DON ANTONIO

lunedì 21 novembre 2011

RICONCILIAZIONE E CONVERSIONE di CARLO MARIA MARTINI

Verso la conversione del cuore: il Salmo "Miserere"
Il riconoscimento del proprio peccato segna l'inizio della conversione interiore. L'interiorità, luogo decisivo per l'uomo nel cammino verso la verità, è la capacità di rientrare in se stessi, di comprendere il senso delle azioni compiute e che si compiono, perché soltanto nell'intimo si possono valutare e giudicare.
E l'esperienza attesta che c'è un nesso inscindibile tra la conversione del cuore e la riconciliazione sociale e politica. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni senza conversione del cuore; come pure non c'è conversione del cuore senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.
Il tema è particolarmente importante e per comprenderlo è molto utile riflettere sul Salmo 50 (o 51 secondo l'enumerazione ebraica, che inizia con l'invocazione: "Miserere", abbi pietà. Il Salmo è di una ricchezza inesauribile e attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, contemplato da Gregario Magna; è divenuto segnale di ardente difesa dell'immagine di Dio nelle infuocate, celebri prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d'Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi.
Il "Miserere" è il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti. come Bach, Mozart, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l'hanno ripensato in musica. illustri pittori l'hanno descritto con meravigliose incisioni.
È soprattutto il Salmo che ha accompagnato le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita; e appartiene alla storia dell'umanità, non solo alla storia dell'Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell'uomo e nel cuore della storia dell'umanità.
«Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell'intimo mi insegni la sapienza.
Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia;
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato
tu, o Dio, non disprezzi.
Nel tuo amore fa' grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l'olocausto e l'intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare».
La prima parte del Salmo è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all'indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, nell'intimo mi insegni la sapienza.
La seconda parte («Purificami con issòpo...») esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all'imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.
La terza parte («Insegnerò agli erranti...») è il progetto per f avvenire e i verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà, gradirai.
Il punto di partenza
I primi versetti ci introducono con queste parole:
«Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato».
Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è dunque l'iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.
I vocaboli che la traduzione italiana usa per indicare ciò che l'uomo ha fatto - peccato, colpe - non rendono adeguatamente il senso originale. Il testo ebraico, infatti, ha tre parole diverse che andrebbero lette così: «...cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, tirami fuori da ogni mio smarrimento». Tutte parole già impiegate per spiegare in che consistevano gli sbagli raccontati nel libro della Genesi. Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell'uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.
Ai vocaboli che indicano lo sbandamento dell'uomo fanno riscontro tre appellativi divini: «Pietà... misericordia... amore». C'è il peccato dell'uomo - pur se declinato con termini diversi - e ci sono tre attributi di Dio. Questo mette in luce che l'insistenza non è sull'uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi tutti siamo, ma è sull'infinità di Dio.
«Pietà di me, o Dio»; in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, o Dio». Si chiede a Dio che sia per noi grazia, che premia interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà. E l'esperienza di Maria di Nazaret che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai riempito della tua grazia»(cfr. Luca I) 48).
Dio è l'essenza della gratuità e quando diciamo che Egli non può avere alcun interesse a pensare a noi, a occuparsi di noi, riveliamo di avere un'idea falsa di Dio. Dio gode l1el poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso; vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.
«Secondo la tua misericordia». È interessante osservare che l'espressione è appunto: secondo la tua misericordia, non "nella tua misericordia" o "perché sei misericordioso". Il salmista indica la proporzione infinita della misericordia divina, che l'uomo intuisce senza comprenderla. In ebraico il termine è hésed, e ha una lunga storia ricca di significato: è l'atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell' attenzione e nell'amore. Si potrebbe tradurre con "gentilezza", nel senso di tenerezza che non si smentisce, che non svanisce mai. Noi traduciamo hésed con misericordia perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, e forse pensiamo che Dio ha ragione a non ricordarsi di noi.
«Nel tuo grande amore». In çbraico si dice rahammìm, cioè "il cuore, le viscere". E un vocabolo profondamente materno che designa la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria. Questo attributo di Dio può essere un poco capito da chi ha amato un'altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: «secondo la tua grande passione per l'uomo, abbi misericordia, o Dio».
I tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50 che è un inno a incontrare Dio così com' è; ci invita anzitutto ad avere una giusta idea del volto di Dio.
Il riconoscimento di una situazione
«Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato;
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto.
...Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell'intimo mi insegni la sapienza».
Dopo aver considerato i tre attributi di Dio, ci fermiamo sui tre soggetti che vengono presentati in azione.
Il soggetto che appare più di frequente è la stessa persona: l'io. lo riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.
Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in cui l'uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha concepito mia madre.
Il terzo soggetto dell' azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il Tu.
C'è quindi l'io che riconosce, c'è una determinazione generale della situazione di colpa, c'è il Tu che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu nell'intimo mi insegni la sapienza.
Nel testo ebraico l'espressione «Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu ami la verità nell'oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l'uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.
«Tu mi insegni sapienza nel segreto». La sapienza è una delle realtà più alte e più profonde dell' Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.
Ecco la chiave della prima parte del Salmo; Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell'oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato a essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia.
La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell'anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all'autenticità di quello che veramente sono.
Se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano poco sopra: «Contro di te, contro te solo ho peccato». Ho fatto ciò che non va davanti a te.
A prima vista ci appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l'emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore.
Eppure l'insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conoscèva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che glielo rinfaccia.
Tuttavia, quando gli vengono apertamente dichiarati gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza.
Peccando contro l'amico con il tradimento, con l'infedeltà e con l'adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua.
