DON ANTONIO

sabato 5 novembre 2011

Si raccomanda la lettura di questo articolo da parte dei credenti e no.L’uomo e la fede di Enzo Bianchi ,Priore di Bose

Prendiamo la parola «fede» senza attribuirle una sfumatura religiosa. Si può vivere senza fede? Senza dubbio si può vivere senza fede religiosa, ma senza fede in assoluto? A me sembra che si debba rispondere negativamente … Nessuno può vivere senza fede, si tratta di un «esistenziale» del nostro essere, e cioè di una dimensione che ci è costitutiva e senza la quale sarebbe difficile comprenderci. Non c’è vita senza fede: se io non credessi a nessuno, finirei per impazzire, e molto rapidamente. Sono lieto di essere questa sera in mezzo a voi, in questa realtà di Spoleto che mi è molto cara, ricca di fermenti e di iniziative, tra cui si collocano questi Dialoghi in Città. Ringrazio in particolare per l’invito rivoltomi mons. Renato Boccardo, Arcivescovo di questa amata chiesa locale di Spoleto-Norcia, assai sensibile agli appelli che salgono dal tessuto umano, culturale, sociale e civile di questa forte terra spoletana e antico amico cui sono fortemente legato da moltissimi anni ormai, da quando era giovane seminarista: a lui va tutta la mia stima, la mia sincera, fedele amicizia e l’assicurazione del ricordo costante mio e della mia comunità. Non posso tacere un altro motivo che mi unisce a voi: il meraviglioso Crocifisso di Alberto Sotio conservato nella vostra Cattedrale. Tutte le volte che vengo a Spoleto non posso non salire in Duomo e ritirarmi in preghiera dinanzi a questa vivissima immagine del Cristo vincitore e trionfante, perché ha saputo amare nella libertà e fino all’estremo. Ne ho fatto riprodurre una copia e l’ho posta nella Sala del Capitolo della Comunità di Bose…
La fede-fiducia come operazione umana Se la fede è mettere fiducia, fidarsi, se è un’attitudine complessiva della persona, allora comprendiamo che le difficoltà a credere si radicano nel profondo, nelle difficoltà stesse del mestiere di vivere; comprendiamo che la fede, il credere è una realtà antropologica fondamentale, una realtà costitutiva dell’esistenza umana, come la ragione, come il linguaggio. La fede è un atto umano, un atto della libertà dell’uomo, tanto che è possibile affermare che non ci può essere umanizzazione autentica senza la fede.
In altre parole, non si può essere uomini senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? Noi uomini, a differenza degli animali, usciamo incompiuti dall’utero materno, e per venire al mondo e crescere come persone, per acquisire una soggettività abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fede-fiducia. Anzi, fin dalla sua vita intrauterina il bambino mette fiducia in sua madre, crede in lei quando essa per lui è ancora nient’altro che una matrice; fin dal seno di sua madre egli crede alla vita di cui si sente vivere, crede alla madre che lo porta in grembo, è come abitato da una promessa, quella di poter accedere a una vita in pienezza. Tutto questo, certamente, non nell’ordine dell’intelligenza – per quanto ne sappiamo oggi – ma in quello dell’istinto e del desiderio. È così che il bambino si abbandona, si fida della madre e, una volta uscito dall’utero, cercherà ancora questo riferimento, continuando a fidarsi della madre. In tal modo egli prenderà coscienza della sua condizione umana, sarà aiutato a «venire al mondo» proprio dalla fiducia messa in sua madre. Anche solo questa esperienza «fontale» ci rivela che nella nostra vicenda umana non è possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, nella madre innanzitutto e poi, più in generale, in entrambi i genitori.
