DON ANTONIO

martedì 29 novembre 2011

«Il Dio dei Padri»Introduzione al libro della Genesi. Temi di Teologia Biblica trattati da don Claudio Doglio.28 NOVEMBRE 2011





LA SAPIENTE TEOLOGIA SULL’ORIGINE DEL MALE
«Io porrò inimicizia tra te e la donna» (Gen 3)

Il secondo racconto della creazione (Gen 2,4b–3,24) costituisce un unico meraviglioso quadro, costruito come un “dittico” e composto di due tavole, distinte ma congiunte. Nella prima tavola (Gen 2,4b-25), come si è già visto, è stata presentata l’armonia delle relazioni umane secondo la volontà buona del Creatore; ma al quadro luminoso e sereno succede il dramma della disarmonia.
La seconda tavola del dittico
L’altra faccia della medaglia è costituita dalla seconda tavola del dittico (Gen 3,1-24), che presenta gli elementi negativi della realtà umana L’antico autore, infatti, compone questa prima pagina della storia di salvezza con l’intenzione di rispondere a una domanda fondamentale: «Perché il male?». In particolare gli preme capire perché mai esista la disarmonia nel mondo, se è vero che Dio ha fatto buone e belle tutte le cose; vuole spiegare perché non funzioni la relazione dell’uomo con Dio, perché sia così faticosa la relazione dell’uomo con la natura, perché produca amarezze e dolori anche la tanto desiderata relazione dell’uomo con la donna.
Il racconto dunque vuole ricercare le cause al di là della nostra storia contingente e attuale, vuole risalire alle origini del problema: per questo si parla in gergo tecnico di “eziologia metastorica”. Il secondo quadro narrativo concentra quindi l’attenzione sul fattore che ha turbato la splendida armonia del creato: la libertà umana, messa alla prova, ha fallito; l’uomo ha travalicato il proprio limite umano, pretendendo di usurpare il ruolo divino, e si è scoperto “nudo”!
Proprio l’esperienza della nudità costituisce l’indizio esplicito di cambiamento: mentre alla fine della prima parte veniva sottolineato come l’uomo e la donna non provassero vergogna per il fatto di essere nudi (2,25), ora viene sottolineato il drammatico sopraggiungere di una tale vergogna, che sigilla la rovina delle precedenti buone relazioni (3,10-11). E questa è la condizione comune dell’umanità: la nostra esperienza infatti riguarda solo la seconda tavola del dittico, quella della disarmonia. Il primo quadro, invece, non costituisce tanto il ricordo di un’era felice scomparsa, quanto piuttosto la rivelazione del progetto di Dio. Il racconto del giardino e della grazia precede quello del peccato e rappresenta l’intenzione divina, il motivo per cui Dio ha creato il mondo e l’orizzonte a cui tende la storia della salvezza.
Dunque, tutt’altro che una pagina pessimistica! Si tratta invece di un racconto di speranza, che rifiuta di accettare come “normale e naturale” che le cose vadano male: se per i pensatori mesopotamici l’uomo è nato per soffrire, il testo biblico rivela che il destino dell’uomo è di superare la presente situazione di sofferenza e disarmonia.
Il racconto della seconda tavola si struttura in tre momenti successivi: anzitutto il quadro della tentazione e del peccato (3,1-7); poi l’indagine (3,8-13); quindi la sentenza divina (3,14-21). In questi tre momenti il narratore segue un ordine artistico: anzitutto presenta i personaggi nella sequenza serpente–donna–uomo; poi nella sezione dell’inchiesta l’ordine viene capovolto (uomo–donna–serpente); infine nel giudizio si riprende l’ordine iniziale (serpente–donna–uomo). Bisogna riconoscere che il racconto è costruito bene, cesellato anche nei particolari: la donna è sempre al centro, perché rappresenta l’elemento centrale di tutti i passaggi.
La narrazione si chiude con la drammatica conclusione della cacciata dal giardino (3,22-24), riprendendo i temi della prima tavola ed evidenziando la differenza della situazione storica rispetto al progetto divino iniziale.
Il serpente “sapiente”
Il capitolo 3 inizia con un personaggio nuovo che prima non era stato nominato: il serpente (ha–nachásh). Eppure è indicato con l’articolo determinativo e presentato come se i destinatari lo conoscessero: evidentemente costituisce un simbolo tanto complesso, eppure tanto noto, che il narratore non si preoccupa di chiarirlo.
Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio (3,1a).
Fine narratore e abile cesellatore di termini, l’autore crea un gioco letterario fra due vocaboli ebraici: nel versetto precedente l’uomo e la donna erano stati presentati “nudi” (‘arûmîm), ora il serpente è detto “astuto” (‘arûm). Solo una piccola differenza vocalica distingue i due termini che segnano il passaggio: la nudità degli uomini ha da fare con l’astuzia del serpente.