Ricordiamo che il re Davide era un uomo profondamente buono, incapace di voler male ai nemici; era profondamente leale, anzi la sua integrità e la sua lealtà sono rimaste proverbiali nella storia di Israele. Al momento del suo incontro con Betsabea, moglie di Urla, era un uomo maturo, non privo di esperienze affettive e, a questo punto della sua vita, aveva già avuto quello che voleva, conosceva i suoi limiti, la debolezza umana. Tuttavia, attraverso una serie di piccole circostanze insignificanti, l'eroe Davide diventa sleale, infedele, traditore. E nel secondo Libro di Samuele, alla fine del capitolo Il, uno dei capolavori della letteratura, leggiamo la seguente affermazione:
«Ma l'azione che Davide aveva commesso dispiacque al Signore» (v. 27). Allora Dio incarica il profeta Natan di andare da Davide e di raccontargli la storia di due uomini, uno ricco e l'altro povero. Questa parabola a poco a poco ricostruisce la verità in Davide che confessa: «Ho peccato contro il Signore».
«Contro di te, contro te solo ho peccato». L'espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figlio prodigo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Luca 15, 11-32).
L'uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l'immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.
Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro a ogni uomo, a ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell'uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità.
Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato». La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell'uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente di colpa.
Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori.
Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l'esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l'analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.
In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l'uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell'uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.
Come è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti» giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito» dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l'uomo totalmente diverso: «Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!»; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un esistenza nuova.
Il dolore dei peccati
Il dolore dei peccati è espresso nel v. 6b: «Sei giusto quando parli, / retto nel tuo giudizio».
La parola «dolore» può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione.
Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolore nel corpo, malgrado non lo voglia.
Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierci il sonno.
Che cos'è dunque il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto viva e presente, del dolore fisico o morale?
Parto da qualche riflessione generale.
Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire.
Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.
Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l'ho fatto e non l'approvo.
Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.
Saper fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C'è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se siamo portati ad accusare gli altri e a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano.
E d'altra parte è vero che il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra.
Più di frequente il pentimento è bloccato pèrché non siamo per nulla convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero. In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.
Che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi, che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?
È chiaro che il cammino da compiere è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi a una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.
Torniamo al versetto 6b del Salmo:
«Sei giusto quando parli, / retto nel tuo giudizio».
Noi lo interpretiamo spontaneamente mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Urìa, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio:
Tu sei retto quando giudichi.
Questa interpretazione non è cogente. Essa pone DIO come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello.
La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda.
Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono.
Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.
È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell'uomo: l'uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano des1ra della sua fiducia.
Se noi chiediamo in che maniera l'offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell'Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce parte lesa e inizia la sua azione contro l'oppressore con queste parole: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infa1ti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Esodo 3, 7-8).
Ci risponderà ancora il vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: «In verità vi dico... non l'avete fatto a me» (cfr. Matteo 25,31-46).
C'è un brano del vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l'esperienza del dolore del peccato che abbiamo colto nelle parole di Davide.
È l'episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: «In quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito, pianse amaramente» (Luca 22,54-62).
Perché Pietro scoppia in pianto?
Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po' annebbiata, di avere fatto un cosa sbagliata, di essersi disonorato, di avere tradito un amico.
Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest'uomo e lui va a morire per me!
È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l'ha demeritata, che fa scattare il contrasto.
Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall'incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l'uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia.
La rivelazione della colpevolezza del cristiano viene dall'incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l'infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso.
Penso che la riflessione su alcuni versetti del "Miserere" sia sufficiente anche per comprendere la seconda parte del Salmo, quella della supplica, del grido che sale dal cuore, e la terza parte che descrive i propositi, il progetto per l'avvenire.
La gioia del sacramento della Riconciliazione
Per riconoscersi peccatori davanti a Dio e per ottenere il suo perdono è previsto, nella Chiesa, il sacramento della Confessione o Riconciliazione. La pratica di questo sacramento, che fa tanto problema all'uomo contemporaneo e agli stessi cristiani, ci immette in un rapporto personale con Dio Padre che colma di gioia e apre in noi la forza del perdono.
Se non lo viviamo così diventa un peso, una formalità, da adempiere per eliminare certe macchie di cui abbiamo un po' disagio, disgusto, vergogna; diventa semplicemente la ricerca di una migliore coscienza. Anche allora il sacramento fa del bene, ma a poco a poco ce ne allontaniamo avvertendo che è triste, faticoso, pesante.
In realtà è un incontro gioioso con Dio, è un ripetere come ha esclamato Giovanni sulla barca in mezzo al lago: «È il Signore!» (Giovanni 21) 7).
«È il Signore!», e tutto è cambiato. «È il Signore!» e tutto di nuovo risplende. «È il Signore!» e tutto di nuovo ha senso nella vita: è una ricostituzione del significato di ogni pezzo della mia esistenza.
Quindi va vissuto con serenità e gioia; la stessa penitenza, la purificazione, l'espiazione diventano apertura a un rapporto.
Come vivere questo sacramento quale momento di un cammino in cui cerchiamo di capire chi siamo, cosa siamo chiamati a essere, in che cosa abbiamo sbagliato, che cosa avremmo voluto non essere, che cosa chiediamo a Dio?
Suggerirei di viverlo come un colloquio penitenziale.
Il colloquio penitenziale è la confessione ordinaria, con la differenza, però, che le stesse cose cerchiamo di distenderle un poco di più.
Il colloquio si può descrivere secondo tre momenti fondamentali. Infatti, la parola latina "confessio" non significa solo andarsi a confessare, ma significa pure lodare, riconoscere, proclamare.
Confessione di lode
Il primo momento lo chiamo "confessio laudis", cioè confessione di lode.
Invece di cominciare la confessione dicendo "ho peccato così e così", si può dire: "Signore, ti ringrazio", ed esprimere davanti a Dio i fatti, ciò per cui gli sono grato.