Quando si parla di fede occorre dunque fare attenzione a non pensare immediatamente al credere in verità, in dogmi (quella che i teologi definiscono «fides quae»); no, dobbiamo pensare la fede come quell’atto che consiste nel mettere il piede sul sicuro (cf. Sal 20,8-9; 125,1; Is 7,9), nell’affidarsi come un bambino attaccato con una fascia al seno di sua madre (cf. Is 66,12-13), sicuro in braccio a lei (cf. Sal 131,2). Credere, avere fede è un’operazione umana; è innanzitutto «credere all’amore» (cf. 1Gv 4,16), cioè tendere a quel pieno compimento di sé che è dato da una vita in cui si ama e si è amati: questa è l’unica promessa che sta davanti a tutti gli uomini e le donne in quanto tali. Credere è un atteggiamento assolutamente necessario per accedere all’amore, perché solo il credere nell’altro può instaurare la vera comunicazione, la comunione, l’amore reciproco. Comprendiamo dunque, ritornando all’immagine usata in precedenza, quanto è decisivo per il bambino che cresce e si umanizza che qualcuno creda in lui e che egli possa mettere fede in qualcuno; se ciò non avviene egli sarà minacciato addirittura nell’operazione di credere in se stesso.
La dinamica del credere si esprime nell’essere umano attraverso cammini in cui ci si fida l’uno dell’altro, attivando la reciprocità del credere. Ma nulla è più precario dell’atto del credere; e quando la fede, il credere diventa fragile allora l’umanizzazione è minacciata. Il credere nell’altro è un’operazione della persona ma anche della collettività, che deve essere capace di credere, di avere fiducia. Quando gli esseri umani credono negli altri, la loro azione assume i tratti della fraternità, della corresponsabilità, dell’amore, perché essi credono . Si veda in proposito l’interessante riflessione di Adolphe Gesché: «Una persona è sempre una sorpresa, in questo senso un “rischio”. Qui è in gioco tutta la questione dell’alterità, che ci obbliga ad abbandonare le nostre certezze per essere risvegliati dagli altri a una verità di cui non disponiamo e che non possiamo immediatamente verificare. Non si mette le mani su una persona come lo si fa su delle cose; e solo la fiducia nella parola dell’altro è alla fonte dell’atto che salva» («Pour une théologie du risque», in La foi dans le temps du risque, p. 129). all’amore. Una storia d’amore tra un uomo e una donna, per esempio, è possibile solo quando uno crede nell’altro. È significativo che, un tempo, in una storia d’amore ci si sentiva prima fidanzati, cioè persone che danno e ricevono fede; poi si sanzionava la storia d’amore con un anello, l’anello dell’alleanza, chiamato, non a caso, fede. Allo stesso modo, quando si accoglie un nuovo nato che nutrirà i genitori con la sua presenza e li aiuterà a credere nella vita e nel futuro, si fa un’operazione di fede. Significativamente Hannah Arendt sosteneva che senza la nascita di uomini nuovi che succedono a chi li precede, l’umanità andrebbe verso la sua rovina naturale. Sì, senza questa fede umana, non c’è umanizzazione. Ecco perché la psicanalista e filosofa Julia Kristeva ha potuto addirittura intitolare un suo scritto: Cet incroyable besoin de croire4, «Questo incredibile bisogno di credere». È sulla capacità di credere che si gioca il futuro dell’umanità!
Credere nell’altro è un atto di fede umana, dal quale dipende la qualità della convivenza umana, la resistenza alla barbarie che è sempre una tentazione per tutta l’umanità. E l’altro – non lo si dimentichi – è soprattutto chi è diverso, è lo straniero, colui che è la grande metafora dell’alterità… Sono convinto che oggi dovremmo re-imparare a credere nell’altro, dovremmo investire molte forze per una rieducazione a questa fiducia, perché gli ultimi decenni sono stati segnati proprio da un venir meno della fede, dal rifiuto radicale di credere, dal rifiuto dell’atto della fiducia come atteggiamento umano. In questa situazione, come possiamo scandalizzarci della crisi della fede in Dio? Se l’atto umano della fede è così fragile, debole e contraddetto, come potrebbe essere facile il credere in Dio? Parafrasando un’affermazione della Prima lettera di Giovanni potremmo chiederci: se non sappiamo «Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva ilfatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana».
