DON ANTONIO

mercoledì 16 novembre 2011

Marcel: la filosofia del mistero

In clima pienamente novecentesco si muovono quei pensatori che, pur prendendo alimento dallo spiritualismo di fine Ottocento, sentono il fascino delle tematiche dell'esistenzialismo, specialmente di quello kierkegaardiano. Essi cercano, in generale, di coniugare il discorso sulla "coscienza" con quello sulla "esistenza come possibilità", sulla sua "precarietà", e sull'angoscia che la contrassegna quotidianamente.
Gabriel Marcel (1889-1973) fu addirittura un "anticipatore" della "rinascenza kierkegaardiana", per certe sue annotazioni che risalgono fin al 1914; certo è comunque che l'evoluzione del suo pensiero lo portò a posizioni molto affini a quelle jaspersiane (vedi cap. XI), per cui si è soliti considerarlo un "esistenzialista religioso"; tuttavia il quadro in cui si inscrive il suo itinerario speculativo è quello "spiritualistico"; il suo obiettivo fu quello di mostrare la necessità dell'apertura dell'esistenza a Dio, e, in modo piú specifico, dell'apertura alla rivelazione cristiana.
Drammaturgo e critico letterario, Marcel fu anche autore di opere di notevole impegno filosofico: Giornale metafisico (1927), Essere e avere (1935), Dal rifiuto all'invocazione (1939), Homo viator (1944), Il mistero dell'essere (1952), L'uomo problematico (1955).
Il punto di partenza del suo discorso sta nella considerazione che i cosiddetti "problemi" dell'io, del mondo, di Dio, non sono problemi. Ma non nel senso ch'è già tutto chiaro, bensí al contrario, che se fossero "problemi" dovrebbero pure, in linea di principio, essere risolubili per dimostrazioni razionali. Il che è impossibile; infatti il problema mi deve stare "davanti", egli dice, ben chiaro come problema; mentre l'io, il mondo, Dio - cioè, in una parola, l'essere - mi coinvolgono; io sono comunque coinvolto, non posso "distaccarmi" dall'essere, oggettivarlo. Il che significa che quello dell'essere è piuttosto un "mistero".
Fra problema e mistero c'è questa essenziale differenza: il problema è qualcosa che io incontro, che si trova nella sua interezza di fronte a me, e che posso pertanto delimitare e dedurre; mentre invece un mistero è qualcosa in cui io stesso sono impegnato e che non è perciò concepibile che come una sfera in cui la distinzione fra l'in-me e il davanti-a-me perde il suo significato... Mentre un problema autentico cade all'interno d'una certa tecnica in funzione della quale si definisce, un mistero trascende per definizione ogni possibile tecnica. È certamente possibile (logicamente e psicologicamente) degradare un mistero facendone un problema; ma si tratta di una procedura intrinsecamente viziosa e le cui origini risalgono forse ad una specie di corruzione dell'intelligenza.
(Essere e avere)
Il mistero dell'essere è, dunque, tale perché mi sovrasta e mi avvolge, e perché non ho strumenti tecnici per dissolverne l'oscurità.
E non si confonda, avverte Marcel, il mistero con l'"inconoscibile"; il riconoscimento dell'inconoscibile segna infatti l'arresto dell'intelligenza, e, in sostanza, una sua sconfitta; il riconoscimento del mistero, invece, è un'affermazione positiva dello spirito, che apre l'uomo ad una serie di scelte positive coerenti con esso.
Bisogna evitare con grande cura ogni confusione fra mistero e inconoscibile: l'inconoscibile, in realtà, non è che un limite del problematico e non può essere attualizzato senza contraddizione. Il riconoscimento del mistero, al contrario, è un atto dello spirito essenzialmente positivo, l'atto positivo per eccellenza ed in funzione del quale si rende rigorosamente definibile ogni positività.
(Essere e avere)
Ma perché mai io "avverto" il mistero dell'essere? Perché, dice Marcel, io avverto che il mio essere non coincide con la mia esistenza; perché colgo una distanza tra ciò che sono e il modo in cui vivo. Io sono infatti
un essere la cui caratteristica centrale consiste, forse, nel non coincidere puramente e semplicemente con la propria vita. La prova o la conferma di questa non coincidenza consiste nel fatto che io valuto la mia vita in modo piú o meno esplicito, che è in mio potere non soltanto condannarla... ma mettere un termine effettivo, se non alla mia vita considerata nelle sue piú profonde radici (che, forse, sfuggono al mio dominio) almeno all'espressione finita e materiale che sono libero di considerare come risolvente in sé l'intera vita. Il fatto che il suicidio sia possibile diviene, sotto questo profilo, una direttrice essenziale di ogni pensiero metafisico autentico.
(Essere e avere)
Proprio perché quello dell'essere è un mistero io posso "scegliere" tra vita e morte, tra speranza e disperazione, amore e odio, fedeltà - in tutti i suoi aspetti - e tradimento, ecc Laddove i primi termini delle coppie manifestano la mia "apertura" al mistero, i secondi la mia "chiusura" ad esso.