Abbiamo troppo poco stima di noi stessi. Se provate a pensare vedrete quante cose impensate saltano fuori, perché la nostra vita è piena di doni. E questo allarga l'anima al vero rapporto personale.
Non sono più io che vado, quasi di nascosto, a esprimere qualche peccato per farlo cancellare, ma sono io che mi metto davanti a Dio, Padre della mia vita, e dico per esempio: "Ti ringrazio perché in questo mese tu mi hai riconciliato con una persona con cui mi trovavo male. Ti ringrazio perché mi hai fatto capire cosa devo fare, ti ringrazio perché mi hai dato la salute, ti ringrazio perché mi hai permesso di capire meglio in questi giorni la preghiera come valore importante per me .
Dobbiamo esprimere una o due cose per le quali sentiamo davvero di ringraziare il Signore.
Quindi il primo momento è una confessione di lode.
Confessione di vita
Segue quella che chiamo "confessio vitae".
In questo senso: non elenco semplicemente dei peccati, bensì pongo la domanda fondamentale: "Dall'ultima confessione, che cosa nella mia vita in genere vorrei che non ci fosse stato, che cosa vorrei non aver fatto, che cosa mi dà disagio, che cosa mi pesa?".
Allora entra molto di noi stessi. La vita, non solo nei suoi peccati formali, "ho fatto questo, mi comporto male...", ma più ancora l'andare alle radici di ciò che vorrei che non fosse.
"Signore, sento in me delle antipatie invincibili... che poi sono causa di malumore, di maldicenze, di dispetti. Vorrei essere guarito da te. Signore, sento in me ogni tanto delle tentazioni che mi trascinano; vorrei essere guarito dalle forze di queste tentazioni. Signore, sento in me disgusto per le cose che faccio, sento in me pigrizia, malumore, disamore alla preghiera; sento in me dubbi che mi preoccupano...".
Se noi riusciamo nella confessione di vita a esprimere alcuni dei più profondi sentimenti, emozioni che ci pesano e non vorremmo che fossero, troviamo anche le radici delle nostre colpe, cioè ci conosciamo per ciò che realmente siamo: un fascio di desideri, un vulcano di emozioni e di sentimenti alcuni dei quali buoni, immensamente buoni... altri così cattivi da non poter non pesare negativamente:. Risentimenti, amarezze, tensioni, gusti morbosi che Don ci piacciono, li mettiamo davanti a Dio, dicendo: "Guarda, sono peccatore, Tu solo mi puoi salvare. Tu solo mi togli i peccati".
Confessione di fede
Il terzo: la confessione della fede, "confessio fidei".
Non serve a molto uno sforzo nostro. Bisogna che il proposito sia unito a un profondo atto di fede nella potenza risanatrice e purificatrice dello Spirito, nella misericordia infinita di Dio.
La confessione non è soltanto deporre L peccati, come si depone una somma su un tavolo. La! confessione è deporre il nostro cuore nel Cuore di Cristo, perché lo cambi con la sua potenza.
La "confessio fidei" è dire al Signore: "Signore, so che sono fragile, so che sono debole, so che posso continuamente cadere, ma Tu per la tua misericordia cura la mia fragilità, custodisci la mia debolezza, dammi di vedere quali sono i propositi che debbo fare per significare la mia buona volontà di piacerti".
Da tale confessione nasce la preghiera di pentimento: "Signore, so che ciò che ho fatto non è soltanto danno a me, ai miei fratelli, alle persone che sono state disgustate, strumentalizzate, ma è anche un'offesa fatta a Te, Padre, che mi hai amato, mi hai chiamato".
È un atto personale: "Padre, riconosco e non vorrei mai averlo fatto... Padre, ho capito che...".
Una confessione così concepita non ci annoia mai, perché è sempre diversa; ogni volta vediamo emergere altre radici negative dal nostro essere: desideri ambigui, intenzioni sbagliate, sentimenti falsi.
Alla luce della potenza pasquale di Cristo ascoltiamo la voce: "Ti sono rimessi i tuoi peccati... pace a voi... pace a questa casa... pace al tuo spirito...".
Nel sacramento della Riconciliazione avviene una vera e propria esperienza pasquale: la capacità di aprire gli occhi e dire: «È il Signore!».
La penitenza
Il sacramento della Riconciliazione prevede il momento cosiddetto della "penitenza" o "soddisfazione". Si tratta di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della conversione.
Devo però ammettere che quando, come confessore, penso alla "penitenza" sento emergere in me qualche disagio, perché mi domando: quale penitenza è veramente adeguata al cammino della persona che ho davanti? Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, di un suo momento di grazia? Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico
Di solito il confessore sfugge a tale difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo.
Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall' abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.
D'altra parte sono convinto che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza. E vero che gli è vicina in ogni tappa del sacramento: nell' esame di coscienza aiutando con le domande; nel momento del dolore suggerendo le parole; invitando al proposito con l'esempio dei santi; soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore.
Nel momento però di suggerire la «penitenza» la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi vicina al cammino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità.
Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti degni di penitenza», segno di un cuore che si vuole rinnovare.
Tenendo presente la difficoltà che la «penitenza» pone al sacerdote che amministra il sacramento, vorrei meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Luca 19, 1-10).
Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l'uomo e Gesù: è un racconto storico che sottolinea una realtà permanente. In questo incontro, l'uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne che sono alcune la premessa, e altre la conseguenza della parola di perdono di Gesù.
- L'azione interna di Zaccheo è il suo desiderio di vedere Gesù. Un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare «estatico», che fa uscire cioè Zaccheo fuori di sé. Non è spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, a imporgli di fare le cose che sta facendo! E un profondo desiderio che lo muove dal di dentro ed è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un'azione esterna.