4 J. Kristeva, Cet incroyable besoin de croire, Bayard, Paris 2007. credere nell’altro che vediamo, nell’uomo, come potremo avere fede in Dio che non vediamo (cf. 1Gv 4,20: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede»)? Nello stesso testo l’autore dà una definizione lapidaria dei cristiani, già evocata in precedenza: «Noi crediamo all’amore» (1Gv 4,16). I cristiani dovrebbero essere esattamente questo: persone che credono all’amore e che nell’umanità assolutamente necessaria della loro fede accolgono il dono della fede come risposta alla Parola di Dio, quella «fede» che «nasce dall’ascolto» (fides ex auditu: Rm 10,17). La fede è certamente un dono di Dio, è una virtù teologale, come scrive l’Apostolo Paolo in 2Ts 3,2: «Non di tutti è la fede», ma essa abita soltanto coloro cui Dio l’ha donata. Essa però si innesta solo sull’umanità dell’atto di fede, sulla capacità dell’uomo di credere: «Non è Dio ma l’uomo che crede», ha affermato giustamente Karl Barth, e solo chi sa fidarsi di qualcuno può accogliere il dono della fede in Dio! A partire da questa riflessione sulla fede come atto umano possiamo pertanto comprendere meglio – ne tratto solo en passant – il cammino della fede-fiducia in Dio, ovvero la vicenda dell’uomo che Dio vuole salvare: la lunga storia in cui Dio parla all’uomo ed entra in dialogo con lui può anche essere letta come un’educazione alla fede. Dio educa l’uomo a credere, a partire da Abramo, «il padre dei credenti» (cf. Rm 4,16-17), colui che crede nell’Altro per eccellenza, in Dio appunto (cf. Gen 15,6; Rm 4,3; Gal 3,6; Gc 2,23), e così impara a credere nell’uomo. Abramo è l’uomo che aderisce a una promessa e quindi orienta tutta la sua vita verso la realizzazione di questa Parola ascoltata e custodita. La discendenza di Abramo sarà pertanto discendenza di credenti (cf. Gal 3,7), fino a Gesù, «origine e compimento della fede» (Eb 12,2), capofila dei credenti.
Paolo, dal canto suo, porrà come contrassegno della vicenda cristiana il fondamento della fede, giungendo a scrivere che è la fede a dare salvezza: è la fede a giustificare chi si pone sulle orme di Gesù Cristo (cf. Gal 2,16). E si faccia attenzione: non una fede in termini generali o astratti, secondo la quale Dio esiste, perché questo è teismo, come aveva già compreso Blaise Pascal! No, la fede come adesione a Gesù Cristo, lui che è l’esegeta, il narratore di Dio (cf. Gv 1,18: exeghésato) e anche del vero uomo. Di più, la fede cristiana è adesione a Gesù il quale ha voluto identificarsi con ogni uomo, con l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf. Mt 25,35-38), fino ad affermare: «Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il che equivale a dire: «Ogni volta che avete messo fede in un uomo, avete messo fede in me».
E così siamo tornati al punto di partenza: da qualunque parte si affronti il discorso sulla fede, esso ci riconduce alla fede come atto, certamente precario ma quanto mai vitale, che decide l’umanizzazione, che fonda la qualità della convivenza umana.
2. Gesù, educatore alla fede Avendo accennato alla fede come adesione a Gesù Cristo, vorrei ora sviluppare più approfonditamente ciò che Gesù stesso ci ha insegnato sulla fede, seguendo una riflessione intrapresa già dai padri della chiesa, i quali hanno letto Gesù proprio come un educatore alla fede. Per fare solo un esempio, Clemente d’Alessandria, un padre vissuto tra la metà del II e l’inizio del III secolo, ha definito Gesù Cristo «pedagogo», cioè maestro, iniziatore, invitando i cristiani a guardare a lui non solo come modello di vita ma anche, appunto, come educatore alla fede. Scriveva Clemente: «Il teismo è tanto lontano dalla fede cristiana quanto l’ateismo che le è affatto contrario»: B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 19743, p. 43 (n. 114).