Tradurre ‘arûm con “astuto” serve per evidenziare una sfumatura negativa, eppure l’aggettivo ebraico ha anche un valore positivo e indica l’intelligente fra gli esseri viventi creati dal Signore Dio: il serpente è saggio, sapiente. Proprio nel libro dei Proverbi, nato nell’ambiente sapienziale della corte, questo aggettivo era adoperato per caratterizzare l’uomo prudente in contrasto con lo stupido (vedi ad esempio Proverbi 12,16.23; 13,16; 14,8.15.18; 22,3; 27,12). Non è quindi da escludere che l’autore voglia alludere con una velata polemica alla mentalità razionalista di quel contesto culturale.
Ma chi è questo serpente che parla e poi sparisce dalla circolazione, senza che il racconto lo prenda più in considerazione? Subirà la condanna, senza reagire e senza parlare, per non comparire più in altre vicende. La nostra abitudine interpretativa deriva dalla rilettura posteriore fatta dalla tradizione giudaica e poi da quella cristiana: quindi pensiamo tranquillamente che il serpente sia il diavolo. Ma l’identificazione non è così semplice. L’autore antico non aveva ancora l’idea del diavolo come realtà spirituale di un angelo ribelle che tenta gli uomini; usa invece un simbolo molto conosciuto nella cultura mitica del suo tempo. Il serpente quindi non è pensato come il demonio; eppure l’identificazione tra il serpente e il diavolo è relativamente antica. Nella Scrittura questo rapporto viene suggerito per la prima volta nel libro della Sapienza (fine I sec. a.C.), dove il diábolos, il “divisore”, è abbastanza chiaramente accostato al serpente di Gen 3, colui grazie al quale la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24). Nel Nuovo Testamento questo accostamento diviene ancor più esplicito in Ap 12,9 e 20,2: «il drago, il serpente antico, cioè satana, il diavolo». La piena identificazione del serpente genesiaco con il diavolo nasce tuttavia soltanto in epoca post-biblica. Sia la tradizione giudaica che quella cristiana immagineranno sempre più decisamente il serpente come il demonio stesso, origine del peccato e di ogni male (cf. l’Apocalisse di Mosè, 16-19; Giustino, Dialogo con Trifone, 124).
Per comprendere bene il significato di questo antico simbolo dobbiamo riflettere, osservando anzitutto che viene presentato come uno degli “esseri viventi della campagna”, uno di quelli “fatti” dal Signore Dio: dunque una delle creature! Non è affatto una sorta di anti-dio.
Nella tradizione mitica mesopotamica il mostro primordiale è immaginato come un serpente, giacché i vari mostri e i draghi hanno nell’immaginario comune qualcosa del rettile: è normale quindi che il serpente sia collegato con il caos e il disordine, che Dio domina per creare l’ordine. Talvolta però nei racconti mitici orientali i serpenti hanno pure una valenza positiva, svolgendo il ruolo di custodi del giardino degli dei. In questo caso dunque il narratore potrebbe aver pensato al serpente in quanto immagine di chi fa la guardia all’albero.
Ma c’è di più. Nel mondo egiziano il serpente è simbolo di potere e di sapienza: il faraone porta sulla tiara, proprio per significare la sua qualità di potente e sapiente, la figura di un serpente ureo eretto, simbolo dell’onnipotente occhio del dio solare. Così il serpente è connesso alla raffigurazione del potere umano e della prepotenza faraonica, con sottile allusione alla cultura di Gerusalemme, che in certi casi rischiava di essere pericolosamente filo-egiziana. Per il mondo cananeo, invece, il serpente è figura “ctonica”, cioè legata alla terra e connessa ai culti della fertilità: diventa pertanto un segno di idolatria, giacché era venerato come una divinità capace di donare fecondità. In tal modo esso rappresenta la tentazione di idolatrare le forze della natura, con un complesso riferimento sessuale e religioso insieme. Sappiamo che addirittura nel tempio di Gerusalemme era stato introdotto un idolo a forma di serpente (detto nechushtán) eliminato poi dalla riforma del re Ezechia (2Re 18,4). Inoltre la radice verbale che in ebraico ha le stesse consonanti del nome serpente (n-ch-sh) significa “fare incantesimi”: forse perché il rituale idolatrico delle alture cananee era connesso con l’oscuro mondo della magia e delle divinità infere. Perciò il serpente rappresenta un pericolo per la fedeltà di Israele all’alleanza con il Signore Dio.
