere il
«luogo» del suo riposo, comprende se stessa come una piccola Betania
evangelica, in cui l’Ospite divino possa essere accolto con tutto l’amore
possibile e sentirsi come a casa propria. In tutta la traiettoria della sua
esperienza spirituale, sperimenta la verità dell’homo capax Dei. Tuttavia
non si comprenderebbe in pienezza l’uso di questa metafora, se non se ne
cogliesse l’orizzonte di reciprocità; ai «suoi Tre» (le Tre Persone divine)
Elisabetta chiede: «seppellitevi in me, perché io mi seppellisca in voi».
Scopre, in poche parole, che il desiderio di abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della vita (cf Sal 27,4) è realizzabile se ci si scopre abitati da
Lui, da un Amore che ci precede sempre e comunque. A questo proposito,
come molti altri santi carmelitani, gusta, medita e sperimenta la bellezza di
Gv 14,23: «se qualcuno mi ama… verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui».
A partire da questa reciprocità si comprende come mai, nella stessa
preghiera trinitaria, ritorni così spesso il simbolismo dell’«entrare» e
dell’«uscire»: «aiutami a dimenticarmi interamente per stabilirmi in te…
che niente possa turbare la mia pace, o farmi uscire da te… vieni in me…
affascinami perché io non possa più uscire dalla tua irradiazione… scendi
su di me… chinati verso la tua piccola povera creatura…». Il suo desiderio
fondamentale è quello di uscire da se stessa in modo radicale, entrare in
Dio e rimanere in Lui. Ma capisce di non poter uscire da se stessa se non
entrando in Dio. La vera rinuncia, il vero distacco possono nascere solo
dalla capacità di sollevare lo sguardo e di fissarlo su di Lui, dal lasciarsi
invadere da Lui. Pian piano riesce a liberarsi di un certo volontarismo
derivato piuttosto dalla formazione ricevuta per aprirsi all’accoglienza
dell’Amore che la vuole abitare. Ecco perché ripete la stessa invocazione al
Padre («chinati verso la tua piccola povera creatura»), al Figlio («vieni in
me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore») e allo Spirito
(«scendi su di me»).
In una delle sue ultime lettere, scritta il 23 ottobre 1906, a pochi
giorni dalla morte, riassume questa esperienza luminosa dell’inabitazione
trinitaria come l’orientamento essenziale del suo cammino: «è ciò che ha
fatto della mia vita (…) un Cielo anticipato: credere che un Essere che si
chiama l’Amore abita in noi ad ogni istante del giorno e della notte e che ci
chiede di vivere in comunione con Lui». La stessa lettera prosegue
spiegando che ciò significa ricevere ogni gioia e ogni dolore come
provenienti direttamente dal Dio-Amore: è solo tale atteggiamento che
permette di far vivere al di sopra di tutto ciò che passa e di non lasciarsi
sconvolgere e turbare nella propria pace interiore dagli eventi esterni
(un’immagine che le è cara è quella di voler rimanere pacifica e serena
come la superficie immobile delle acque di un lago, non scossa da alcun
alito di vento).
Il suo ritornare sulle espressioni dell’inabitazione e dell’ospitalità
reciproca lascia chiaramente intravedere gli echi di Gv 15, un testo molto
caro alla beata (Giovanni e Paolo sono i suoi due grandi maestri spirituali).
Gesù le rivolge, attraverso l’evengelista Giovanni, molti inviti che la
interpellano in profondità: «rimanete in me e io in voi… chi rimane in me e
io in lui, fa molto frutto… se rimanete in me e le mie parole rimangono in
voi… rimanete nel mio amore…». Bisogna ricordare, a questo proposito,
che la traduzione francese in cui Elisabetta legge il quarto vangelo, usa
sempre il verbo demeurer, nella duplice accezione di «abitare» e di
«rimanere»: ogni ricorrenza dell’espressione le richiama la bellezza,
l’intimità e il rifugio di una casa accogliente.