Gesù Cristo, il nostro pedagogo, ha tracciato per noi il modello della vita vera e ha educato l’uomo che vive in lui … Assumiamo [dunque] il salvifico stile di vita del nostro Salvatore, noi figli del Padre buono e creature del buon pedagogo.
Queste parole sono dettate dalla convinzione che c’era in Gesù un’arte nell’incontrare l’altro, nel comunicare con l’altro, nel tessere con l’altro una relazione: l’arte di un educatore alla fede. Cerchiamo di analizzarla più nel dettaglio.
a) Gesù, uomo credibile e affidabile
Gesù ci ha mostrato una necessità fondamentale: chi inizia alla fede o a essa vuole generare, deve essere credibile, affidabile. Del resto – lo sappiamo per esperienza – anche i genitori che vogliono educare un figlio possono farlo solo se sono credibili, affidabili. La credibilità di Gesù nasceva principalmente dal suo avere convinzioni e dalla sua coerenza tra ciò che pensava e diceva e ciò che viveva e operava. Non erano solo le sue parole che, raggiungendo l’altro, riuscivano a vincere le sue resistenze a credere; non era un metodo o una strategia pastorale a suscitare la fede: era la sua umanità contrassegnata – secondo il quarto vangelo – da una pienezza di grazia e di verità (cf. Gv 1,14). Grazia e verità che dicevano l’autenticità e la coerenza di Gesù, non lasciando alcuno spazio tra le sue convinzioni e ciò che egli diceva e viveva.
6 Clemente d’Alessandria, Il pedagogo I,98,1.3.
7 Cf. anche B. Chevalley, La pedágogie de Jésus, Desclée De Brouwer, Paris 1992.
8 Cf. Ch. Théobald, Trasmettere un Vangelo di libertà, EDB, Bologna 2010 (orig. in francese: 2007). Più in generale, lo stesso autore ha trattato il tema della «santità ospitale» di Gesù in molti suoi scritti. Tra di essi segnalo soprattutto Il cristianesimo come stile, vol. I, EDB, Bologna 2009, pp. 49-58 (orig. in francese: 2007); La réception du Concile Vatican II, Vol. I, Cerf, Paris 2009, pp. 823-827. Incontrando Gesù, tutti percepivano che non c’era frattura tra le sue parole e i suoi gesti, i suoi sentimenti, il suo comportamento. Ed è proprio da questa sua integrità che nasceva la sua exousía, la sua autorevolezza, che spingeva gli uomini a esclamare con stupore: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorevolezza!» (Mc 1,27); e a constatare che egli non insegnava come gli scribi (cf. Mc 1,22), come chi lo fa per mestiere, come chi ha solo una competenza tecnica. Se avveniva una persuasione di uomini e donne in ascolto di Gesù, questa era soprattutto causata dalla testimonianza, non da una somma di parole. Nella pedagogia, nell’educazione alla fede, l’iniziatore deve dunque essere affidabile. Certo, per noi non è possibile raggiungere la coerenza vissuta da Gesù, quest’uomo in cui traspariva Dio; ma anche per noi l’essere affidabili dipende dalla nostra coerenza, e la nostra affidabilità è decisiva nell’educare alla fede e nel trasmetterla.