A queste molteplici simbologie antiche i moderni hanno aggiunto ancora altre spiegazioni, fra cui una si presenta interessante: il serpente sarebbe un simbolo dell’uomo stesso, non una realtà esterna, ma il lato oscuro della coscienza umana. In fondo il ruolo del serpente nel racconto di Gen 3 è quello di fare domande, porre problemi, suscitare dubbi: proprio ciò che fa l’uomo stesso. Inoltre se è vero che è il più sapiente delle creature, anche questo si adatta bene all’intelligenza dell’uomo. Si dice poi che il serpente è legato alla polvere e deve mangiarla tutti i giorni della sua vita (3,14): ma la polvere è l’elemento stesso di cui l’uomo è costituito (2,7) e a cui tende (3,19). In qualche modo, dunque, questa complessa simbologia può essere connessa all’uomo stesso, alludendo al suo oscuro modo di ragionare che dubita di Dio e a lui si ribella, invece di riconoscerne la benevola signoria di Creatore.
Il racconto biblico denuncia la presenza del male, ma non la spiega: indica che il serpente c’è già e l’umanità l’incontra, senza esserne l’origine ma rimanendone sedotta.
La libertà alla prova: sospetto e sfiducia
Quindi, parlando del serpente, dobbiamo considerare in controluce tutte queste variegate immagini: non si tratta certo di un semplice animale parlante, come nelle favole, ma di un complesso simbolo sapienziale, un personaggio del dramma che mette alla prova la libertà dell’uomo e lo provoca alla rivolta.
Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”» (3,1b).
Il serpente semplicemente parla e stravolge il precetto divino con una subdola domanda: il divieto riguardava un solo albero (2,17), mentre tutti gli altri, compreso quello della vita, erano concessi (2,16). Ma questa “legge” era stata data all’uomo, quando la donna non c’era ancora! Lei ha ricevuto la norma per tradizione e il dubbio ingigantisce la proibizione, determinando un’idea di legge oppressiva che blocca la libertà umana.
Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (3,2–3).
La donna risponde al sospetto ripetendo il testo dell’alleanza, ma con alcune modifiche: omette di dire che la facoltà di mangiare riguarda tutti gli alberi; attribuisce la collocazione in mezzo al giardino all’albero della conoscenza, mentre prima era stato detto dell’albero della vita (2,9); aggiunge l’imperativo di non toccare l’albero, assente nel precetto (2,17). La donna sta confondendo i due alberi? Comunque, a questo primo tentativo resiste, richiamando la legge divina.
Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (3,4–5).
La seconda aggressione psicologica è più penetrante e riguarda la verità delle parole divine e la sua intenzione profonda: il serpente afferma che non è vera l’affermazione di Dio sui danni prodotti dall’albero della conoscenza. Egli fa sorgere il dubbio che Dio menta e quindi inganni: ha invitato a non mangiare di quell’albero per un motivo diverso. E qui sta il secondo sospetto, ancora più grave e pericoloso: Dio inganna l’uomo per invidia malevola, perché non vuole che l’uomo conosca e cresca, soprattutto non vuole che diventi come Dio. Il ruolo del serpente dunque è quello di dar voce al grande sospetto che alberga nel cuore umano: di Dio non ci si può fidare, perché è nemico dell’uomo e cerca di fargli del male! La tentazione per eccellenza dunque è l’autonomia umana: non fidandosi di Dio, l’uomo sceglie di decidere con la propria testa e di rendersi indipendente da Dio. Con la pretesa di difendere la propria libertà l’umanità si mette contro il Signore: vuole essere libera di decidere qual è il bene e qual è il male.
Questa dinamica di dubbio e sospetto è l’origine del peccato, tale ragionamento sta alla base di ogni peccato come rivolta contro Dio. Il serpente fa sorgere il dubbio sulla verità e la bontà di Dio: in altre parole a mettere l’uomo contro Dio sono la pretesa di potere e di autonomia etica, la mentalità magica e naturalistica, l’istinto stesso dell’uomo, il ribelle “ostacolatore”.
Dopo che la donna ha concepito questo pensiero, il passaggio alla trasgressione è cosa elementare. Con finezza psicologica il narratore evoca il progressivo cambiamento nel modo di vedere:
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza (3,6a).
Sono tre gli elementi significativi. Comincia col vedere che l’albero è buono da mangiare, esattamente il contrario di quello che aveva detto Dio: mangiarne produce morte (cf. 2,17). Il linguaggio è chiaramente simbolico, giacché non si vede cogli occhi se un frutto è buono da mangiare: ma il narratore vuole significare il modo di vedere e valutare la realtà. Dubitando della bontà di Dio, la creatura umana vede le cose nel modo opposto: anche ciò che è intrinsecamente negativo, sembra buono. Il frutto poi appare «un piacere per gli occhi»: l’aspetto estetico assume un valore etico, per cui ciò che piace diventa buono. Infine l’oggetto proibito diventa oggetto del desiderio, desiderabile proprio per una conoscenza alternativa e indipendente dal Creatore. Dal dubbio nasce la voglia di distacco e il desiderio matura come pretesa di dominare la morale: in quest’ottica “perversa” acquistare saggezza equivale a diventare padrone dei valori, arbitro del bene e del male.
