DON ANTONIO

lunedì 14 novembre 2011

IL PROBLEMA DEL MALE:LE CATASTROFI:I TERREMOTI. Dal Centro Studi “Edith Stein” di Lanciano.LA SOFFERENZA NEL DESIDERIO

I recenti eventi sismici che hanno devastato due intere nazioni, Haiti e Cile, causando migliaia di morti, ripropongono con forza la questione della teodicea, intesa, per riprendere la definizione di I. Kant, come “la difesa della sapienza suprema del creatore del mondo contro l’accusa che la ragione le muove a fronte di quanto di inadeguato esiste nel mondo”.
Formulato in altri termini si tratta della questione di come riuscire a conciliare la bontà e onnipotenza di Dio con il male e la sofferenza che segnano il destino dell’uomo.
La riflessione teologica e filosofica si è lungamente affaticata nel tentativo di trovare una risposta persuasiva a tale questione. Ancora oggi ci si richiama non di rado alla concezione di s. Agostino secondo cui Dio onnipotente, “poiché è bontà in massimo grado, non permetterebbe mai l’esistenza di qualsivoglia male nelle sue opere, se non fosse anche così potente e buono da operare il bene persino a partire da un male”.
Oggi tuttavia la tesi agostiniana così come le altre ipotesi avanzate nel corso dei secoli per cercare di armonizzare la fede in Dio con l’esperienza del male sembrano a non pochi teologi inadeguate.
Ha scritto al riguardo Karl Lehmann: “Oggi ci blocchiamo di fronte quest’idea di un’armonia superiore come motivo che spiega il male e la sofferenza nel mondo…Percepiamo tale spiegazione della sofferenza come razionalistica e desiderosa di creare armonia a tutti i costi. Esiste un abuso teologico verso la sofferenza dell’essere umano, che oggi ci tocca pagare in mille modi: il dolore viene dalla mano di Dio; la radice della malattia è il peccato, la salute piena esiste soltanto nel regno di Dio; la sofferenza è un’occasione unica di maturazione interiore, la sofferenza è la sublime educazione di Dio per l’uomo caparbio”.
Ed effettivamente argomentazioni del genere continuano a ricorrere di frequente quando ci si deve confrontare con qualche immane tragedia, lasciando però alla fine un senso di insoddisfazione.
Come si fa a parlare in termini tanto astratti della sofferenza umana? Non si rischia di essere cinici quando si disserta sugli imperscrutabili disegni di Dio o si parla di sofferenza purificatrice a chi ha perso tutto, come abbiamo potuto vedere in occasione dei terremoti che hanno colpito Haiti e il Cile, dove alla miseria causata dall’economia del profitto e dal cinismo politico si è aggiunta la devastazione provocata dalle forze della natura?
C’è chi ha parlato a proposito delle tesi tradizionali di “sadismo teologico” (Dorothee Soelle), mentre Gisbert Greshake afferma che “un’immagine di Dio secondo cui Dio stesso, senza motivi riconoscibili e comprensibili, è il responsabile della sofferenza e non la elimina, è a mio parere perversa”.
Siamo dunque condannati a restare nell’oscurità, senza poter comprendere nulla, accontentandoci di ripetere con Karl Rahner che “non esiste altra luce beata che illumini la tenebrosa insondabilità del dolore che Dio stesso. E lo si trova soltanto quando si acconsente con amore all’inconcepibilità di Dio stesso, senza la quale egli non sarebbe Dio stesso”?
Eppure un’altra via d’uscita deve pur esserci per quei credenti che non si accontentano di spiegazioni del genere, rassicuranti e forse offensive per chi è sotto il giogo dalla sofferenza.
Il dato da cui partire è che l’uomo è stato creato da Dio come essere chiamato a corrispondere al suo amore, e perciò è stato creato libero perché un amore senza libertà è inconcepibile. Ora nel gioco della liberà l’uomo può chiudersi alla relazione d’amore con Dio e scegliere il male. Fatto questo che spiega la sofferenza e il dolore quando essi sono riconducibili alla responsabilità dell’uomo (male morale, politico etc).
Tuttavia c’è una sofferenza che non dipende dall’uomo ma che anzi lo tocca nella sua carne senza che egli possa fare qualcosa: malattie e catastrofi naturali.
E’ la sofferenza che viene dalla stessa creazione. E’ da sottolineare, in via preliminare, che ormai è un dato difficilmente confutabile che l’uomo è il vertice del processo evolutivo, anzi, per essere più esatti, questo processo è finalizzato all’apparizione dell’essere umano. Ne consegue che se nell’evoluzione preumana possiamo trovare quegli elementi che giungono a pienezza nell’essere umano, allora la legge inscritta nella creazione non può essere quella della necessità ma quella della libertà: “un abbozzo preliminare di strutture di liberà esiste già nel mondo prevolutivo umano”. Detto con estrema concretezza: “il fatto che esistano cose come il cancro, le malattie virali, le deformità, le disgrazie, gli tsunami e così via, è una conseguenza necessaria del fatto che l’evoluzione si compie come abbozzo preliminare della libertà, in maniera non determinata, non fondata sulla necessità, non fissata, bensì nel gioco, nel provare e riprovare delle possibilità, nell’elemento casuale. Una creazione il cui scopo è la libertà creaturale non ha la forma di un ordinamento statico, strutturato a priori, ma è qualcosa di dinamico, non fissato, giocoso” (G. Greshake).
Allora quel che ultimamente conta per il credente è entrare in questo spazio della libertà per farsi carico, sull’esempio di Gesù, della sofferenza che lo abita e guardare all’orizzonte ultimo: la resurrezione della carne.