b) Gesù, uomo che si è «spogliato» per entrare in dialogo
È innegabile nella pratica della relazione e dell’incontro da parte di Gesù la dimensione dialogica, che è sempre accompagnata dalla dimensione kenotica, di svuotamento, di condiscendenza. Gesù non consegna mai a chi incontra una verità astratta, ma instaura innanzitutto con lui/lei una relazione umana, nella quale il momento concreto dell’incontro è un kairós, nel pieno senso della parola biblica (cf., per es., 2Cor 6,2). Il suo è un comunicare «in situazione» e apre un dialogo, ma è sempre preceduto da un cammino di abbassamento, di condiscendenza, per andare a trovare l’altro là dove questi si trova. Gesù si fa viandante assetato al pozzo di Sicar dove incontra la donna samaritana (cf. Gv 4,5-30); si fa pellegrino sulla strada di Emmaus dove incontra i due pellegrini (cf. Lc 24,13-35); si fa frequentatore della tavola dei pubblicani e dei peccatori, per incontrarli e poter annunciare loro la buona notizia (cf. Mc 2,16 e par.; Lc 7,34)9… Gesù percorre dunque un cammino di abbassamento, si mette in dialogo – il che, in radice, significa ascolto dell’altro – e si confronta con l’interlocutore. Primo effetto dell’incontro con lui è l’interrogarsi su cosa si cerca, su cosa si vuole, su cosa brucia nel cuore. Basta ricordare alcune domande che Gesù rivolge a quanti incontra: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38); «Donna, chi cerchi?» (Gv 20,15); «Che discorsi state facendo?» (Lc 24,17). A partire da domande come queste nel dialogo avviene un vero incontro, un’esperienza condivisa, un parlare e un rispondersi reciprocamente. Anche questo è un tratto dell’educazione alla fede praticata da Gesù: accettare di «scendere», di «svuotarsi» per stare accanto all’altro; accettare di rinunciare a certi diritti e privilegi che rischiano di essere un ostacolo, per proporre la fede in modo credibile. Sì, perché la buona notizia del Vangelo non può risuonare né esistere senza un’incarnazione concreta, senza che si inscriva nella vita di uomini e donne.
c) Gesù, uomo capace di accogliere e di incontrare tutti
Un’altra caratteristica di Gesù, che emerge dai suoi incontri, è la sua capacità di accoglienza verso tutti. Gesù sapeva incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto della buona notizia, del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea (cf. Mc 15,42-43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cf. Mt 8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli uomini giusti come Natanaele (cf. Gv 1,45-51), o i peccatori pubblici e le prostitute presso 9 Cf. J. Rigal, Horizons nouveaux pour l’église, Cerf, Paris 1999, pp. 179ss. i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cf. Mc 2,15-17 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1)10. Com’era possibile questo? Perché Gesù sapeva non nutrire prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Sulle strade, lungo le spiagge, nelle case, nelle sinagoghe, Gesù creava uno spazio accogliente tra se stesso e l’altro che veniva a lui o che lui andava a cercare; si metteva sempre innanzitutto in ascolto dell’altro, sforzandosi di percepire cosa gli stava a cuore, qual era il suo bisogno. Mi si permetta di dire: Gesù non incontrava il povero in quanto povero, il peccatore in quanto peccatore, l’emarginato in quanto emarginato. Ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l’altro veniva rinchiuso in una categoria, avrebbe significato ridurre l’altro a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l’altro in quanto uomo come lui, membro dell’umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell’incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, questo sì, come una persona segnata da povertà, da malattia, da peccato …
Quando Gesù incontrava l’altro, cercava di creare un clima relazionale, consentiva all’altro di emergere come persona e soggetto, non lo giudicava mai, ma sapeva accogliere il linguaggio di cui l’altro era capace: il linguaggio corporeo della prostituta (cf. Lc 7,37-38.4447), il linguaggio espresso dalla donna emorroissa con il fugace tocco del suo mantello (cf. Mc 5,25-44; Lc 8,43-48), il linguaggio sconnesso di tanti malati di mente. Più in generale, quando incontrava l’altro colpito da ogni sorta di malattia, Gesù si prendeva cura di tutto l’uomo – nella sua unità di corpo, psiche e anima –, fino ad «assumere le nostre debolezze Cf. E. Bianchi, «I pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio», Qiqajon, Bose 2004 (Testi di meditazione 120). 11 Cf. A. Durand, Dieu choisit le dernier, Cerf, Paris 2009, pp. 36-40. ad addossarsi le nostre malattie» (cf. Mt 8,17; citazione di Is 53,4). Sì, Gesù era veramente un uomo di compassione, capace di sentire-con fino a patire-con, dunque un uomo per il quale ogni relazione era aperta alla comunione.