Questo significa mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Uno schema di peccato “salomonico”
L’uomo saggio sa come va il mondo, conosce i principi della realtà e riconosce il divino modo di agire; eppure l’uomo può sfociare facilmente nella tracotanza del sapiente che pretende anche di determinare la realtà, stabilendo in modo autonomo il giusto e l’ingiusto. Il modo di raccontare seguito dall’autore biblico e la stessa scelta delle parole sembra richiamare uno schema di tipo “salomonico”.
Alla corte di Salomone si sviluppò la crisi del regno di Davide: la grandezza, la prosperità, la benedizione e il benessere raggiunti decaddero rapidamente. La riflessione biblica individua la causa di questa decadenza politica e soprattutto morale in due elementi: le donne e la cultura. Non due elementi negativi in sé, ma due elementi potenzialmente devianti.
L’harem notevolmente fornito era segno di ricchezza e di potenza: perciò Salomone arrivò ad aveva 700 mogli e 300 concubine (1Re 11,3). Un simile fatto non dice solo lusso, ma anche comunicazioni internazionali e grande sviluppo del sincretismo religioso. Infatti, spiega il teologo biblico: «Le sue donne gli pervertirono il cuore e l’attirarono verso dèi stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre» (1Re 11,3-4). La corte di Gerusalemme con Salomone divenne internazionale e si adattò facilmente alle altre culture, assumendone anche i culti e le religioni, col risultato di un comodo sincretismo. In questo atteggiamento i teologi deuteronomisti nei secoli seguenti riconobbero una tragica apertura all’infedeltà religiosa di Israele e nella sapienza corrotta di Salomone additarono un principio di rovina:
Il Signore perciò si sdegnò con Salomone, perché aveva distolto il cuore dal Signore Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dei, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore. Allora disse a Salomone: «Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito» (1Re 11,9-11).
Una vicenda analoga è narrata all’inizio di tutta la storia. Il narratore infatti ha astratto e assolutizzato uno schema per evidenziare la radice costante della ribellione umana contro la rivelazione di Dio: nonostante i doni, l’uomo non custodisce l’alleanza. In tutto questo viene sottolineato l’importante ruolo della donna, non per misoginia, ma al contrario per evidenziare quale rilievo abbia la figura femminile. Si può addirittura affermare che il personaggio principale di questa scena iniziale sia proprio la donna: è lei infatti a legare insieme il quadro della creazione e quello del peccato ed è sempre lei a dominare nell’ultima scena, diventando la «madre».
Alla corte di Gerusalemme la regina madre aveva un ruolo importante, era definita col titolo di Ghebiráh, cioè la «Potente», e saliva al trono insieme al figlio, comparendo alla destra del re. La prima regina fu proprio la madre di Salomone (cf. 1Re 2,19), colei che aveva avuto un ruolo rilevante nella successione al trono di Davide e nella sua esperienza di peccato. Questo fatto rimase impresso nella memoria di Israele e portò, ad esempio, a valorizzare negli antichi racconti patriarcali le figure significative delle madri, quali Sara, Rebecca, Lia e Rachele. Così la donna all’inizio diventa il prototipo della grande madre, figura rilevante e importante per le scelte e le conseguenze.
L’altro aspetto del peccato salomonico era stata la cultura, cioè la sapienza che si allontanava dal Dio dell’alleanza: la scuola di corte, infatti, rischiava di diventare col tempo orgogliosamente laica e pericolosamente indipendente dalle antiche tradizioni di Israele. Un simile cambiamento influenzava in modo negativo la cultura del popolo e lo allontanava praticamente dalla fedeltà al Signore.
L’autore di Gen 2–3 è un sapiente e compone un racconto di tipo sapienziale, eppure ha polemicamente di mira proprio l’atteggiamento presuntuoso di una mentalità umana troppo orgogliosa e il rischio di una cultura indipendente da Dio. Un tale modo di vedere la realtà è contrario al progetto divino e porta a compiere come buone le azioni che erano state indicate come dannose.
Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò (3,6b).
Non ci sono sottolineature volute da parte dell’autore nel raccontare la consumazione della trasgressione. La figura della donna è emergente, ma non è colpevolizzata; l’uomo sembra piuttosto dipendente, ma in ogni caso connivente.
La “mela” non c’entra!
Nell’immaginario comune la “mela di Eva” è considerata un’ovvia immagine del racconto della creazione. Molti ancora si sorprendono, scoprendo che Gen 2-3 non parla affatto di mele, anzi, non ci dice affatto di che specie fosse l’albero della conoscenza del bene e del male e lascia così la nostra curiosità a bocca asciutta. In realtà, già l’iconografia cristiana antica tende a raffigurare l’albero della conoscenza del bene e del male come un melo; un punto sul quale la predicazione popolare ha spesso insistito.