Un celebre assioma medievale dice: Noli quaerere locum, quia tu
ipse locus es («non cercare un luogo: sei tu stesso quel luogo»). Nella vita
spirituale non occorre cercare di costruire una casa in cui fare esperienza di
Dio, perché la prima necessità è quella di rientrare in se stessi,
riscoprendosi come casa di Dio, tempio della sua presenza, luogo del suo
agire salvifico e misericordioso. Ad un’amica, destinataria della lettera 172,
consiglia di interpretare in questo modo il rientrare in se stessa: «fallo
riposare riposando te stessa in Lui». La prima indicazione è a far riposare
Dio, non a vivere la preghiera per cercare di star bene, di essere in pace con
se stessa, di trovare semplicemente una risposta ai propri problemi, alle
proprie difficoltà. Ma per Elisabetta non esiste alcuna contraddizione fra il
farlo riposare in noi e il riposare noi stessi in Lui. Quanto più lo si accoglie,
più gli si lascia spazio, più si diventa per Lui una casa confortevole, tanto
più si trova in Lui il luogo del proprio riposo, scoprendo un orizzonte
infinito, un santuario interiore sconosciuto.
Nelle espressioni della preghiera alla SS.ma Trinità, il simbolo della
casa esce anche dallo spazio quotidiano e profano per divenire un luogo
sacro, uno spazio liturgico. Soprattutto negli anni della vita al Carmelo
(pochi, in realtà: dei 26 anni vissuti, solo 5 sono trascorsi nella vita
monastica), Elisabeth Catez vive la vita di ogni giorno come un
prolungamento della liturgia rituale: l’espressione «il cielo sulla terra», con
cui la tradizione orientale definisce la celebrazione liturgica, diventa per lei
il sinonimo della bellezza e della dignità dell’esperienza spirituale
quotidiana. Vive la liturgia di ogni istante, facendo di ogni realtà uno
spazio sacro, un tempio della presenza divina. È familiarizzata, del resto,
con molte espressioni paline, che le ricordano tale verità: noi siamo tempio
di Dio, tempio dello Spirito, luogo della presenza trinitaria (cf ad esempio:
1Cor 3,16; 6,19; 2Cor 6,16). Tutto diviene spazio sacro, e una persona che
vive immersa nell’Amore – secondo Elisabetta – non fa mai nulla di
banale.
Si potrebbe dire che la metafora trinitaria della casa rivesta, negli
scritti di Elisabetta, tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto è la casa
come simbolo di radicamento e di appartenenza, è il trovare la propria
abitazione, è il rimanere in Lui e Lui in noi. Alcuni padri della chiesa
ripetevano che lo Spirito realizza nel cuore del credente l’oikéiosis (poiché
oìkos e oikìa in greco significano «casa», si potrebbe tradurre con «aria di
casa»): lo Spirito deve lavorare per convincerci che la Trinità è la nostra
casa, che ci troviamo a nostro agio, che scopriamo noi stessi soltanto in
Dio. Questo stesso Spirito – secondo l’espressione di Ef 3,19 – ci fa
«conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza», perché è in
Cristo che ci viene rivelato quanto sia grande, spaziosa e accogliente questa
casa. È al Figlio che si rivolge particolarmente la preghiera di Elisabetta;
nel Figlio e attraverso il Figlio scopre nella propria interiorità orizzonti e
panorami più vasti e più belli di quelli contemplati durante i viaggi e le
escursioni delle vacanze giovanili. È l’orizzonte cristologico della
metafora.
In secondo luogo, l’immagine dell’abitare si apre ad un profondo
valore antropologico. La casa non è semplicemente uno spazio, ma un
luogo in cui ci si scopre protetti, al sicuro. Protezione e rifugio sono
attributi di Dio nelle espressioni dei salmi, che parlano di un Dio all’ombra
delle cui ali il credente si rifugia, di un Dio che è padre degli orfani e
difensore delle vedove, roccia ferma e sicura. Un Dio che è – per usare
un’immagine propria della carmelitana – un «oceano d’amore» che ci
avvolge e ci invade da ogni parte. È l’orizzonte teologico della metafora,
che permette alla carmelitana di scoprire e di sperimentare il volto di Dio
come Padre.
