DON ANTONIO

martedì 29 maggio 2012

FEDE, ULTIMA STAZIONE



Un filosofo e un teologo parlano del futuro del cristianesimo, della crisi del nostro tempo, della speranza e delle questioni che un tempo, con una parola suggestiva, si chiamavano i "novissimi", le cose ultime. Il filosofo è Vincenzo Vitiello, il teologo è Bruno Forte, e ne è nato un libro "La vita e il suo oltre" edito da Citta Nuova e curato da Francesco Tomatis (pagine 128, lire 18.000), che esce in questi giorni in libreria. Il "dialogo sulla morte" di Forte e Vitiello diventa una verifica sulla sofferenza e sulla zona oscura che lega gli uomini in un comune destino, ma nella ricerca di una luce che sappia guidare la risalità dagli inferi. Può il credente evadere da queste domande cruciali, al riparo di una speranza che gli fu confermAta duemila anni fa sul Golgota? E può il laico chiudersi nella stoica accettazione della propria finitezza?

Dal libro anticipiamo alcuni brani del dialogo.

VITIELLO: "Nella piazza Breitscheid di Berlino, accanto al rudere della chiesa eretta in memoria del Kaiser Wilhelm I e distrutta da un bombardamento del 1943, è stata costruita una chiesa più piccola, a pianta esagonale, senza navate e colonne, spoglia, un grande altare, al centro, su cui piove dall'alto una grande statua di Cristo crocifisso. Le braccia del Crocefisso aperte ad accogliere tutti: i giusti e gli empi, i buoni e i malvagi, come recita Mt 5, 34-35. Sempre in Germania, in una chiesa della città di Treviri, se la memoria non m'inganna: la Liebfrauenkirche, anch'essa offesa dalla barbarie della seconda guerra mondiale, ho visto una statua di Cristo mutilato delle braccia. Questo Cristo senza braccia mi apparve, e ancora mi appare, come l'esperienza più alta e più nobile del nichilismo del nostro tempo. Che non è il nichilismo "ludico" che gioca con le cose ridotte a simulacri del nulla. È il nichilismo del "grado zero" dell'esistenza, il nichilismo di chi pensa sino in fondo la finitezza dell'uomo. Il Cristo senza braccia è l'icona oltre-tragica della nuda esistenza, prima della storia e del tempo; l'immagine del deserto nel quale tutto può accadere, tutto deve ancora, sempre ancora, accadere: l'incontro con Dio, come l'abbandono. Il deserto del possibile. Il luogo della nostra miseria, e della nostra nobiltà".

FORTE: "È una costante del tuo pensiero sottolineare l'aspetto tragico della fragilità del nostro esistere. Il mondo, la vita, tutto alla fine cade in questo abisso del nulla. Anche qui io so quanto di fatto poi tu sappia amare e redimere la dignità del frammento. Ma allora perché non esprimerlo? Io a questo punto vorrei tentare un'apologia del frammento, io che sarei, in quanto teologo, credente, sacerdote, l'uomo dell'eterno, vorrei tentare un'apologia dell'umiltà del tempo, della fragilità dell'oggi, della concretezza della carne, che per un

cristiano sono tutti valori irrinunciabili. Io amo dire che il cristianesimo non è la religione della salvezza dalla storia, ma della salvezza della storia. L'umiltà dei giorni, le opere e i giorni della nostra vita hanno un infinito valore. Parlare del niente del tempo ancora una volta tradisce, se non altro perché crea l'equivoco. Usare una parola che tu consideri equivalente al nulla, tanto per l'eterno quanto per il tempo, crea equivoco. Allora anche qui occorre trovare una diversa formulazione per dire come proprio chi dà valore all'al di là della morte come custodia, al mistero che ci accoglie, deve dare anche valore alla fragilità del tempo. Insomma, "la vita è bella" - questo mi sembra tra l'altro il messaggio del film di Roberto Benigni: che anche di fronte alla tragedia la vita è degna di essere amata, spesa fino all'ultimo istante con amore. E questo lo può dire chi pensa che l'al di là della morte non sia il vuoto e il nulla, ma sia un Altro misterioso e indicibile che ci accoglie".

VITIELLO: "Riportata a noi, l'immagine del Cristo senza braccia è l'icona perfetta della nostra impotenza, del "grado zero" dell'esistenza, che diciamo nostra perché ad essa apparteniamo. Perché di essa siamo fatti - ma è meglio dire, è più adeguato dire: di essa siamo. Il nostro essere è questo "grado zero", tutto il resto è un'aggiunta: un dono, talora, tal'altra una disgrazia, quando non una dannazione. Comunque un'aggiunta. Pure al "grado zero", che noi stessi siamo, possiamo giungere solo spogliandoci - ma è un compito infinito

- di tutte le "aggiunte". E questo non dipende da noi. Ci accade. Come, quando? Rispondo con Paul Ricoeur: nella sofferenza. Che è più del dolore. La sofferenza è quella partecipazione alla finitezza altrui che ci apre alla comprensione della nostra finitezza. Al "cristiano" è richiesta l'impossibile imitazione di Cristo. Per avvicinarsi ad essa, è necessario "sostare" ai piedi della Croce. Non considerarla come un "passaggio". E poiché è dono, questa finitezza, custodirla, serbarla, salvarla - non redimerla. Questo - penso - sia il modo di rendere grazie per il dono concesso. È il "mio" modo di sentirmi cristiano, di essere cristiano. Che non è atteggiamento solitario, anche se non dimentica il pregare nascosto, il digiunare nascosto, anche se non dimentica la radicale, irriducibile alterità della Parola di Cristo rispetto alla Città terrena. Non è atteggiamento solitario, chiuso in se stesso. È un aprirsi all'altro come partecipazione alla comune sofferenza. Un'amicizia - "non vi chiamo più servi (...) ma amici" (Gv 15, 15)".