La tradizione giudaica antica si è interrogata sul nome dell’albero misterioso; le risposte sono le più varie. L’albero non avrebbe un nome perché è l’albero che ha portato il male nel mondo. L’albero secondo alcune opinioni è una vigna, perché è il vino che causa mali all’uomo, oppure un fico (Gen 3,7!). Secondo il commentatore ebraico medievale Rashi l’albero era invece un ethrog, ovvero l’albero di cedro che viene usato per la festa delle Capanne, il cui frutto è considerato di forma e bellezza perfette. Altri commentatori antichi hanno pensato al grano, che pure non è un albero. Il pane, infatti, è l’alimento umano per eccellenza, il segno della civiltà; la tradizione giudaica stabilisce così uno strettissimo rapporto tra pane e conoscenza; il pane mangiato nel rito della Pasqua restaura la vera relazione tra l’uomo e il pane stesso del quale l’uomo si era appropriato. La tradizione popolare giudaica ha visto poi nell’albero della conoscenza del bene e del male anche un melo, perché è buono, bello, attraente. Nella festa del capodanno ebraico (Rosh ha-shanah) si è conservata l’usanza di mangiare mele in ricordo del melo della creazione.
È molto difficile dire se la tradizione cristiana, identificando l’albero dell’Eden con il melo, abbia attinto a quest’ultima tradizione giudaica. Forse è più facile pensare a un gioco di parole, evidente in latino, tra malus (il melo) e malum (il male). I padri della Chiesa non sembrano ancora conoscere questa identificazione, che tuttavia, progressivamente, si farà strada.
La vergogna e la paura
Ecco ora il passaggio alle conseguenze: pensare Dio come ostile e agire contro le sue indicazioni rovina l’armonia delle relazioni. In parte il serpente aveva ragione: mangiando non muoiono e i loro occhi si aprono.
Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture (3,7).
Eppure si rivela subito che il serpente aveva torto ed era stato lui a ingannare l’uomo: la conseguenza infatti non è diventare come Dio, ma proprio il contrario. L’umanità si accorge della propria debolezza e del limite: nel linguaggio biblico la nudità è segno di estrema povertà e quindi di perdita della dignità. Quel frutto produce una conoscenza e apre gli occhi, ma solo per mostrare il limite e la debolezza dell’umanità: perciò l’uomo e la donna, accorgendosi di come sono, non più capaci di accettarsi, se ne vergognano. La presenza dell’altro sveglia la coscienza della propria miseria e la presenza di Dio diventerà addirittura fonte di paura. Non muoiono fisicamente, ma sperimentano una tragica rovina che segna la loro esistenza e si può proprio paragonare alla morte.
Per rimediare alla propria nudità non sanno fare di meglio che una cintura di foglie: è il tentativo quasi ridicolo dell’umanità di riparare al guaio fatto, un palliativo insufficiente e incapace. Una lettura non simbolica del testo, sottolineando troppo l’aspetto fisico della “nudità”, ha deformato l’interpretazione del racconto e ha visto in quell’evento una vicenda sessuale: pur senza ammetterlo in modo esplicito, una simile interpretazione sessuale del peccato di Adamo ed Eva circola comunemente fra la gente, così come il riferimento alla “mela” e al suo doppio senso. È bene chiarire in modo deciso che il testo non dice affatto questo!
Il proprio limite scoperto dall’uomo e dalla donna suscita vergogna e poi, nei confronti di Dio, diventa paura e determina la fuga e il nascondimento:
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino (3,8).
In questa splendida scena il narratore descrive il Signore Dio come un sovrano orientale che scende a passeggiare nel giardino, quando il caldo sta passando e comincia a sentirsi la brezza della sera: al giardino vengono ancora riconosciuti i valori di familiarità, confidenza e amicizia. Dio va a passeggiare nel giardino per incontrare l’umanità in dialogo amichevole; ma l’umanità ha paura del Signore e cerca di evitarlo. La relazione con Dio è evidentemente rovinata: «Il peccato fa sì che l’uomo perda la capacità dell’ospitalità» (E. BIANCHI).
L’indagine
Invece il Signore che passeggia nel giardino vuole entrare in relazione ospitale con l’umanità: Dio va a cercare l’uomo.
Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?» (3,9).
L’uomo ormai è in fuga da Dio e cerca di nascondersi. È il Signore stesso che prende l’iniziativa: va a cercarlo e gli chiede di uscire fuori dal suo nascondiglio. La domanda così semplice e profonda non esprime un’ignoranza, ma un velato rimprovero e un desiderio di consapevolezza: non è che Dio non sappia dove si trovi l’uomo, ma vuole risvegliare la sua coscienza, perché si renda conto della nuova situazione in cui si è venuto a trovare.
Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,10).
