DON ANTONIO

lunedì 7 maggio 2012

La sofferenza di Cristo nella teologia di Sören Kierkegaard



Oggi, si sa, imperversa la cosiddetta «teologia esistenziale»: ma questo termine affascinante, che richiama la testimonianza viva dei martiri e dei santi, è invece capovolto nella proclamazione della fine del sacro, della secolarizzazione e di quella antropologia teologica che sta diluendo il messaggio cristiano della «conversione» per accogliere nei cuori il Regno di Dio, nei miraggi terrestri della civiltà dei consumi. Ci si domanda, sbigottiti, come si è potuto giungere a questo scambio o piuttosto a una siffatta mistificazione: quella cioè di travasare il vino nuovo del Vangelo negli otri vecchi dei miraggi economici e sociologici, di risolvere la liberazione dal male oscuro del peccato nella rivendicazione della giustizia sociale e d’interpretare – come fa molta teologia postconciliare del Nord – il messaggio della libertà evangelica come donazione dell’anima a Dio, ma nell’indipendenza da ogni autorità, e quindi con un esplicito ritorno a Lutero nel chiedere lo scioglimento dei voti religiosi e del celibato e nel mettere in discussione – anzi sotto accusa – la stessa autorità del Vicario di Cristo.


Il pericolo, che oggi dilaga quasi indisturbato ed a macchia d’olio, non è però di oggi ma risale molto addietro e penetra si può dire la cultura degli ultimi tre secoli con esplosioni e ribellioni a catena di cui l’ultima e più nota è stata il Modernismo, fermato dall’intrepido intervento di S. Pio X con l’Enciclica Pascendi del 1907. Non è difficile intravvedere negli attuali movimenti centrifughi del secolarismo antropologico la ripresa dei temi e principi del Modernismo ad un livello più radicale ed universale. L’intento però di queste umili righe non vuol essere polemico, ma unicamente una espressione di accoramento per quelle che consideriamo il danno irreparabile che questi teologi stanno facendo alle anime cristiane col proporre il messaggio di Cristo sfrondato del mistero della Croce, della rinunzia al mondo ed ai suoi beni umbratili, per ingolfare anche il cristiano nella cura delle preoccupazioni terrene come direbbe Heidegger.


Vogliamo soltanto portare una testimonianza di rivendicazione dell’autentico messaggio della Croce, della sofferenza cristiana, da parte di Sören Kierkegaard ch’è stato certamente uno dei più profondi indagatori del mistero di Cristo in tutti i tempi e che ha proclamato, richiamandosi alla tradizione genuina della spiritualità e mistica cristiana, la necessità per il cristiano d’imitare l’Uomo-Dio nella rinunzia al mondo e nel seguirlo per la via regia sanctae crucis secondo l’aureo libretto medievale.


Kierkegaard accusa, com’è noto, la cristianità protestante e lo stesso Lutero di aver falsificato le carte in tavola, cioè di aver tradito il Vangelo eliminando l’ascesi, la vita religiosa, il celibato… ossia di essere venuti a patti col mondo e di aver rifiutato lo scandalum crucis. Molti suoi «Discorsi edificanti» girano attorno a questo tema, specialmente quel gioiello ch’è il «Vangelo delle sofferenze», accessibile ora anche ai lettori italiani[1]. Ma è soprattutto nel grande Diario che la sua aspirazione al Cristianesimo autentico della conformità con Cristo si manifesta nei bagliori crescenti di una continua ascesa fino al sospiro del cupio dissolvi et esse cum Christo di S. Paolo. Ma questa volta vogliamo limitarci a riferire, in modo scarno e sparso, il tema e la trama del suo capolavoro cristologico ch’è l’Esercizio del Cristianesimo del 1850.


Il tema è il rifiuto di Cristo, che il mondo ha fatto e continuerà a fare nei secoli, della sua vita e del suo messaggio. L’origine remota e più profonda può essere indicata in una precisa «esperienza di Cristo crocifisso», avuta (sembra!) dal piccolo Sören davanti ad una vetrina di rigattiere, in una delle frequenti passeggiate col padre e che Kierkegaard si compiace di evocare ripetutamente proprio mentre stende l’Esercizio: «Prendi un bambino che non sia stato guastato dalle chiacchiere e da quell’insegnamento a filastrocca che Cristo è stato crocifisso… Prendi cotesto bambino, presentagli dei ritratti di uomini celebri: un uomo a cavallo col cappello a tre punte, Alessandro, Napoleone e simili, e mescola queste immagini con quella del Crocifisso. Il bambino domanderà come per le altre: “Questo chi è?”. Di’ allora: “Era l’uomo più amoroso che sia mai esistito”. Il bambino domanderà: “Ma allora chi l’uccise e perché?”. Oh, se anche quando sarà diventato vecchio, avesse l’uomo conservato qualcosa della sua infanzia! Che commozione non proverebbele quando, passando davanti a un rigattiere che tiene in vetrina del figurine di Norimberga, vedesse questa frammischiata alle altre!»[2].