- L'azione esterna è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato, si metta a correre per la strada e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario, E una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria.
Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua».
Una parola di familiarità che sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.
- L'azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
- L'azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria. «Signore, do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. E il frutto di «penitenza» della sua riconciliazione.
Mi colpisce molto la gioia con cui Zaccheo compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi diremmo sconsideratamente, generoso al di là di ogni calcolo. Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l'altra metà non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall' amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è il lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione.
Il primo frutto del!' incontro penitenziale è allora la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.
La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuol fare e Gesù l'approva. Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui.
Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di «penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). E la sua personale, storica, precisa penitenza. Gesù l'approva e gli dice: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa».
Tornando alla domanda che si pone il confessore sulla «penitenza» da dare, mi sembra che la risposta suggerita dal brano evangelico sia molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare il sacerdote, invertendo le posizioni. Invece di chiedere che cosa deve fare come penitenza, si interroga su quale sia l'opera, il gesto di giustizia, di misericordia che corrisponde al suo cammino.
Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, formale, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto, suggerire che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito santo di purificazione, invocandolo con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo... non privarmi del tuo santo Spirito, rendimi la gioia di essere salvato...».
Purificazione del cuore e religiosità vera
Tra i tanti possibili, scelgo due testi evangelici, uno di Marco e l'altro di Matteo, che sono esemplari per il cammino verso la purificazione del cuore e verso una vera religiosità.
- Il primo racconta l'episodio di un uomo ricco che si avvicina a Gesù:
«Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a Gesù, gli domandò: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?". Gesù gli rispose: "Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre". Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (Marco 10,17-22).
Questo uomo, che da sempre ha adempiuto tutti i comandamenti, avrebbe mai pensato di non avere il cuore puro? Ecco il mistero della pagina evangelica: anche chi osserva i comandamenti, tutti, può non avere il cuore puro.
Egli, pur compiendo la giustizia umana, non sa entrare nel disegno divino che è misericordia, solidarietà(«vendi ciò che hai e da' il denaro ai poveri»), che è speranza in una vita senza fine («così avrai un tesoro nel cielo»), che è conformazione a Gesù («vieni e seguimi»).
Il suo concetto del piano è razionale, è proprio di una religiosità umana buona, che non è ancora la purezza del cuore. Spesso noi ci inganniamo pensando di non avere nulla sulla coscienza mentre non siamo giunti a quella limpidità del cUQre che ci permette di cogliere il piano divino in Gesù Cristo e quindi di scegliere secondo le scelte di Cristo, di prendere delle decisioni, rispetto alla vita della Chiesa, dei singoli, che rispondono allo spirito evangelico di povertà, di misericordia, di solidarietà, di sequela.
Non tutti comprendono questo; infatti gli stessi apostoli si spaventano mostrando la loro fatica a passare dalla giustizia razionale all' accettazione del progetto di Dio su di loro.
«Beati i puri di cuore» perché non avendo legami nascosti, legami inconsci, sono pronti a capire il piano di Dio in Gesù Cristo.
L'uomo ricco credeva di essere disponibile («che cosa devo fare per avere la vita eterna?»), di essere libero, eppure non lo era.
Pensiamo a quante decisioni nella vita religiosa, nella vita sociale e civile, vengono prese senza avere il cuore libero e disponibile, anche se magari si rispettano alcuni diritti immediati e si suppone quindi di non fare nulla di male.
Il segnale indicatore della nostra mancanza di libertà nel cuore è la tristezza, l'amarezza, la pesantezza della vita: «Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto». Capita a tutti di vivere momenti tristi quando vediamo intorno a noi tutto oscuro, tutto negativo, tutto sbagliato, senza sapere il perché.
Prosegue il testo di Marco: «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!". I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: "Figlioli, com' è difficile entrare nel regno di Dio! E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio".
Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: "E chi mai si può salvare?". Ma Gesù, guardandoli, disse: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio"» (vv. 23-27).
Gesù dunque insegna che la libertà del cuore è difficile e, accennando alla fiducia che alcuni pongono nel denaro, intende anche parlare di fiducia nel proprio potere, nella propria capacità, nei propri progetti, nella propria responsabilità.
L'espressione «quanto è difficile per i ricchi entrare nel regno dei cieli!» può essere tradotta, per esempio, «quanto è difficile per i politici entrare nel regno dei cieli». Perché il politico è un uomo che ha molto potere, che dispone di molte situazioni, che fa molte scelte e, pur supponendo che voglia essere onesto, si trova legato a tante attese, a tante realtà che lo condizionano.
Le attese della gente, il successo, il bisogno di far carriera, lo vincolano impedendogli la libertà del cuore.
Allargando il discorso, «quanto è difficile per coloro che hanno responsabilità di altri entrare nel regno dei cieli». Quanto è difficile per i Vescovi, per i parroci, che devono rispondere a persone che chiedono, che aspettano, che desiderano, che vogliono; devono rispondere alle attese della stampa, dei fedeli, di coloro che hanno una certa ideologia e di coloro che ne hanno un' altra. La fatica dell' equilibrio è davvero grande; come dice Gesù, la libertà del cuore è cosa molto difficile.
E noi, come gli apostoli, rimaniamo stupefatti: «"E chi mai si può salvare?". Ma Gesù, guardandoli, disse: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio!"». Significa che la purezza e la libertà del cuore è dono di Dio solo, che non possiamo pretendere di arrivarvi, ed è già tanto se giungiamo a confessare: sono purtroppo condizionato da molte cose e faccio fatica a trovare la via giusta. È una prima intuizione della nostra impurità di cuore e di spirito, e il Signore vuole che la mettiamo a fuoco con serietà, ponendo la nostra fiducia in Dio cui nulla è impossibile.