La risposta dell’uomo esprime tale consapevolezza: dubitando di Dio e non fidandosi di lui, l’umanità ha scoperto la propria naturale debolezza e considera tale creaturale limitatezza cosa non amata da Dio, quindi fonte di vergogna e di paura. Scoprendosi “nudo” l’uomo vuole interrompere la relazione con Dio, perché ha paura che tale relazione sia negativa per sé. La seconda domanda divina vuole andare in profondità e far sì che l’uomo riconosca la causa di tale nuova situazione.
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (3,11).
Il racconto si presenta ora come una specie di istruttoria giudiziaria; l’obiettivo però non è trovare il colpevole, ma evidenziare la causa della disarmonia. È Dio stesso che propone la soluzione: l’uomo sa di essere nudo perché ha disobbedito al Signore, non si è fidato di lui e ha preteso di fare di testa propria. A questa domanda così importante l’uomo non risponde, ma scarica la responsabilità sulla donna.
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi ha posta accanto, mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (3,12).
L’inno di giubilo è rotto e la bella relazione originaria non esiste più. Con una sola frase l’uomo prende le distanze da Dio e dalla donna: la colpa – dice – è della donna e, in ultima analisi, di Dio stesso, perché è lui che gliel’ha messa accanto. Con saggezza il narratore evidenzia come il peccato rompa la solidarietà e porti l’uomo alla de-responsabilizzazione: egli si difende, accusando gli altri. Questa reazione è il segno evidente dell’armonia infranta. Dio prosegue la ricerca e interpella anche la donna.
Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?».
Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato» (3,13).
La donna a sua volta scarica la responsabilità sull’altro elemento: il serpente. Notiamo l’insistenza sul verbo “mangiare”, perché in esso simbolicamente è racchiusa l’idea del preteso dominio, dell’arroganza umana che vuole impadronirsi della morale, radice e origine del peccato.
La sentenza contro il serpente
Finalmente l’attenzione è portata sul serpente, da cui era partita la tentazione; ma a lui Dio non chiede spiegazioni, formula solo una grave sentenza di condanna e di maledizione.
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita» (3,14).
Un simile linguaggio di maledizione deve essere compreso nel contesto “mitico” in cui il racconto lo situa con intento teologico: né l’uomo, né la donna sono maledetti per il loro peccato, ma lo è il serpente. Se dunque la benedizione è dono di vita e capacità di trasmettere la vita, la maledizione si pone diametralmente all’opposto ed equivale alla sterilità, cioè l’incapacità di produrre un frutto buono e vitale. Pertanto vengono dichiarati sterili ed esclusi dalla dinamica della vita tutti gli elementi simboleggiati dal serpente: prepotenza umana e arroganza della sapienza, culti della fertilità e magia, caos primitivo e lato oscuro dell’uomo.
Inoltre il fatto dello strisciare viene riletto come simbolo della massima umiliazione: in modo analogo “mangiare la polvere” è indizio di abbattimento. Dal linguaggio epico della sconfitta dei nemici il narratore ha preso queste immagini che si adattano bene al simbolo del serpente per esprimere la disfatta delle forze oscure. Non vuol dire che prima i serpenti avessero le zampe, ma che il Signore resta fedele al suo progetto buono per l’uomo e riuscirà a realizzarlo, nonostante l’opposizione del male. Questo afferma il vertice della sentenza:
«Io porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (3,15).
Nel momento stesso in cui umilia il serpente, Dio afferma e preannuncia una lotta futura, voluta da Dio stesso, fra i figli del serpente e i figli della donna, cioè fra l’umanità e il male (non fra il bene il male!). E l’esito di questo scontro è già annunciato come promessa di vittoria per l’umanità: in questo senso la tradizione cristiana vi ha riconosciuto un “Proto-vangelo”, cioè un primo annuncio buono di salvezza.
Il “Proto-vangelo”
Il fatto che Dio ponga inimicizia fra il serpente e la donna non è una punizione: è invece un intervento provvidenziale e benefico che mette nella donna, che rappresenta l’umanità, l’ostilità nei confronti del serpente. Non viene teorizzata la lotta tra il bene e il male, ma fra l’umanità e la bramosia, fra l’umanità (la donna e la sua stirpe) e l’atteggiamento disobbediente nei confronti di Dio. Viene annunciato l’ininterrotto conflitto che l’uomo ingaggerà con il male.
Questa è la realtà: l’autore sapiente conosce bene la condizione concreta dove l’uomo lotta con una tendenza negativa che è fuori di sé, ma che è anche dentro; lotta contro gli istinti che lo portano a commettere il male; l’uomo che vuole vivere bene si trova a dover combattere per vivere bene. Questo desiderio di vivere bene e di combattere il male – insegna il testo biblico – è stato messo da Dio nell’uomo fin dall’inizio. Ma non solo viene annunciata una lotta continua fra i due schieramenti, viene promessa anche una vittoria, il superamento da parte dell’umanità.