d) Gesù, uomo che cerca e fa emergere la fede dell’altro
Gesù era capace di compiere un ulteriore passo per iniziare, per educare alla fede. Nel rispondere a chi incontrava, Gesù cercava la fede presente nell’altro, come se volesse risvegliare e far emergere la sua fede. Egli sapeva infatti che la fede è un atto personale, che ciascuno deve compiere in libertà: nessuno può credere al posto di un altro! Gesù sapeva che a volte negli uomini c’è l’assenza di fede, atteggiamento che lo stupiva e lo rendeva impotente a operare in loro favore (cf. Mc 6,6); era anche consapevole che ci può essere una fede non affidabile nel suo Nome, suscitata dal suo compiere segni, miracoli, come annota il quarto vangelo: «Molti, vedendo i segni che faceva, mettevano fede nel suo Nome; ma Gesù non metteva fede in loro» (Gv 2,23-24), perché l’uomo diventa rapidamente religioso, ma è lento a credere… Gesù cercava invece in chi incontrava la fede autentica, e quando essa era presente poteva dire: «La tua fede ti ha salvato». Si noti che Gesù non ha mai detto: «Io ti ho salvato», bensì: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34 e par.; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42); «Va’, e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13); «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri» (Mt 15,28). Ecco come Gesù rendeva possibile la fede, ecco come faceva emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge. Ha scritto Benedetto XVI nel prologo della sua Enciclica Deus caritas est Cf. Ch. Théobald, Il cristianesimo come stile, vol. I, pp. 59-60. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro … con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Purtroppo noi dimentichiamo questa verità e rischiamo così di rendere sterile la nostra missione e il nostro sforzo per comunicare il Vangelo. Proprio perché il Vangelo è buona notizia, esso vuole raggiungere l’uomo nel suo cuore e suscitare in lui in primo luogo la fede nella bontà della vita umana, in modo che egli possa intraprendere l’avventura dell’esistenza credendo all’amore. È in questo senso che Gesù insegnava che nulla resiste alla fede, anche quando essa è nella misura di un granello di senape (cf. Mt 17,20; Lc 17,6), «il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra» (Mc 4,31); che occorre non dubitare (cf. Mc 11,23; Mt 21,21), perché «tutto è possibile a colui che crede» (Mc 9,23); e si diceva addirittura impegnato a pregare affinché la fede di uno dei suoi discepoli, Simone, non venisse meno (cf. Lc 22,32).