Infine, sempre da un punto di vista antropologico, non bisogna
dimenticare le risonanze affettive della metafora. La casa è luogo
dell’intimità, luogo degli affetti più cari, in cui si sperimenta la possibilità e
la bellezza di dare e di ricevere amore. La casa trinitaria di Elisabetta è
soprattutto questo, più che un «luogo» da custodire e da preservare. È
l’orizzonte pneumatologico della metafora, in cui lo Spirito le si rivela
come Amore e come Fuoco che consuma.
Riprendendo lo spunto iniziale attinto da Ef 3,17, non possiamo
dimenticare che questo abitare di Dio in noi avviene «per mezzo della
fede». Elisabetta della Trinità è figlia e discepola fedele di san Giovanni
della Croce, della cui dottrina rappresenta forse il lato femminile ed
esperienziale. Non dimentica perciò che il cammino spirituale si sviluppa
soprattutto mediante la fede, e la fede pura. Ad un’amica che vive nel
mondo, mentre vorrebbe già essere carmelitana, scrive: «può già essere
carmelitana, perché la carmelitana, è dal di dentro che Gesù la riconosce,
cioè dalla sua anima» (Lettera 133). La carmelitana non dipende dalle
azioni esteriori che compie, né dall’abito che indossa, ma dal proprio
appartenere a Cristo e radicarsi in Lui, dal proprio credere in Lui.
Per Elisabetta è chiaro che l’esperienza spirituale deve nutrirsi
costantemente della gioia e della volontà di credere. Soprattutto di credere
all’amore di Dio per lei. Si lascia illuminare così dalla parola di Dio: «noi
abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (1Gv 4,16).
La sua fede è certezza in questo amore preveniente, ma è anche fede nella
presenza di Dio in lei. Una fede che talvolta viene messa a dura prova,
perché deve imparare ad oltrepassare i limiti della sensibilità, del gusto, del
percepire o meno i segni della presenza divina. Alla persona che crede
veramente non importa più di sentire o di non sentire, di gustare la propria
preghiera o di camminare nell’aridità interiore, di essere nella gioia o di
attraversare la sofferenza (Ultimo ritiro, 11). Non che la sensibilità non
rimanga ferita o sconvolta, ma ciò non deve diventare determinante.
Per mezzo della fede, pur non accedendo alla visione piena che
raggiungeremo solo nella vita eterna, si può fare un’esperienza viva di Dio,
Lo si può stringere, toccare, abbracciare… Nelle difficoltà, nelle
incomprensioni, nelle sofferenze, si tratta – come spiega attingendo il
consiglio di santa Caterina da Siena – di «aprire l’occhio dell’anima sotto
la luce della fede», e tutto diventa più luminoso. Nelle lettere
dall’infermeria del monastero riconosce spesso il peso e la difficoltà della
malattia, ma riesce a fare il passo ulteriore, sotto la luce della fede (les
clartés de la foi, come ama ripetere).
Solo la fede è dunque la luce in grado di illuminarle il cammino. Ma
sa per esperienza (e per la lettura di san Giovanni della Croce) che questa
luce rimane, il più delle volte, nascosta e tenebrosa. In un testo di
meditazione, si lascia provocare da un’apparente contraddizione. Leggendo
Sal 18,12, infatti, scopre che Dio «si avvolgeva di tenebre come di velo»,
mentre in Sal 104,2 legge che egli appare «avvolto di luce come di un
manto». Elisabetta risolve la contraddizione accogliendo l’invito di
Ruysbroeck ad entrare nella «tenebra sacra»: facendo il vuoto e la notte
delle proprie potenze, la luce del Maestro avvolgerà anche lei, perché lo
Sposo vuole che anche la sposa sia splendente del suo stesso splendore. Per
questo è necessario entrare nella notte della fede.
Per questo la luce della fede diviene talvolta «l’ombra della fede» (cf
ad esempio Poesia 75). La carne del Verbo rivela il mistero del Dio
invisibile, ma nello stesso tempo lo nasconde e lo custodisce. Elisabetta è
cosciente di vivere «come una nuova incarnazione del Verbo» (cf Gal
2,20), per cui può sperimentare già la visione, ma sempre mediante
«l’ombra della fede». La fede le permette semplicemente di «sollevare il
velo» (è una sua espressione ricorrente) sul mistero di Dio, sulla vita
eterna, sulle realtà divine. Quando la persona riesce a fare questo passo
nella fede, riesce già a vivere in qualche modo nella luce dell’eternità. È
una delle caratteristiche dell’esperienza spirituale di Elisabetta: fra tempo e
vita eterna non c’è che un velo sottile; la vita cristiana nella storia è già
preludio di eternità, è già «il cielo sulla terra», perché il tempo «è l’eternità
incominciata, ma sempre in divenire» (Il cielo nella fede, 1).