FORTE: "Quello che mi sembra veramente mancare alla tua filosofia è il sabato santo.

Essa si ferma al venerdì santo. Non si tratta di stare sotto la croce e fermarsi lì, si tratta di stare nel sabato santo, cioè fra la croce e la Pasqua, quello è il punto. La differenza fra il sabato santo e il cristianesimo senza redenzione è che il sabato è il tempo in cui il corpo del Figlio di Dio giace nella terra, ma noi sappiamo che il Figlio di Dio è vivo e immortale, è il tempo in cui noi viviamo la contraddizione fra il visibile che nega l'immortale e l'immortale che è entrato così abissalmente nel visibile da nascondersi in esso. Il sabato santo è come il seme dell'eternità nascosto nel terreno del tempo. È questo che ci fa sperare con certezza la vita eterna: stare nel sabato santo. E sappiamo che secondo la tradizione spirituale solo un credente, anzi una credente ha resistito nel sabato conservando la fede: perciò noi la veneriamo come santa Maria del sabato, è lei la donna della fede, la donna della notte della fede, la donna dell'attesa della vittoria di Dio contro l'inevidenza di Dio".

VITIELLO: "Forse dobbiamo riprendere il discorso muovendo, insieme, dal pensiero di quella dimensione dell'esistenza che è l'indigenza assoluta. Sì, credo che dobbiamo ri-partire da qui, dalla riflessione sul "grado zero" dell'esistenza. Dal luogo donde può avvenire la chiamata. Ma senza pretendere che la risposta sia nostra, affidata a noi. Per parte mia sono disposto a non incolpare Dio perché non mi chiama, e neppure perché chiamandomi, non mi ha dato la forza di corrispondervi. Da tempo sono convinto che tutta la "teodicea" - il tentativo "umano troppo umano" di spiegare come mai un Dio infinitamente buono possa

permettere il male - è fondata su un presupposto sbagliato. Soltanto un Dio infinitamente buono può sopportare il male: la presenza del male è la testimonianza più alta della infinita bontà di Dio".

FORTE: "Abbiamo bisogno di verità, abbiamo bisogno di stare sotto lo sguardo di Dio. E verità significa l'Altro che viene a te. È questo il punto che sto invano tentando di far capire a te, Vincenzo, da anni. Confido nella grazia di Dio. Perché l'Altro è l'Altro. Parlando di Dio uso certo parole umane, ma sono autorizzato a farlo dal fatto che lui ha usato parole umane per dirsi a noi. L'incarnazione, la croce, la resurrezione sono questo paradosso, che lui si è legato nelle parole, perché noi lo dicessimo, pur senza catturarlo: il suo legamento è come il legamento di Isacco; noi usiamo parole umane, ma che sono abitate da Colui che le trascende. Ma alla questione del male e di Dio tu stesso, Vincenzo, hai dato la risposta.

Soltanto un Dio infinitamente buono può sopportare il male. Questa è la sofferenza in Dio.

Non una sofferenza nel senso di un Dio debolista, ma la sofferenza di un Dio che è infinita potenza d'amore, e che proprio perché è tale e ci ama così, ci crea liberi di rifiutarlo e accetta di soffrire il nostro rifiuto. Però non è una sofferenza passiva, subita, com'è l'idea occidentale di sofferenza, ma una sofferenza d'amore: "Sine dolore non vivitur in amore" dirà la sapienza spirituale, in questo caso l'Imitazione di Cristo. La sofferenza è l'altro

nome dell'amore, dobbiamo parlarne con pudore e discrezione. Proprio perché si può cadere nell'equivoco di interpretarla in termini umani troppo umani, come soltanto sofferenza subita e passiva. Qui si spiega il senso della frase del Catechismo di Pio X: "Gesù ha sofferto come uomo perché come Dio non poteva né soffrire né morire". Nel contesto culturale del tempo c'era solo la concezione della sofferenza passiva, quella occidentale. L'idea di una sofferenza attiva: "Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici" (Gv 15, 13), non c'era. È la riscoperta di quest'idea che ci fa capire la sofferenza in Dio. Queste cose le espone con una grande chiarezza Jacques Maritain, il filosofo neoscolastico, in quell'articolo scritto dopo la lettura del diario della moglie Raissa appena scomparsa, dove ci sono pagine stupende sulla sofferenza in Dio - che è la vera metanoia della sua filosofia: Quelques rèflexions sur le savoir théologique, dove dice che la sofferenza in Dio è forse la cartina da tornasole per vedere se noi abbiamo subordinato la Bibbia ad Aristotele o a Hegel, o se abbiamo mantenuto la purezza dello scandalo evangelico e cristiano".


http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010427a.htm

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