Notiamo la stranezza della formula, che parla del “seme” della donna. La traduzione dice “la stirpe”, forse perché è sentito come strano il concetto di seme della donna; eppure il testo originale dice proprio così. È il seme della donna che schiaccerà la testa del serpente, non la donna. La traduzione italiana ha voluto giocare sull’equivoco: ha usato la parola stirpe che è femminile e quando dice “questa ti schiaccerà la testa” lascia che il lettore interpreti come vuole ed è facilissimo pensare che sia la donna il soggetto che schiaccia la testa del serpente.
Il senso del testo originale però è inequivocabile, perché in ebraico c’è un termine maschile per indicare il seme e c’è un pronome maschile per designare colui che schiaccerà la testa. Così anche la traduzione greca non lascia ombra di dubbio e tutta la tradizione giudaica pre-cristiana ha letto questo versetto come un autentico oracolo messianico. Il seme della donna che schiaccerà la testa del serpente è il Re Messia; questo è un tema comunemente predicato in sinagoga, ben prima di Gesù.
Il seme della donna è un paradosso, che nella persona di Gesù – concepito in modo straordinario, senza il seme umano – si realizza veramente. È il seme della donna, il Messia Gesù, che sciaccia la testa del serpente, che domina la bramosia di possedere Dio. «Pur essendo di natura divina si svuotò, non considerò harpagmón cioè “preda da possedere” l’essere come Dio» (cf. Fil 2,6). Egli non prese, non tenne per sé, ma diede la propria vita per l’umanità. Nell’atteggiamento di Dio che si svuota, si annienta, si dona totalmente per amore viene schiacciato il serpente. Lì l’umanità domina l’animalità che ha dentro e nel Cristo in croce noi contempliamo il vincitore: non l’uomo morto, ma il Dio vivo che vince donando se stesso, che morendo sconfigge il serpente.
Le applicazioni mariologiche sono posteriori e hanno un loro valore, tenendo conto che nella persona di Maria la redenzione si è realizzata pienamente. Non è però Maria che sconfigge il serpente, è il Cristo che vince il male; ma il frutto migliore di questa redenzione si vede nella madre Maria. In lei l’umanità ha già mostrato quanto può essere bella. Questa è l’impostazione corretta. Quindi, fin dall’inizio della Genesi, c’è una buona notizia di vittoria: il male che è entrato nel mondo e che rovina il mondo non è più forte, non avrà l’ultima parola. Alla fine – grazie al Messia Gesù – vincerà il bene.
Le sentenze per la donna e per l’uomo
Dopo la solenne condanna del serpente, il testo propone altre due sentenze rivolte alla donna e all’uomo: nel contesto letterario del racconto bisogna riconoscere che tali parole non esprimono condanne e punizioni per i colpevoli, ma vogliono interpretare la disarmonia che storicamente si percepisce nelle relazioni fondamentali come conseguenze del peccato. Qui sta la grande novità teologica del narratore biblico: a differenza dei miti mesopotamici che davano la colpa agli dei, il racconto della Genesi evidenzia la responsabilità della stessa umanità e presenta la ribellione umana a Dio come chiave di interpretazione del male che è drammaticamente presente nel mondo, nella vita di tutti e di ciascuno.
Nelle sentenze primordiali dunque la disarmonia viene presentata con quattro immagini, due per la donna e due per l’uomo.
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze; con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3,16).
Nella vita della donna le due disarmonie più forti sono individuate nel dolore del parto e nella relazione con l’uomo, che colpiscono la donna come madre e come sposa. Il momento meraviglioso del parto, inizio della vita, è anche momento terribile e doloroso, con pericolo di morte: tale stridente dissonanza è emblema di un dramma in atto. Per questo spesso nel linguaggio biblico i dolori del parto sono adoperati come segno misterioso dell’intervento salvifico operato da Dio (cf. Is 26,17-19). Così pure la dimensione della sposa, legata affettivamente allo sposo, è segnata dal dramma della violenza e della sottomissione: l’armonia originaria voluta da Dio resta un profondo desiderio dell’umanità, eppure storicamente il rapporto uomo-donna è dolorosamente caratterizzato da incomprensioni, lotte e predominio.
All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato “Non ne devi mangiare”, maledetto sia il suolo per causa tua: con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita; spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai» (3,17-19).
Nella sentenza rivolta all’uomo ritorna il concetto di maledizione, ma essa non è rivolta all’umanità (’adam) bensì al suolo (’adamah): strettamente legata all’uomo, la terra è solidale con lui e subisce le conseguenze della sua ribellione. Ma proprio nel rapporto con la terra vengono indicate le due principali disarmonie che segnano l’esperienza umana: esse colpiscono l’uomo come lavoratore e come mortale. Il lavoro è nobile vocazione per l’uomo a dominare il mondo e governare sapientemente il creato, eppure esso è caratterizzato da fatica e frustrazioni: infatti la “durezza” della terra e la violenza dei fenomeni naturali denunciano il dramma della rivolta umana, che ha stravolto l’ordine divino. Così come il destino di morte, che riporta l’uomo, fatto di terra, alla condizione della terra: qui è evidenziata non la fine dell’esistenza, ma l’angoscia per la morte, sentita come tragica e irreparabile fine proprio a causa del rapporto di sfiducia con Dio.