In questo cammino di fede la guida e la sostiene la luce della Parola,
in modo particolare le pagine di san Giovanni e di san Paolo: «ieri - scrive -
san Paolo, sollevando un po’ il velo, mi permetteva di immergere il mio
sguardo nella “eredità dei santi nella luce” (Col 1,12) (…) oggi è san
Giovanni, il discepolo che Gesù amava, che mi schiuderà [nel testo
francese troviamo il verbo entrouvrir] “le porte eterne” (Sal 24,7.9) perché
possa riposare la mia anima nella “santa Gerusalemme, dolce visione di
pace!”» (Ultimo ritiro, 9).
Un giorno, nel corso del 1903, legge anche una definizione della fede
che le rimane impressa, e che condividerà successivamente con alcuni
destinatari delle sue lettere. Al chierico Chevignard racconta appunto di
aver ricevuto da pochi giorni un pensiero molto bello, che desidera
vivamente condividere con lui: «la fede è il faccia a faccia nelle tenebre».
Commenta in proposito: «perché non potrebbe essere così anche per noi,
dal momento che Dio è in noi?» (Lettera 165). Usando l’immagine biblica
del «faccia a faccia» si fa riferimento al massimo dell’intimità, della
familiarità e della comunione, evocando la parola, l’ascolto, la vicinanza, il
contatto, l’incrociarsi degli sguardi… Ma questo evento di comunione
viene collocato, allo stesso tempo, in un orizzonte di oscurità. I due estremi
servono a relativizzarsi a vicenda: la tensione produce l’effetto di affermare
senza esitazione la possibilità di un’esperienza di Dio, senza tuttavia
togliere nulla al carattere misterioso della trascendenza e della santità
divina. «Così dunque – scrive Elisabetta citando il Cantico spirituale di san
Giovanni della Croce – la fede ci dona Dio fin da questa vita, rivestito, è
vero, del velo con cui lo copre, ma pur sempre Dio stesso» (Il cielo nella
fede, 19).
La fede deve maturare, deve crescere e divenire incrollabile, salda.
Allo spirito di Elisabetta è cara la descrizione che la lettera agli Ebrei fa
della fede di Mosè: questi «per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del
re; rimase infatti saldo, come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27). Nei
resoconti dei suoi due ultimi ritiri spirituali, composti nel mese di agosto
del 1906, poco prima di morire, la giovane carmelitana si lascia affascinare
da questo programma di vita. Quando una persona «sa credere a
quell’“amore troppo grande” (cf Ef 2,4) che è su di lei, si può dire come è
detto di Mosè: “era incrollabile nella sua fede come se avesse visto
l’Invisibile”» (Il cielo nella fede, 20). Allora la persona raggiunge l’unità
interiore e la stabilità, non si lascia più condizionare dai gusti o dai
sentimenti: crede nell’Amore, e questa fede orienta il suo cammino.
Il brano di Ef 3,17ss dice implicitamente che la possibilità di
conoscere l’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza, è data a coloro
che rimangono «radicati e fondati nella carità» (v. 17). La dinamica della
vita spirituale è la dinamica dell’amore: «San Paolo me la spiega e me la
commenta quando dice: “Dall’eternità Dio ci ha scelti in Cristo perché
siamo immacolati, santi davanti a Lui nell’amore” (Ef 1,4). È dunque qui il
segreto di questa purezza verginale: rimanere nell’amore (cf Gv 15,9), cioè
in Dio, “Deus Charitas est”» (Lettera 244). I cammini della santità, della
purezza e della verginità coincidono, dunque, con l’amore, esclusivamente
con l’amore: «il più santo – scrive nella lettera 288 citando ancora una
volta Ruysbroeck – è chi ama di più».