«Nulla è impossibile a Dio», sono le parole che vengono dette dall'angelo a Maria (Luca 1,37). Questo ci fa pensare che, come Maria non poteva immaginare una concezione verginale senza l'aiuto dall' alto, così noi, analogamente, non possiamo immaginare di essere liberi in mezzo alle responsabilità di questo mondo, senza una forza straordinaria, senza una grazia dello Spirito santo.
- Il secondo brano evangelico sottolinea la differenza tra ipocrisia e religiosità vera:
«In quel tempo Gesù parlò dicendo: "Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? Ebbene, chi giura per r altare giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso"» (Matteo 23, 13-22).
Queste parole di Gesù sono tra le più difficili di tutto il vangelo e ci sorprendono tanto sono taglienti, minacciose, sconvolgenti.
Esse ci danno un'immagine della violenza verbale, della forza polemica, della capacità di smascherare l'avversario, con cui Gesù giunge a esprimersi, che è in contrasto con la dolcezza, la delicatezza, la misericordia, la pazienza che ordinariamente troviamo in altre sue parole del vangelo.
D'altra parte, dobbiamo cercare di capire questa pagina a partire dal contesto. L'evangelista Matteo la colloca immediatamente dopo le controversie di Gesù con i suoi avversari, a Gerusalemme: ormai l'opposizione è cresciuta e sta per arrivare alle estreme conseguenze, ormai si sta tramando il tradimento e la morte.
Le controversie erano state provocate da domande poste a Gesù sul tributo a Cesare, sulla risurrezione affermata dai sadducei, sulla legge. Si cercava, in fondo, un modo per circuirlo, per metterlo con le spalle al muro.
Gesù aveva ribattuto con forza e, a questo punto, passa all' attacco. Rivolge cioè una serie di invettive - sono i sette "guai" - contro uomini di Chiesa e di cultura, contro uomini della burocrazia ecclesiastica del suo tempo, e per noi acquistano una forza particolare.
Che cosa viene rimproverato a queste persone? L'ipocrisia, che è il fondamentale ritornello delle parole di Gesù. Al terzo "guai" diventa "guide cieche", ma subito dopo ritorna il termine "ipocriti".
Secondo l'etimologia della parola greca, ipocriti significa attori, gente che recita, che si mette sul viso la maschera.
I predicatori non autentici sono ipocriti perché magari sanno recitare bene riscuotendo l'attenzione di chi ascolta, ma c'è una sostanziale dissonanza tra la vita e le cose che dicono.
Gesù dice che gli ipocriti - i predicatori non autentici - non solo si fanno ridere dietro, ma fanno anche del male: «Chiudete il Regno dei cieli davanti agli uomini», siete talmente preoccupati della vostra recita formalmente esatta da non interessarvi se dalle vostre parole la gente riceve uno stimolo per il cammino verso il Regno, anzi lo impedite, lo chiudete. L'accusa è certamente terribile.
La seconda accusa attacca l'esteriorità: «Percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito». Gesù ci fa comprendere che è possibile un' espressione esterna accurata dei sentimenti religiosi e però collegata con una falsità di vita che si manifesta in un proselitismo affannato, che non ha nulla a che fare con la missionarietà, con la comunicazione della Parola, che non coinvolge nella gioia profonda che si è vissuta. Si cerca il prestigio attraverso l'accrescimento numerico del proprio gruppo. Si tratta quindi di forme di prestigio mondano che si sostituiscono alla predicazione che dona la Parola liberamente e, attraverso il dono, può suscitare il consenso. Forme imperiose, subdole della propaganda, del ricatto morale, spirituale.
La terza invettiva è pure terribile: «Guai a voi guide cieche». Le guide cieche non sanno il cammino, non conoscono il termine del cammino, non hanno la chiarezza della via di Dio. Non sapendo dove si va, si predica a vanvera, confusamente, pur se in maniera gradita, scambiando l'essenziale con l'accessorio, insistendo su precetti periferici e trascurando quelli fondamentali, pervertendo quindi il senso religioso e morale di coloro che ascoltano.
Nel testo viene dato un esempio di questa perversione attraverso le diverse sottigliezze giuridiche che permettono di svicolare dalle promesse fatte, abbandonando persone bisognose, e di sostituirle con opere che soltanto apparentemente sono di misericordia.
È una invettiva senza pietà e senza misericordia, che affonda il coltello nella carne dell'ipocrisia religiosa, morale, della falsa spiritualità.
Leggiamo tuttavia una parola positiva, che attiene al tema della sapienza del cuore, della vera religiosità, nell'affermazione di Gesù riferita ad alcune realtà cultuali e naturali: «Chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita; e chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso».
Tutte le realtà - naturali, storiche, soprannaturali, cultuali e culturali - rivelano il mistero di Dio, e tutte lo nascondono. Nelle parole di Gesù c'è una profonda visione sapienziale.
La vera religiosità sa cogliere, al di sopra di tutto, al di là di tutto, al fondo di tutto, il mistero ineffabile dell'amore di Dio, la dolcissima presenza di un Dio che ci ama e che in tutto ci comprende, ci viene incontro, ci accoglie, ci stimola, ci sorregge, ci consola.
È la sapienza del cuore, che emerge anche nei momenti della più dura polemica di Gesù, perché è una polemica che parte dalla verità, dall' amore, dalla luce di Dio, dalla profonda illuminazione interiore, e riconduce così anche queste pagine alle stesse altezze spirituali di tutte le altre del vangelo.
La forza del perdono
La forza del perdono può essere contemplata in due situazioni descritte, questa volta, nel vangelo secondo Luca: la guarigione del paralitico e la donna che entra nella casa di Simone.
- «Un giorno Gesù sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: "Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi". Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: "Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?". Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: "Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico - esclamò a gran voce rivolto al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: "Oggi abbiamo visto cose prodigiose"» (Luca 5, 17-26).