Subito dopo le sentenze, il racconto accenna ad un particolare che segna l’avvio delle relazioni disarmoniche: l’uomo impone un nome alla donna.
L’uomo chiamò la moglie “Eva”, perché essa fu la madre di tutti i viventi (3,20).
Aveva dato un nome a tutto il bestiame, ma non alla donna, perché l’aveva riconosciuta uguale a sé (Gen 2,20.23). Ora invece le impone un altro nome, la sente distinta da sé e comincia ad esercitare un dominio su di lei. La forma italiana del nome “Eva” è adattamento dell’ebraico “Hawwáh”, imparentato con il verbo “vivere” (hayah): evoca perciò la “vita” stessa e caratterizza la donna come madre, capace di trasmettere la vita. Al fatto negativo di imporre il nome si affianca però il valore positivo del nome, auspicio e speranza di benedizione: nonostante il peccato, Eva fu la prima regina madre.
La conclusione misericordiosa
Il racconto termina con l’espulsione dell’umanità dal giardino, ma il narratore che vuole spiegare le cause “metastoriche” del male storico intende sottolineare anche la misericordia e la fedeltà di Dio. Conviene quindi ribadire che la disarmonica situazione attuale non è quella voluta da Dio. Il testo non dice affatto che il Signore ordina all’uomo di dominare la moglie, ma al contrario rivela le conseguenze del peccato: avendo rotto il buon rapporto con Dio, anche i rapporti umani si deteriorano e divengono negativi. Il testo non dice affatto che il Signore impone all’uomo la dura fatica del lavoro, ma al contrario gli fa notare il danno arrecato al mondo col suo atteggiamento: avendo alterato la buona relazione con Dio, anche le relazioni col creato sono degradanti e mortifere.
In tutto il racconto la grazia è intrinseca alla stessa sentenza: «Il fatto sorprendente non è che i due siano puniti, ma che venga loro risparmiata la vita» (Brüggemann). In chiave positiva infatti la rivelazione biblica vuole evidenziare come l’intenzione originale di Dio fosse l’armonia cosmica delle relazioni e, proprio in forza della fedeltà del Signore, il racconto è una promessa fiduciosa nella realizzazione del progetto e nel ristabilimento dell’ordine armonico (cf. Is 11,8).
Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì (3,21).
In questo gesto simbolico l’autore mostra l’intervento di Dio con un’opera di misericordia: mentre l’uomo era stato capace solo di coprirsi con una foglia di fico, il Signore Dio confeziona da buon sarto tuniche di pelle e li riveste. La nudità dell’uomo – cioè la debolezza del suo peccato – viene coperta dalla misericordia di Dio e alla fuga dell’uomo il Signore risponde con un dono di grazia. Anche ciò che segue, l’allontanamento dal giardino, è spiegato dall’autore come un intervento misericordioso di Dio, necessario in vista della salvezza.
Il Signore Dio disse allora: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre» (3,22).
L’autore biblico sa – come gli altri pensatori antichi – che l’uomo non ha accesso all’albero della vita, ma la sua spiegazione rivela la responsabilità dell’uomo in tale interdetto e anche il piano salvifico di Dio: egli non vuole che l’uomo, divenuto ribelle, viva sempre nella ribellione e si stabilizzi nell’opposizione.
Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Esiliò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita (3,23 24).
Anche se nel linguaggio comune si presenta questo racconto come “caduta”, in realtà esso narra l’allontanamento dell’uomo. L’immagine della “caduta” è di origine platonica e deriva dal mito della caduta dell’anima, narrato nel dialogo «Fedro»: il linguaggio abituale rivela una lunga storia di contaminazioni! Ma il giardino non viene abolito e l’albero della vita non viene tagliato: anzi viene custodito e difeso da figure simboliche, comuni nel mito orientale. L’uomo è mandato in esilio: perde la bellezza del giardino e torna alla terra che è il suo ambiente primordiale. Lo stesso capitò a Israele, popolo dell’alleanza, infedele all’alleanza: perse il dono della terra e finì in esilio.
Ma questa non è l’ultima parola, anzi è solo l’inizio del grande racconto biblico: il seguito mostrerà l’impegno di Dio per riportare l’uomo alla santità della sua prima origine, progetto che finalmente si è compiuto nell’opera di Gesù Cristo. Una splendida antifona della liturgia bizantina canta con gioia commossa nella notte di Natale:
«Il muro di separazione è abbattuto: la spada di fuoco si volge indietro e i cherubini si ritirano dall’albero della vita e anch’io godo del giardino di delizia, da cui ero stato scacciato per la disubbidienza».

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