Più ancora di Ef 1,4, è appunto il testo di Ef 3,17-19 a nutrire le
meditazioni della carmelitana, in particolare l’esigenza di essere «radicati e
fondati nella carità». La contemplativa di Digione insiste spesso
sull’esigenza di “rimanere” in ciò che si vive, approfondendo e gustando
sempre più il cammino di sequela. Perciò non le basta amare o compiere
certi gesti motivati dall’amore: desidera lasciarsi radicare in modo sempre
più stabile nella carità.
In questo si lascia ammaestrare e guidare da una sua consorella e
contemporanea, Teresa di Lisieux, i cui scritti circolano già nel monastero
carmelitano di Digione: «Suor Teresa di Gesù Bambino dice che “non si è
consumati dall’Amore se non nella misura in cui ci si è consegnati
all’Amore”… Bisogna che ci lasciamo radicare nella Carità di Cristo, come
dice san Paolo nella bella epistola di oggi. E come questo? Vivendo senza
sosta, attraverso ogni cosa, con Colui che abita in noi e che è Carità (cf
1Gv 4,16). Ha così sete di associarci a tutto ciò che Egli è, di trasformarci
in Lui» (Lettera 179).
In una lettera del gennaio 1906, indirizzata alla signora de Bobet,
confessa esplicitamente la sua predilezione per il testo paolino della lettera
agli Efesini: «faccio per lei una preghiera che san Paolo faceva per i suoi:
chiedeva che “Gesù abiti per la fede nei loro cuori affinché siano radicati
nell’amore” (cf Ef 3,17). Questa parola è così profonda, così misteriosa…
Oh sì, il Dio tutto Amore sia la sua dimora immutabile, la sua cella e il suo
chiostro in mezzo al mondo; si ricordi che Egli dimora nel centro più
intimo della sua anima come in un santuario in cui senza sosta vuole essere
amato fino all’adorazione» (Lettera 261). Va tenuto presente che fede,
amore e adorazione per Elisabetta della Trinità sono quasi sinonimi: aver
fede significa credere all’amore troppo grande, gratuito, preveniente,
immeritato, ma credervi nell’atteggiamento dello stupore adorante, e questa
adorazione – a sua volta – si apre quasi naturalmente all’amore e
all’attenzione nei confronti dell’altro. La beata francese lo esprime
consegnandoci una bella definizione di «adorazione»: «l’adorazione (…) è
una parola del Cielo! Mi sembra che la si possa definire: l’estasi
dell’amore. È l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dalla
grandezza immensa dell’Oggetto amato» (Ultimo ritiro, 21), e si propone
come finalità dell’adorazione quella di poter «essere presente ad ogni cosa
e ad ogni persona».
Le caratteristiche dell’ermeneutica elisabettiana di Ef 3,17,
relativamente al radicamento nella carità, si possono forse ricondurre a tre,
principalmente. In primo luogo, l’espressione paolina le richiama il tema a
lei profondamente caro del «rimanere» giovanneo, con le virtù collegate
della tenacia, della determinazione e della costanza, e più ancora con la
facile associazione alla metafora dell’abitare (resa ancor più esplicita, come
si è visto, dal ricorso al francese demeurer).
La seconda prospettiva da cui si pone Elisabetta della Trinità è data
dal fatto che «radicati e fondati nella carità» significa aver chiaro qual è il
fondamento di tutto l’edificio, e pertanto conoscere la direzione del
cammino. È avere un punto di appoggio sicuro, un punto di riferimento
immutabile. È – in altre parole – avere garanzie solide di discernimento
nelle scelte quotidiane della vita nello Spirito.
Infine, è importante sottolineare che i due verbi utilizzati da Ef 3,17
(errizoménoi, «radicati», e tethemelioménoi, «fondati») sono, nel testo
greco originale, participi perfetti passivi. La forma passiva di entrambi
rimanda ad un altro Agente, alla necessità di lasciarsi radicare e fondare
nell’amore. È un aspetto di «passività» che si concilia molto bene con
l’esperienza spirituale di Elisabetta e con la spiritualità carmelitana in
genere. Nella preghiera alla Trinità, c’è un’invocazione che scaturisce da
questo modo di comprendere i fondamenti della vita spirituale. La
carmelitana prega il Verbo dicendo: «affascinami», cioè «seducimi, fa’ che
mi innamori di te, conquistami con la tua Bellezza, vinci le mie resistenze e
accendi il mio stupore». Comprende, in altre parole, che la vita spirituale
non si può basare sull’impegno della volontà o sulla programmazione delle
cose da realizzare, ma può nascere esclusivamente dal percepire il fascino
del Volto di Cristo (il fascino di una persona – lo sappiamo da una celebre
definizione di Jean Guitton – è una certa presenza della persona amata che
fa sparire dal volto tutte le rughe e cancella dal cuore ogni paura, persino la
paura di se stessi). Solo una persona affascinata da Cristo diventa, a sua
volta, affascinante.