La situazione è piuttosto strana. Ci sono degli uomini che rischiano il ridicolo: scoperchiano il tetto della casa, calano giù il paralitico, senza sapere se Gesù lo vuole ricevere. Farà o non farà il miracolo? e se il malato tornasse a casa più affranto e più umiliato di prima?
Non è cosa da poco sperare in un miracolo: se non avverrà si copriranno di ridicolo, la gente li prenderà m giro.
Siamo dunque di fronte a un atto di coraggio, a un esempio di non calcolo, a un'iniziativa non pienamente ragionevole nella quale i portatori e il paralitico sono stati trascinati da una fiducia illimitata verso questo Gesù di cui conoscevano poco.
E la conseguenza è che grazie all' atteggiamento di coraggio e di fiducia, la situazione viene completamente rovesciata: i peccati dell'uomo sono perdonati, la sua malattia è guarita.
Gesù appare come colui che perdona e risana; il vangelo, possiamo dire, è forza di perdono e di risanamento per coloro che vi si affidano, che osano un passo coraggioso, che vi si buttano. TI coraggio che le trasformazioni operate da Gesù richiedono, mi colpisce molto perché appartiene proprio alla maturazione dell'uomo che scopre come soltanto in un momento di coraggio, di uscita da sé, riesce a raggiungere ciò che profondamente desidera.
Giorni fa, passeggiando tra le montagne, notavo delle meravigliose cascate dove l'acqua scendeva a picco per decine e centinaia di metri e in alcuni punti spumeggiava. L'immagine della cascata mi è rimasta impressa perché cercavo, contemplando quella scena, di immedesimarmi nell' acqua e dicevo: se avessi paura di buttarmi, che cosa farei? Resterei là, non seguirei questo istinto che l'acqua ha di buttarsi verso il basso, mi fermerei nella paura, non prenderei nessuna iniziativa, non sarei ciò che devo essere.
Sono ciò che devo essere nella misura in cui seguo la tendenza a fidarmi. Da questa tendenza insita nell'uomo ad andare al di là di sé, attraverso un atto di fiducia in altri uomini, nasce la società, nasce l'amicizia, nascono l'amore e la fraternità. Se nessuno mai rischia non nasce niente. È nel fidarsi della parola di Gesù che nasce la possibilità di salvezza.
- «Uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quélla città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato.
A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé: "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice". Gesù allora gli disse: "Simone, ho una cosa da dirti". Ed egli:"Maestro, di' pure". " Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?". Simone rispose: "Suppongo quello a cui ha condonato di più". Gli disse Gesù: "Hai giudicato bene". E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: "Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai .dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco". Poi disse a lei: "Ti sono perdonati i tuoi peccati". Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: "Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?". Ma egli disse alla donna: "La tua fede ti ha salvata; va' in pace!"» (Luca 7, 36-50).
La situazione presentata da Luca è ambigua.
C'è un uomo, Simone, che si crede importante, che ha in mano la situazione, e che non ha rischiato niente: ha ricevuto Gesù, ma col minimo della cortesia perché, così, pensa di riuscire a contentare tutti. Ricevendo Gesù si dimostra uomo aperto, capace di affrontare le nuove idee, un uomo che ha una certa intelligenza e una certa apertura di spirito; non rendendogli però tutti gli onori dovuti può sempre dire di averlo tenuto a bada, di averlo sorvegliato per vedere ciò che diceva.
Questo salvarsi con tutti senza impegnarsi, è esattamente l'immagine dell'agire politico che sempre ci minaccia: sì, facciamo una cosa, ma in maniera che nessuno possa criticarci e così navighiamo, con estremo equilibrio, tra due parti, senza comprometterci. E vero che può essere talora necessario, e la necessità della vita lo esige, ma certamente l'uomo che vive così non vive, cioè vive la situazione di Simone il quale prepara un banchetto a Gesù e lascia che l'atmosfera sia tesa, guardinga; Gesù si sente osservato per cui, probabilmente, non parla con molto entusiasmo e con serenità; gli altri si sanno osservati a loro volta e anch'essi azzardano discorsi soltanto generici, che non compromettono nessuno.
Ed ecco entra una donna che rompe tutte le convenzioni creando un enorme disagio: tutti si guardano, girano gli occhi, si fanno cenni, chiedono, si tirano indietro e ciascuno dà all' altro la colpa di averla invitata, ciascuno non vuole ammettere di conoscerla. La donna, intanto, avanza imperterrita e, in un gesto di confessione pubblica, compie verso Gesù quei segni di affetto, di riconoscenza, di venerazione che nessuno aveva saputo compiere.
Questa è la situazione. Nessuno di coloro che sono lì intorno rischia; la donna ha invece rischiato molto: che cosa farà Gesù, di chi prenderà le parti?
Ammiriamo ancora una volta la capacità di Gesù di rovesciare le posizioni: non rimprovera immediatamente, sa bene che in questi momenti cruciali bisogna agire con una certa prudenza e attenzione. Con un' opportuna parabola raccontata a Simone e con una domanda finale, fa riconoscere a Simone stesso che la situazione, nella realtà di Dio e nella realtà anche della sincerità umana, è esattamente l'opposto di quello che sembrava a tutti. L'imbarazzato, l'intruso, colui che non ha saputo agire è Simone; la persona che si è comportata in maniera degna della situazione, vera, reale, umana è la donna: è lei che ha capito, è lei che ha vissuto questa realtà.
Gesù ha condotto la donna al riconoscimento della colpa, alla via della purificazione non attraverso i rimproveri amari che mettono la persona in stato di difesa, ma suscitando in lei il coraggio, l'energia, la libertà di cuore. Tutto questo la rende una perfetta immagine dell'uomo e della donna che percorrono la via della purificazione e ottengono da Dio il perdono in un atto di amore e di trasformazione della loro esistenza.
