DON ANTONIO

lunedì 26 marzo 2012

La passione d’amore di Gesù, il Servo crocifisso (Enzo Bianchi) BOSE







Tutte le testimonianze scritte sulla fine della vita terrena di Gesù sono concordi nel dichiarare che egli è morto in croce. Per la Scrittura questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal legno»: Dt 21,23; Gal 3,13), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini.


Gesù, un galileo che aveva radunato attorno a sé una comunità di pochi uomini e alcune donne coinvolti nella sua vita itinerante, ritenuto rabbi e profeta da questi discepoli e da un numero più ampio di simpatizzanti, è stato condannato e messo a morte mediante la crocifissione a Gerusalemme, il 7 aprile dell’anno 30. Questa fine fallimentare è subito apparsa uno scandalo, «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor 1,23), un grave ostacolo per la fede in Gesù, specialmente quando si cominciò a confessarlo Messia di Israele e Figlio di Dio. Ecco perché, ancora all’inizio del II secolo d.C., il giudeo rabbi Tarfon afferma nel dialogo con il cristiano Giustino: «Noi sappiamo che il Messia deve soffrire, ma che debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso, non possiamo neppure arrivare a concepirlo».
Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il crocifisso colui che «ha raccontato Dio» (cf. Gv 1,18); anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce, Gesù «ha reso testimonianza alla verità» (cf. Gv 18,37), trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato possibile che un uomo appeso a una croce diventasse colui sul quale i cristiani tengono fissi lo sguardo come Salvatore e Signore? Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto guardarsi dalla tentazione di leggere Gesù a partire dalla croce. Al contrario, come ha acutamente osservato il teologo Giuseppe Colombo, bisogna leggere anche la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, l’uomo Gesù: questa morte è l’atto che ricapitola l’intera sua esistenza spesa nella libertà e per amore di Dio e degli uomini.
Per giungere a tale comprensione gli autori del Nuovo Testamento hanno meditato in profondità le Scritture dell’Antico Testamento, una meditazione che ha lasciato tracce soprattutto nei racconti della passione di Gesù. In questi capitoli decisivi dei vangeli si possono infatti cogliere, esplicitamente o implicitamente, numerose citazioni dell’Antico Testamento che concorrono a presentare la passione di Gesù come quella del giusto ingiustamente perseguitato. Tra questi passi spiccano alcuni Salmi di supplica: «lo crocifissero e si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse» (Mc 15,24; cf. Sal 22,19); «uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere» (Mc 15,36; cf. Sal 69,22).
Ma i testi più importanti per comprendere la passione di Cristo sono certamente i cosiddetti quattro canti del Servo sofferente del Signore, la misteriosa figura annunciata dal profeta Isaia (cf. Is 42,1-9; 49,1-7; 50,4-11; 52,13-53,12). Da sempre i cristiani hanno confessato che Gesù, il crocifisso risorto, è il Servo del Signore descritto in queste pagine, e non a caso gli strati più antichi della riflessione cristologica del Nuovo Testamento presentano Gesù quale Servo (cf. At 3,13.26; 4,27.30). Un posto di particolare rilievo spetta all’ultimo di questi testi, che costituisce non solo l’apice dei quattro canti, ma anche uno dei luoghi rivelativi più elevati dell’intero Antico Testamento, al punto che la tradizione cristiana lo ha letto come una sorta di «quinto vangelo». Meditando su questo canto essa vi ha colto la dinamica di abbassamento ed esaltazione del Servo Gesù (cf. Fil 2,6-11), vedendovi profeticamente delineato il suo mistero pasquale. Nel Nuovo Testamento si segnalano una cinquantina tra citazioni e allusioni a questo brano. Ne ricordo solo due. Poco prima di essere arrestato, Gesù ha così istruito i suoi discepoli: «Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori” (Is 53,12)» (Lc 22,37). E Filippo, interrogato dall’eunuco etiope sull’identità del Servo («Di quale persona il profeta dice questo?»), «partendo da quel passo gli annunciò la buona notizia di Gesù» (At 8,34-35). In breve, leggere questo testo con intelligenza significa contemplare la passione di Cristo prima che avvenga, così come è effettivamente avvenuta: ecco perché la chiesa proclama liturgicamente il brano di Isaia 53 al venerdì santo, nel solenne ufficio in cui fa memoria della passione del Signore.
Merita soffermarsi almeno su un suo versetto: «Al Signore è piaciuto prostrare il Servo con dolori» (Is 53,10). Affermazione che può turbare, lasciandoci sconcertati al pensiero che Dio si compiaccia di far soffrire il proprio Servo. Occorre però comprenderla in profondità, per non rischiare di attribuire a Dio un volto perverso: cosa veramente è piaciuto a Dio? Che il Servo subisse atroci tormenti fino a morirne? Che suo Figlio patisse sulla croce? No, a Dio è piaciuto che il Servo fosse capace di compiere la sua volontà, cioè di «amare fino alla fine» (cf. Gv 13,1), anche a costo di subire una morte ingiusta e ignominiosa! In altre parole, il Servo Gesù non è morto per volontà di Dio, ma è morto perché noi uomini ci siamo scagliati contro di lui, accecati dal nostro egoismo che è giunto fino a una violenza omicida. È una necessitas umana, inscritta nella storia: il giusto dà fastidio, va eliminato, poiché è di inciampo alla logica e all’operato dei malvagi; la sua vita, posta sotto il segno della radicale obbedienza a Dio, è per essi una presenza intollerabile (cf. Sap 2,10-20). Qui sta la responsabilità di noi uomini; a Dio invece è piaciuto l’amore del Servo, fino alla sua capacità di amore per i nemici. È per questo che Bernardo di Clairvaux ha potuto scrivere: «Non la morte del Figlio è piaciuta a Dio, ma la volontà libera del morente, di Gesù».
Sì, Gesù è stato l’uomo che si è caricato delle sofferenze dei fratelli, l’uomo che non si è difeso rispondendo con violenza alla violenza che gli veniva inflitta, ma ha speso la vita per gli altri, offrendo se stesso «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Proprio in questa morte che agli occhi del mondo è una sconfitta consiste la vittoria dell’amore di Gesù, il Servo del Signore crocifisso, «vincitore perché vittima» (Agostino).

ENZO BIANCHI
Fonte: monasterodibose

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