Apertura e chiusura liberamente scelte. Certo, il nostro vivere quotidiano ci induce a propendere per la chiusura. Si consideri, ad esempio, il tradimento, dice Marcel. Esso non solo "è possibile ad ogni istante, in ogni grado, sotto ogni forma" (tradimento di ciò che si è, di ciò in cui si crede, di ciò che si ama, ecc), ma "sembra che la struttura stessa del nostro mondo ce lo imponga"; tutto, in questo mondo, "ci appare come un'incitazione costante al rinnegamento e alla defezione totale". Tutto ci spinge a lasciarci guidare dal criterio dell'"avere", del "possedere e dominare la realtà esteriore", e a far coincidere forzosamente il nostro "essere" con il nostro "avere"; tutto ci sollecita a tradire, a rinnegare, pur di possedere. Ma non c'è dubbio che il possedere la realtà esteriore, al costo del tradimento, non sancisce la signoria dell'uomo sul reale, ma, magari inconsapevolmente, la sua dipendenza da esso, la sua schiavitú. Egli "ha", ma non "è".
Essere significa allora non proiettarsi fuor di sé, ma vivere immersi nella consapevolezza del mistero dell'essere, e quindi anche del proprio essere; e scegliere l'"apertura" ad esso, con tutte le implicazioni, a livello di atteggiamenti e di comportamenti, che la cosa richiede.
L'uomo "è", allora, quando ama, spera, è fedele. Ma soprattutto nell'amore e nella fedeltà gli "si presenta" il mistero. E si presenta - aggiunge Marcel, rivelando la finalità religiosa del suo discorso - nella forma del "Tu"; un "Tu" al quale, proprio nell'amore e nella fedeltà, l'uomo non può non riconoscere di "appartenere".
Da ciò Marcel ricava che il "mistero ontologico" non si oppone alla "rivelazione cristiana"; anzi:
Una ontologia cosí intesa è evidentemente aperta ad una rivelazione, che essa tuttavia non potrebbe né esigere, né presupporre, né integrare, e neppure, in linea assoluta, comprendere, ma di cui non pertanto può, in certa misura, preparare l'accettazione.
(Essere e avere)
L'uomo che "è", dunque, è colui che è consapevole della ostilità che il mondo oppone all'attuazione del suo essere, e che quindi considera la sua esistenza come una "prova".
Non c'è salvezza né per l'intelligenza né per l'anima che a condizione di distinguere tra il mio essere e la mia vita... Dire che il mio essere non si confonde con la mia vita significa essenzialmente dire due cose. La prima è che, poiché non sono la mia vita, questa mi è stata data ed io sono quindi in un certo senso, forse umanamente impenetrabile, anteriore ad essa, cioè "io sono" prima di vivere. La seconda è che il mio essere è qualcosa di minacciato dal momento in cui vivo, ed è perciò qualcosa che io debbo salvare; che il mio essere è una posta, e che in ciò risiede forse il senso della vita. Da questo secondo punto di vista io non sono al di qua ma al di là della mia vita. Non c'è altro modo di interpretare la prova umana, ed io non vedo che mai possa essere la nostra esistenza se non una prova.
(Essere e avere)
L'uomo "aperto" al mistero ontologico non sarà allora sopraffatto dall'"angoscia", nel corso della prova. L'angoscia "paralizza", "sterilizza", mentre l'"apertura al Tu" porta con sé proprio il suo superamento. Certo, non scompare l'"inquietudine", ma questa, per chi è < istallato" nel mistero, è "feconda", "creatrice"; è insomma "positiva".
L'inquietudine positiva, quella che porta nel suo seno un valore, è la disposizione che ci permette di liberarci dalla morsa in cui ci rinserra la vita quotidiana con le sue mille preoccupazioni, che finiscono per nascondere le realtà autentiche. Siffatta inquietudine è un principio di oltrepassamento, è un sentiero che dobbiamo percorrere se vogliamo giungere alla pace vera... Ho parlato di inquietudine e non di angoscia, perché mi sembra che l'angoscia sia sempre un male, dato che essa è, dopo tutto, chiusa in se stessa, e corre il rischio di generare una specie di gioia sadica. A mio modo di vedere le filosofie dell'esistenza fondate sull'angoscia portano in un vicolo cieco. Sono convinto che se sono suscettibili di rinnovamento, sarà possibile solo attraverso una meditazione sulla speranza e sulla gioia; ho detto la gioia, non ho detto la soddisfazione, perché quest'ultima non fa leva che sull'avere, ed è certamente legata a ciò che in noi esiste di piú transeunte. Ma la gioia, comunque, non esclude l'inquietudine... perché essa è, in ultima analisi, l'aspirazione d'un meno d'essere a un piú d'essere ed è ben possibile che essa non possa trovare il suo termine che al di là dei ristretti confini entro cui scorre la nostra esistenza apparente, in una contemplazione piena d'amore che non può esser altro che una partecipazione. Se l'uomo è essenzialmente un viaggiatore, egli è in cammino verso un fine di cui si può dire, contemporaneamente e contraddittoriamente, che gli è visibile e invisibile.
(L'uomo problematico)

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-05/24-2/CAPITOLOOTTAVO11.rtf.html

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