AMEDEO GUERRIERE

(Pubblicato su "L'arca di Noè", quindicinale di ispirazione cristiana, Lanciano)

LA SOFFERENZA NEL DESIDERIO
Parliamo ancora una volta di Teresa di Lisieux, più che altro gettiamo sulla carta alcune riflessioni emerse dalla lettura dell’ultimo libro acquistato in un viaggio (Denis Vasse, La souffrance sans jouissance ou le martyre de l’amour, ÉDITIONS DU SEUIL).
Ci si pone inizialmente una domanda: Teresa…”Dottore o malata?”
In effetti, nel ripercorrere la sua breve ma intensa esistenza, non si può fare a meno (e molti studiosi l’hanno abbondantemente sottolineato!) di notare i segni di una infanzia “problematica”, caratterizzata da un susseguirsi di separazioni, di abbandoni subiti che le lasciano, via via, dei solchi sempre più profondi sulla sua debole carne.
Teresa “malata”, allora? Come negare le sue nevrosi! La “storia” di Teresa, però, non è semplicemente il racconto di una trasformazione di personalità, come se la santità sopraggiungesse ad un certo punto annullando il suo passato di “debolezza” psichica; la sua storia è “cammino” di un essere umano, come di un qualunque altro essere umano, spinto, animato dalla forza del DESIDERIO.
Abbiamo avuto modo di sottolineare altre volte che Teresa definisce i suoi desideri “infiniti” e come sia fortemente ostinata a credere che la loro presenza in noi sia il richiamo di un Altro. All’interno di questa dimensione “trascendente” del desiderio, che non è dunque elaborazione di benefici privati in una logica di narcisistica esaltazione dell’io, Teresa vive la sua sofferenza. Soffre molto, ma non è l’unica a questo mondo a soffrire. In lei c’è, però, l’intuizione che tutto il carico di sofferenza derivi dall’impossibilità di giungere alla presenza di Colui che è desiderato, di Colui che pur l’attira.
“L’uomo che si lascia cercare e trovare nella carne diviene Figlio di Dio”!(D. Vasse)
L’Altro cerca Teresa, e non solo Teresa!, nella sua storia, nelle circostanze della sua vita, dentro gli avvenimenti che è costretta a subire, attraverso i volti che le passano accanto, che l’avvolgono di tenerezza e poi vanno via: “E allora dirà: ‘Ora è il mio turno’. Tu mi hai donato sulla terra il solo asilo al quale ogni cuore umano non vuole rinunciare, ossia te stessa, ora io ti do per dimora la mia sostanza eterna, cioè Me stesso: ecco la tua casa per tutta l’eternità. Durante la notte della vita sei stata errante e solitaria; ora avrai un compagno, e sono Io, Gesù, tuo sposo, tuo amico, cui tu hai sacrificato tutto. Sarò quel compagno che deve colmarti di gioia nei secoli dei secoli!...”(Teresa di Lisieux, LT 157).
Rivivendo le nostre ferite camminando con Teresa, veniamo consolati dalla sua ferma convinzione che ciò a cui si è chiamati non è la sofferenza, ma l’amore.
La sofferenza senza amore “diviene inquietudine ossessiva, addirittura piacere di vivere lottando contro il male o rifugiandosi in esso; si affonda nella collera e nell’odio…Con l’amore, la sofferenza diviene pura: come l’amore, essa non è il luogo d’alcun ritorno su se stessi, d’alcuna accusa; essa è il luogo dell’espropriazione di sé per un amore che si ignora. Allora la verità della sofferenza consiste nell’essere spodestati da se stessi”. Colui che soffre riconosce l’amore “perché è attirato dentro una solitudine o un abbandono tali che, la mancanza di essere, lo stare faccia a faccia con la morte, lo rimandano non a lui-stesso, bensì alla gioia e alla pace di una Vita che non è la sua, ma senza la quale non sentirebbe allo stesso tempo di essere ’niente’ ”(D. Vasse).
Teresa non cerca di annullare la sua sofferenza per riuscire a vivere: mostra di possedere un livello di libertà tale da poter vivere “con” la sofferenza, che condivide con Cristo e con tutta l’umanità, e divenire un “niente” nella notte del mutismo, il “niente della compassione” nella notte della desolazione.
“Celina, il buon Dio non mi domanda più nulla…Agli inizi mi chiedeva un’infinità di cose…Santa Teresa dice che occorre tener vivo l’amore. La legna non è alla nostra portata quando siamo nelle tenebre, nelle aridità; ma non dobbiamo forse gettarvi almeno delle pagliuzze? Gesù è certamente abbastanza potente per tener vivo il fuoco da solo, tuttavia è contento di vederci mettere qualcosa che lo alimenti: è una delicatezza che gli fa piacere e allora Egli getta nel fuoco molta legna. Noi non lo vediamo, ma sentiamo la forza del calore dell’amore. Ne ho fatta l’esperienza quando non sento niente, quando sono INCAPACE di pregare, di praticare la virtù: è allora il momento di cercare delle piccole occasioni, delle cose da niente che fanno piacere, più piacere a Gesù dell’impero del mondo o perfino del martirio sopportato generosamente: per esempio, un sorriso, una parola amabile quando avrei desiderio di non dire nulla o di avere l’aria scontrosa, ecc..
Ma Celina diletta, capisci? Non è per fare la mia corona, per guadagnare dei meriti, è per fare piacere a Gesù!...”(Teresa di Lisieux, LT 143).
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