e) Gesù, uomo che annuncia il Regno e si decentra rispetto a Dio
Infine, va messo in rilievo come l’educazione alla fede da parte di Gesù tenda all’annuncio del Regno di Dio, alla buona notizia che Dio regna. Gesù non faceva riferimento a se stesso, ma nell’opera di evangelizzazione appariva sempre decentrato rispetto a Dio, al Padre che, con fiducia assoluta, chiamava: «Abba, Papà» (Mc 14,36). Gesù è l’evento in cui Dio ha potuto parlare in un uomo senza alcun ostacolo! Di più, con l’intera sua vita, fatta di azioni e di parole, Gesù cercava di raccontare Dio, di rendere il Dio dei padri un euanghélion, una buona notizia, distruggendo tutte le immagini perverse di Dio elaborate dagli uomini. Gesù parlava di Dio soprattutto nelle parabole, narrando vicende umane, mostrando come il Regno di Dio sia buona notizia per uomini e donne, buona notizia nelle loro storie quotidiane, reali. Attraverso la sua vita umanissima, da vero uomo, l’autentico adam voluto da Dio (cf. Col 1,15-16), Gesù ha raccontato e annunciato Dio; ha mostrato come Dio regnava su di lui e, regnando, combatteva e vinceva la malattia, il male, la sofferenza, la morte. È per averlo visto vivere in questo modo che Giovanni ha potuto scrivere alla fine del prologo del quarto vangelo: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma proprio lui, Gesù, ce ne ha fatto il racconto» (cf. Gv 1,18). Gesù ha, per così dire, «evangelizzato» Dio, e ha mostrato l’uomo autentico, chiamato a essere a sua immagine e somiglianza. Con la sua umanità piena e non segnata dal peccato – che è sempre philautía, amore egoistico di sé –, Gesù è dunque riuscito a raggiungere l’intimo dell’uomo e a generarlo alla fede in un Dio che ama per primo (cf. 1Gv 4,10.19), un Dio il cui amore ci precede sempre, un Dio il cui amore noi non dobbiamo meritare, perché è il suo stesso essere: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). Ciò che Gesù chiedeva, o meglio destava in chi incontrava, era nient’altro che la possibilità di credere all’amore. Ecco il fulcro della fede cristiana: credere all’amore attraverso il volto e la voce di questo amore, cioè attraverso Gesù Cristo.
Conclusione
L’umanità della fede su cui abbiamo meditato, quella fede testimoniataci in modo pieno e insegnataci in modo unico da Gesù, ci porta a confessare l’attuale crisi della fede: crisi dell’atto umano del credere, in primo luogo, diventato così difficile, raro e sovente, comunque, contraddetto. Abbiamo difficoltà a credere nell’altro, siamo poco disposti a mettere fiducia negli altri, siamo incapaci di «credere insieme agli altri» in un obiettivo, in un progetto che pur sentiamo buono in noi stessi. Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile una storia perseverante e fedele nell’amore? Perché la parola data nel matrimonio o nella vita comunitaria, nelle relazioni amorose è così facilmente smentita? Oggi non riusciamo più a credere e forse, soprattutto, a credere nell’amore?Ma proprio il fare memoria di Gesù di Nazaret ci può condurre a rinnovare lo sforzo verso un cammino pedagogico alla fede, affinché siamo rieducati a credere. Si tratta di imparare e di compiere lo stesso cammino percorso da Gesù:
-incontrare gli uomini in modo umanissimo;
-essere persone affidabili, la cui umanità è credibile;
-essere presente agli altri, facendo loro il dono della propria presenza;
Può darsi che questo cammino oggi sia più difficile che in altri tempi, ma sono convinto che l’uomo di ogni tempo, latitudine e cultura resti sempre l’uomo. Quest’uomo ha bisogno di credere, in vista del suo cammino di umanizzazione; ha bisogno talvolta di diventare cosciente della crisi di fiducia in cui è immerso, per potersi da essa risollevare. Può darsi che mi sbagli, ma ritengo sia venuta l’ora di essere consapevoli che siamo chiamati a riprendere con risolutezza il cammino del credere. Vorrei dire semplicemente una cosa a tutti gli uomini e le donne, e in particolare ai cristiani: dopo che si è incontrata un’altra persona, non ci si chieda che cosa le abbiamo insegnato, che cosa le abbiamo trasmesso a proposito della fede in Dio. Ci si chieda piuttosto: le persone, dopo avermi incontrato, hanno più fiducia, hanno più fede nella vita e negli altri? Questa è la domanda decisiva da porsi per intraprendere qualunque discorso serio, anche quello sulla crisi o sulla precarietà della fede in Dio. Senza questa fede come atto umano è inutile affaticarsi in discussioni sulla fede in Dio. Senza questa fede come atto umano, infatti, non solo rischieremmo di perdere Dio, costruendoci al suo posto un dio che è un idolo, non il Dio di Gesù Cristo; ma, quel che è più grave, rischieremmo di perdere l’uomo.

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