
Ci avviciniamo al triduo pasquale in compagnia del beato Tito Brandsma, un testimone esemplare della libertà cristiana, morto nel lager di Dachau, a causa della sua intrepida opposizione alla barbarie nazionalsocialista.
Chi ripercorre la vita di Brandsma coglie con chiarezza il darsi di una stretta interrelazione tra vita mistica e impegno nel mondo a favore della dignità dell’uomo: contemplazione incarnata nel flusso della storia che diviene contestazione profetica delle macchinazioni del potere.
Una meditazione carica di pathos, intrisa di quella commozione che nasce solo in un cuore realmente innamorato di Cristo, solo in chi è pronto a dare la vita per Lui. Solo guardando il crocifisso potremo capire l’amore di Dio, cui troppo spesso l’uomo risponde con l’indifferenza, con il volgere lo sguardo dall’altra parte, per non lasciarsi turbare nella sua placida quiete. Non c’è sequela di Cristo senza via del Golgota, senza crocifissione.
“Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34).
Chi vuole avere parte alla vita di Cristo, “deve passare con Lui attraverso la morte di Croce: come Lui crocifiggere la propria natura con una vita di mortificazione, di auto rinnegamento ed abbandonarsi alla crocifissione nella sofferenza e nella morte, come Dio disporrà o consentirà. Quanto più perfetta sarà questa crocifissione, attiva e passiva, tanto più profonda sarà l’unione con il Crocifisso e tanto più ricca la partecipazione alla vita divina” (Edith Stein, Scientia Crucis).
E ancora per citare sempre Edith Stein: “C’è una chiamata a soffrire con Cristo e a cooperare con lui, in questo modo, all’opera della redenzione. Se siamo uniti al Signore, siamo membra del corpo mistico di Cristo; Cristo continua a vivere nelle sue membra e a soffrire in esse; la sofferenza sopportata in unione col Signore è sofferenza sua, innestata nella grande opera della redenzione, e perciò feconda” (Lettera ad Annelise Lichtenberger del dicembre 1932).
Parole queste che dovrebbero scuotere le nostre coscienze assopite. Chi aiuta oggi Cristo a portare la croce? Forse gli uomini gaudenti, in spasmodica ricerca di un piacere chiuso dentro gli angusti limiti sensoriali, talora tanto smodato da condurre alla dissoluzione della personalità? Forse una chiesa ancora legata alle suggestioni temporalistiche, alleata del trono, incapace di liberarsi di tutte quelle sovrastrutture che rischiano di soffocare la Buona novella del Regno, pronta a predicare la rassegnazione di fronte alle ingiustizie? O non forse chi si fa carico delle sofferenze delle vittime di un sistema che non conosce misericordia, brutale, che misura tutto con la legge del nudo profitto?
Ecco un compito che ci si prospetta come ineludibile: calarsi nella condizione degli ultimi non per portare un messaggio pseudo consolatorio, ma per udire dentro la sofferenza la voce di Dio che ci chiama all’impegno, ad un’azione di trasformazione della società.
Nella Passione e Morte di Cristo siamo posti innanzi al criterio ultimo con cui valutare il nostro agire: vi splende il dono totale di sé all’altro o esso è modellato sul tornaconto personale, magari imbellettato con qualche “buona azione”?
Nel cammino penitenziale della Quaresima siamo invitati alla preghiera, all’elemosina e al digiuno. E’ dunque nel rapporto con Dio e nel distacco da sé che cresce la carità, lo slancio generoso, senza riserve, verso gli altri, i crocifissi del mondo globalizzato.
Amedeo Guerriere
(Il Castello dell’anima, 31.03.06)
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