Quest’impressione sta all’origine dell’Esercizio del Cristianesimo e lo domina come un’accusa sospesa sulla cristianità con l’impeto dello stile degli antichi Profeti: essa infatti ritorna nel libro, ma lo stile è più sciolto e la perorazione più ampia. Ma nella conclusione l’impeto della protesta riprende il tono antico e ritorna in tutta la sua veemenza. Ecco:


«Una volta che il bambino sarà diventato un giovanotto, non dimenticherà l’impressione dell’infanzia, ma la intenderà in modo diverso: capirà che non è possibile realizzare il proposito dei suoi primi anni quando dimenticava i 1800 anni; ma penserà con la medesima passione la necessità di lottare contro il mondo che sputa sul Santo, contro il mondo che crocifigge l’Amore e chiede che il brigante sia graziato.


Qualora poi giungesse il bambino all’età matura, non avrà dimenticato di certo l’impressione ricevuta nell’infanzia, ma la interpreterà in modo diverso. Non desidererà più di colpire: perché [direbbe] io allora non avrei più nessuna somiglianza con lui, con l’Umiliato, il quale non colpì, neppure quando fu percosso. No, egli non desidererà ora che una cosa soltanto: di soffrire possibilmente quasi com’Egli soffrì in quel mondo che i filosofi hanno sempre chiamato il migliore, il quale però – sì, può darsi che ciò ch’è vero in filosofia non lo sia in teologia – crocifigge l’Amore e grida: “Viva Barabba!”. Spesso in situazioni di minor conto il mondo ha dimostrato che non soltanto colui che vuole umanamente il bene è votato alla sofferenza, ma anche – per amore del contrasto così caro al mondo e per accentuare quanto il mondo stia agli antipodi del bene – che c’è facilmente fra i contemporanei quel miserabile, quell’essere abietto che, per spirito di contraddizione, viene acclamato con evviva.


Se lo spettacolo di quell’abbassamento può commuovere a questo modo, non potrebbe commuovere così anche te? Se ciò ha scosso gli Apostoli che non seppero e non vollero sapere nulla, se non Cristo e Cristo Crocifisso (I Cor. 2, 2), perché non potrebbe commuovere anche te? Da questo non segue che tu diventerai un apostolo, quale temerità! No, ma solo che tu puoi diventare un cristiano. Se quello spettacolo commosse quei santi gloriosi che la Chiesa ricorda come suoi padri e maestri i quali, con l’Apostolo, non seppero e non vollero saper nulla se non Cristo e Cristo Crocifisso, non può commuovere allo stesso modo anche te? Tu non diventerai per questo uno di loro, o presunzione!, ma potrai diventare semplicemente un cristiano. Infatti perché quello spettacolo li commosse a quel modo? Perché essi lo amavano. Perciò essi scoprirono le sue sofferenze; poiché solo colui che l’ama comprende ch’egli era l’Amore, e solo costui può rendersi conto com’egli soffrì, di qual duro e di qual tremendo martirio, e come soffrì: com’era dura, straziante quella Passione, e quanto soffrì! Quanto soffrì! quanto giusta era la sua causa, e quanto egli soffrì! Che ingiustizia! Se questo spettacolo non ti commuove, è segno che tu non lo ami. Perciò, chissà che questo spettacolo di Cristo umiliato nella sua sofferenza, non possa ancora spingerti ad amarlo. Quand’è così, cerca di poter contemplare questa scena un’altra volta e allora questo commuoverà anche te al punto di voler soffrire a somiglianza con lui il quale dall’alto vuole attirare tutti a sé»[3].


Certo, Kierkegaard non gode di buona stampa fra i nostri teologi del progresso che corrono a frotte a «demitizzare» il Vangelo cioè a nascondere la Croce ed a togliere al messaggio di Cristo il pungolo della compunzione, a tacere sul pentimento dei peccati e sull’orrore del giudizio dell’eternità. Ma non è questo un sintomo chiaro che questa teologia, finora sconosciuta nella storia del Cristianesimo, sta tradendo il messaggio evangelico?

http://www.corneliofabro.org/documento.asp?ID=666

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