Un altro esempio di questo modo di comprendere «passivamente» la
vita spirituale è rintracciabile in uno degli ultimi documenti di suor
Elisabetta. Alla sua priora, madre Germana di Gesù, che chiamava
abitualmente suo «sacerdote», lascia un testamento spirituale di notevole
intensità e valore, che lascia intuire molto anche del vissuto dell’autrice. Il
cuore del documento, significativamente intitolato Lasciati amare, prende
spunto dal dialogo di Gesù con l’apostolo Pietro in Gv 21, e in particolare
dalla domanda del Maestro: «Simone di Giovanni, mi ami più di costoro?».
Elisabetta – con una libertà e una chiarezza ricorrenti quando legge e
commenta la Parola di Dio – ribalta i termini della questione. Alla priora
Gesù non dice: «mi ami…?», ma: «lasciati amare più di costoro». È la sua
vocazione, la sua missione nel Carmelo e nella Chiesa. È il prendere
umilmente coscienza che vita spirituale non significa costruzione di un
edificio, ma abbandonarsi all’azione dello Spirito, riversato nel suo cuore
fin dal battesimo.
Il 9 novembre 1906 suor Elisabetta della Trinità moriva
nell’infermeria del suo Carmelo, consumata dall’amore e dal morbo di
Addison (a quel tempo incurabile), che l’aveva portata in breve tempo alla
necrosi degli organi interni. Le sue ultime parole, raccolte dalle consorelle,
furono: «vado alla Luce… all’Amore… alla Vita». Tre concetti tipicamente
giovannei, tre immagini che hanno sostenuto il suo cammino spirituale, tre
valori che hanno reso particolarmente luminosa e affascinante la sua
esperienza mistica dell’inabitazione trinitaria, radicandola e fondandola
nell’amore.
La sua dottrina e la sua spiritualità si sono diffuse nei primi decenni
del Novecento soprattutto grazie alle opere del domenicano Marie-Michel
Philipon. Ma forse il tempo di Elisabetta della Trinità deve ancora venire.
Se è vero – come è stato scritto – che «il XXI secolo o sarà mistico o non
sarà», Elisabeth Catez è appunto una testimone credibile e convincente
della bellezza dell’essere cristiani, è una contemplativa appassionata,
convinta del primato della mistica sull’etica, è un faro luminoso che può
indicare a tutti – all’«apostolo» come alla «carmelitana» – il fondamento e
la fecondità della vera contemplazione. A chiunque la avvicini, continua a
ripetere l’invito che non si è mai stancata di scrivere ai suoi corrispondenti:
«credi sempre all’Amore».
A noi, che ne accostiamo gli scritti e ci lasciamo stupire dalla
semplicità e dalla profondità della sua esperienza spirituale, ribadisce le
espressioni di Ef 3,17ss come una preghiera, una benedizione ed un
augurio di parresia pasquale: «Quando l’anima è fissa in Lui a tali
profondità, quando le sue radici vi sono così affondate, la linfa divina si
espande a ondate in lei, e tutto ciò che è vita imperfetta, banale, naturale è
distrutto; allora, secondo il linguaggio dell’Apostolo, “ciò che è mortale è
assorbito dalla vita” (cf 2Cor 5,4). L’anima così “spogliata” di se stessa e
“rivestita” di Gesù Cristo non deve più temere i contatti con l’esterno, né le
difficoltà dall’interno, perché queste cose, lungi dall’essere per lei un
ostacolo, non fanno che “radicarla più profondamente nell’amore” del suo
Maestro» (Ultimo ritiro, 33).

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