La parola amore viene messa al centro: «le è molto perdonato perché ha molto amato».
I quattro volti della conversione
Conversione significa molto semplicemente "svolta", cambiamento di rotta, cambiamento di mentalità e di orizzonti. Dal punto di vista della fede, la conversione è un evento fondamentale per l'uomo. Cristiano è chi si converte dagli idoli a Cristo Gesù rivelatore del Padre e vive la sua esistenza in modo nuovo, quel modo nuovo di guardare la realtà tipico di colui che si riconosce peccatore, ma salvato, figlio di Dio, amato e perdonato.
Sarebbe assai interessante riflettere sul posto che la conversione (in ebraico teshuvà) ha nella religione ebraica. I Sapienti insegnavano che la teshuvà è la seconda delle «sette cose» che furono «create prima della creazione del mondo» (b Pesachim 54a).
Noi la consideriamo però nel Nuovo Testamento, dove si presenta con tre caratteristiche:
- la conversione cristiana è interiore;
- la conversione cristiana è sempre attuale, non si compie una volta sola nella vita, ma comporta un cammino lungo, paziente, mai finito;
- la conversione cristiana è discreta, non clamorosa, non spettacolare, perché la si vive nel silenzio e nella quotidianità.
Spesso la gente è invece spinta a cogliere gli aspetti più vistosi della conversione. Ancora oggi esistono gruppi che incitano al fanatismo della conversione; per esempio, le sette operano con la tensione a gesti esteriori clamorosi, e il popolo rimane impressionato da tale meccanismo operativo, che rischia di introdursi anche nella conversione cristiana esigendo gesti o producendo realtà di cammino elitario che solo pochi possono di fatto seguire.
Proprio perché la conversione implica un cammino, ciascuno di noi sperimenta - a partire dalla prima decisione di ritornare a Dio riconoscendo di essersi allontanato da lui e dalla sua Parola - diversi momenti o avvenimenti particolari della vita che costituiscono un ulteriore passo verso una più profonda conoscenza di Dio e del suo mistero, una nuova intuizione della nostra condizione di figli peccatori, salvati, amati e perdonati.
Se poi esaminiamo più da vicino l'evento della conversione, ci accorgiamo come esso comporti vari volti, aspetti che storicamente si presentano talora separati. In questo senso, è possibile parlare di conversione religiosa, di conversione morale, di conversione intellettuale, di conversione mistica.
Vorrei allora richiamare quattro figure di personaggi noti a tutti noi, quattro figure di santi - Agostino, Ignazio di Loyola, Newman, Teresa d'Avila - per cogliere in ciascuno uno di quegli aspetti. Tenendo ovviamente presente che questo aspetto o volto, in loro, non è l'unico. Ogni cristiano, infatti, dopo la prima conversione - quella battesimale o quella della riscoperta del battesimo - dovrebbe giungere gradualmente anche alle altre.
Conversione religiosa
Agostino ci mostra chiaramente il passaggio dalla non conoscenza del Dio della Bibbia alla conoscenza del Dio di Gesù Cristo.
Egli era molto confuso sull'idea di Dio e pensava addirittura a una duplice divinità, al principio del Bene e del Male. Dunque, prima ancora di una conversione morale e di una conversione mistica, Agostino ebbe una radicale conversione religiosa, grazie al contatto con Cicerone.
La racconta nelle Confessioni, quando parla della sua lettura dell' Ortensio:
«Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a Te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a Te».
Il ritorno, il cambiamento di direzione del cammino, è l'inizio della conversione religiosa.
«Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a T e, pur ignorando cosa volessi fare di me» (III, 4. 7-8).
Era ancora incerto sul futuro, viveva ancora un'esistenza disordinata, però aveva intuito che in ogni caso Dio è tutto, è al di sopra di tutto, che Dio ha il primato.
Se ci domandiamo dove questo è espresso nelle tappe della predicazione evangelica e dei vangeli scritti, rispondiamo che si trova indubbiamente nel libro di Marco: esso proclama la «Buona notizia di Gesù Cristo, figlio di Dio» (I) 1) e chiama l'uomo a una scelta irrevocabile del Padre di Gesù Cristo, di questo Dio di Gesù morto sulla croce.
Il vangelo di Marco rappresenta il livello della conversione religiosa cristiana.
Conversione morale
Ignazio di Loyola ci permette di vedere un secondo volto della conversione. Credeva in Dio, era stato educato alla fede cristiana, si dedicava a qualche pratica religiosa, ma gli piacevano le vanità del mondo e la sua vita era piuttosto disordinata.
Trovandosi infermo a seguito di una ferita alla gamba, si mise a leggere una Vita di Cristo e alcune biografie di santi, che lo posero a confronto con se stesso. Riflettendo seriamente sul suo passato, comprese che pur riconoscendo già il primato di Dio, per essere degno dell' amore di Gesù, morto per salvarci, doveva cambiare modo di comportarsi. Da quel momento incomincia un cammino che lo porterà a essere un vero uomo di Chiesa, profondamente obbediente alla realtà e all'istituzione ecclesiastica.
La sua è una conversione morale anche negli aspetti sociali, perché sfocia nel servizio alla comunità ecclesiale.
A tale aspetto della conversione richiama il vangelo di Matteo rivolto in particolare a quei fedeli che, avendo già accettato Cristo come la pienezza della legge e il predetto dai profeti, devono convertirsi alla Chiesa quale corpo di Cristo, devono accoglierla nella sua disciplina, nelle sue regole, nella sua struttura dogmatica.
Conversione intellettuale
La conversione intellettuale è sottile e difficile da definire. La leggiamo nella figura di Henry Newman.
Egli credeva profondamente in Dio e in Gesù, era moralmente molto retto, di grande austerità e santità di vita. Intellettualmente, però, era molto confuso. Non sapeva quale Chiesa rappresenta veramente la Chiesa istituita da Gesù. Ed è interessante vedere, nella sua autobiografia, la fatica mentale che ha dovuto compiere. Non dunque una fatica morale, e nemmeno religiosa, ma proprio la fatica di cogliere tra i diversi ragionamenti, le diverse argomentazioni, le molteplici teologie e filosofie, quella giusta.
A un certo punto del suo cammino, riflettendo attentamente sulle eresie del IV secolo, su come la Chiesa ave. va superato l'arianesimo e il donatismo, intuì il principio di unità e la centralità di Roma. In proposito, Newman parla di «illuminazione» che cambiò la sua vita.
Si tratta di una conversione intellettuale; tocca, infatti, l'intelligenza che, dopo aver vagato attraverso opinioni e punti di vista confusi, diversi, contraddittori, finalmente trova un principio per il quale riesce a decidersi e a operare, non sotto l'influenza dell' ambiente o del parere degli altri, bensì per una illuminazione chiara e profonda.
Mi preme sottolineare che la conversione intellettuale è parte del cammino cristiano, pur se sono poche le persone che vi arrivano perché è certamente più comodo, più facile accontentarsi di ciò che si dice, di ciò che si legge, di come la pensano i più, dell'influenza dell'ambiente anche buono.
Tuttavia il cristiano maturo ha assoluto bisogno di acquisire convinzioni personali, interiori per essere un evangelizzatore serio in un mondo pluralistico e segnato da bufere di opinioni contrastanti.
In altre parole, la conversione intellettuale è propria di chi ha imparato a ragionare con la sua testa, a cogliere la ragionevolezza della fede grazie a un cammino, forse faticoso, che lo rende capace di illuminare altri.
L'opera di Luca - vangelo e Atti - rappresenta quello stadio dell'itinerario cristiano in cui una persona, dopo la decisione religiosa di essere tutta del Dio di Gesù Cristo, dopo quella morale di vivere un'esistenza secondo la disciplina e gli insegnamenti della Chiesa, vuole a ogni costo cogliere il cammino cristiano nel mondo, nell'insieme delle filosofie e delle teologie tra loro diverse, con una chiarezza che deriva appunto dall'aver imparato a orientarsi in mezzo a un contesto difficile.
Luca insegna a orientarsi nel mondo pagano, a paragonare le tradizioni religiose pagane con quelle ebraiche, a mantenere la fedeltà al Dio di Israele, al Dio creatore e in Gesù redentore, pur vivendo al di fuori del popolo ebraico. La comunità primitiva si trovava di fronte a gravi problemi intellettuali e teologici; per esempio: bisogna imporre le forme religiose ebraiche, anche disciplinari, ai pagani oppure occorre opera re una nuova sintesi? Il grande merito di Luca consiste nell' aver affrontato in maniera diretta ed esplicita il problema della cultura religiosa, della conversione intellettuale, quindi anche dell' evangelizzazione delle culture.
E la sua opera deve esserci particolarmente cara oggi, dal momento che viviamo in un universo culturale scomposto e confuso. Anche al tempo di Luca erano venute meno le ideologie e si assisteva a una mescolanza di vecchie e di nuove filosofie, di riti che venivano dall'Oriente, di religioni misteriche; la gente era perplessa, inquieta, aveva bisogno di orientamento, di certezze, di imparare a cogliere l'unità del disegno divino.
Vorrei inoltre osservare che la stessa grande teologia di Paolo è uno sviluppo delle intuizioni di Luca. L'Apostolo costruisce una teologia che non si limita a rinnegare gli errori; essa tiene conto dei concetti buoni del rabbinismo sulla giustizia di Dio e delle riflessioni dello gnosticismo sull'unicità del cosmo. Per questo è molto importante leggere il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli nell' approfondimento teologico di Paolo, in particolare nelle Lettere ai Romani, ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Colossesi.
Luca è riuscito a operare una sintesi tra visione giudaica del mondo, a partire da Abramo e dalle profezie, e una visione cosmica che poteva anche essere compresa dai pagani, partendo dal Dio creatore e dal primo uomo, considerando quindi tutta la successione dell'umanità chiamata a un unico disegno.
Lasciamoci perciò scuotere dal messaggio lucano verso una conversione intellettuale, nel desiderio di utilizzare la nostra intelligenza per valutare i fenomeni e gli eventi che si verificano intorno a noi, per non esserne emarginati o intimoriti.
Conversione mistica
Il vangelo di Giovanni delinea il quarto volto della conversione cristiana, quella mistica che è bene esemplificata in Teresa d'Avila.
Teresa credeva in Dio, viveva una vita buona, ma lei stessa scrive che il monastero non l'aveva aiutata a compiere veramente un salto di qualità.
Dopo più di vent'anni di «mediocrità» ella entra, per grazia, in quello stato di semplificazione nel quale contempla il Signore presente in lei, in ogni membro del suo Corpo mistico, in ogni persona e in ogni situazione, e contempla tutta la realtà in lui.
La conversione mistica è infatti quella condizione che ci permette di cogliere immediatamente la presenza di Dio ovunque. E lo stadio contemplativo del quarto vangelo, il più consono per chi ha responsabilità di altri.
Il responsabile di Chiesa è l'uomo della sintesi, l'uomo capace di vedere sempre lo Spirito in azione nella storia. Deve saper cogliere l'unità nei frammenti, l'unità nelle disparate attività, e non può fado se non è giunto alla conversione mistica.
http://www.ministridimisericordia.org/Meditazione/tabid/558/Default.aspx

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