DON ANTONIO

martedì 8 maggio 2012

SOFFERENZA Approccio teologico



1. Introduzione - 2. Fenomenologia della sofferenza (2.1. L’esperienza - 2.2. Analisi riflessiva - 2.3. Analisi esistenziale) - 3. La proposta biblica: da problema a mistero (3.1. Sguardo generale - 3.2. Alcuni schemi interpretativi - 3.3. La figura di Giobbe - 3.4. Il NT: Gesù Cristo) - 4. Sintesi teologico-pastorale (4.1. Il significato teologico della sofferenza di Cristo - 4.2. La trasformazione di senso della sofferenza dell’uomo “in-Cristo”) - 5. Conclusione.
1. Introduzione
In un confronto che la teologia voglia stabilire con la realtà e il problema del dolore, si dovrà tener conto di due osservazioni che oggi le si muovono in quest’ambito: un primo rimprovero riguarda la scarsa attenzione che la teologia ha mostrato per una descrizione scientifica di tale esperienza. In concreto si fa osservare che è mancato uno studio fenomenologico: “Nella teologia recente manca un serio impegno nell’analisi della figura del soffrire umano in genere, e più in particolare del soffrire del nostro tempo”, sicché “domina una produzione di carattere soltanto divulgativo... o per meglio dire approssimativo” (Angelini G., 1986, 13). La seconda osservazione va rivolta ai numerosi contributi che la teologia ha dedicato al tema del dolore nei due ultimi decenni: si tratta certamente di lavori di notevole spessore critico, il tema tuttavia per lo più è considerato nella sua immediatezza, nel suo significato e nelle sue cause, senza includerlo in un più ampio quadro teologico di riferimento.
Si può avanzare una terza osservazione e che ha una particolare rispondenza nella pastorale sanitaria: il persistere di certe interpretazioni della croce di Cristo e della sequela del discepolo ha dato adito a critiche alla religione cattolica, come se questa fosse avversa alla vita, provocando “alienazione dell’identità personale e legit¬ti¬mazioni ideologiche di tutto ciò che è ostile alla vita” (Wiederkehr D., 1989,174; Id. 1983, 173-174) e in tal modo promuovendo un atteggiamento di passiva rassegnazione dinanzi alla sofferenza.
L’esposizione seguirà un movimento di pensiero che, partendo dall’analisi fenomenologica del soffrire umano, si sofferma sull’interpretazione teologica e spirituale che la rivelazione fornisce di quest’esperienza drammatica. Una conclusione di carattere teologico-pastorale tenterà d’inserire quel significato nel quadro globale dell’antropologia teologica.
2. Fenomenologia della sofferenza
Volendo descrivere il concetto dell’umana sofferenza, sorge il reale sospetto sulla possibilità d’una tale impresa. Finché si parla del dolore nella prospettiva delle scienze naturali e delle scienze umane, il discorso è chiaramente possibile: la scienza medica, ad esempio, dispone di bastanti elementi per dare una definizione sufficientemente esatta del dolore fisico. Anche la psicologia ha elaborato strumenti che consentono l’accostamento alla dimensione psichica del soffrire. Ma quando si tratta del dolore dell’uomo in quanto è esperienza dolorosa della persona, finora né filosofia né altre scienze umane sono riuscite – e vi riusciranno mai? – a dare una risposta soddisfacente.
In alcuni recenti studi, è stata ripresa la distinzione tra “problema” e “mistero” elaborata da Gabriel Marcel, applicandola al nostro argomento (Grelot P., 1982, 102-103; Labbé Y., 1994, 513-529). La stessa lettera apostolica Salvifici doloris, pur non facendo riferimento a questa distinzione, parla della “dimensione soggettiva” dell’umana sofferenza come distinta dalla sua “realtà oggettiva”. Della prima afferma che si tratta d’un “fattore personale, racchiuso nel concreto e irripetibile interno dell’uomo”, per cui “sembra quasi ineffabile e incomunicabile al tempo stesso”. Mentre l’altra è ritenuta conoscibile, poiché questa “esige che sia trattata, meditata, concepita nella forma di un esplicito problema, e che quindi intorno ad essa si pongano interrogativi di fondo e si cerchino le risposte” (n.5). È chiaro, comunque, che il nostro tema riguarda la sofferenza umana soprattutto nella sua prima prospettiva, poiché si vuol comprendere l’atteggiamento d’assumere di fronte ad essa quando si è personalmente coinvolti: quando – vale a dire – l’uomo è “dentro” quell’esperienza, o a titolo personale o per un umano ed evangelico coinvolgimento di “compassione”.
2.1. L’esperienza
Posto in questa prospettiva, il mondo dell’umana sofferenza appare un fenomeno vasto, che ha cause varie e molteplici, che assume le forme più svariate, sì che riesce difficile restringerlo entro i termini d’una descrizione. Pare che un tal genere di sofferenza, per esser descritta e compresa, ammetta solo il linguaggio narrativo e simbolico, mal sopportando le strette maglie d’una forma concettuale e intellettiva del sapere. Eppure si chiarisce a mano a mano che la si accosta: richiede un atteggiamento di misura e di rispetto, di serietà, perché tocca il mistero dell’uomo, e tocca anche il mistero di Dio.
Un primo passo da compiere, è il richiamo alla propria esperienza: evocare esperienze dolorose di cui si è a conoscenza o che si siano personalmente attraversate. Ciò non è davvero difficile, poiché è un’esperienza ampia, che evoca dolori fisici, morali e spirituali. Evoca malattia e morte, fatica e solitudine, paura e tedio della vita, noia e non senso dell’esistenza, insuccessi e fallimenti, emarginazione, isolamento, violenza, oppressione, guerra e fame, ingiustizie e oppressioni, inimicizie, amicizie tradite, soprusi e inganni, colpa, peccato e sensazione di abbandono da parte di Dio.
La SD (n. 6), descrivendo il “mondo dell’umana sofferenza”, riporta dall’Antico Testamento un’elencazione di situazioni ampiamente rappresentative dell’invadenza del dolore: “il pericolo di morte, la morte dei propri figli e, specialmente, la morte del figlio primogenito ed unico, e poi anche: la mancanza di prole, la nostalgia della patria, la persecuzione e l’ostilità dell’ambiente, lo scherno e la derisione per il sofferente, la solitudine e l’abbandono... i rimorsi di coscienza, la difficoltà di capire perché i cattivi prosperano e i giusti soffrono, l’infedeltà e l’ingratitudine da parte degli amici e dei vicini, le sventure della propria nazione”. E poi aggiunge: “Questo elenco diversificato certamente non esaurisce tutto ciò che in tema di sofferenza ha già detto e costantemente ripete il libro della storia dell’uomo (questo è piuttosto un libro “non scritto”), ed ancor più il libro della storia dell’umanità, letto attraverso la storia di ogni uomo” (SD 7): come a dire che il dolore è una specie di seconda natura. Concretamente, la memoria di un uomo è memoria di sofferenza o memoria passionis.
2.2. Analisi riflessiva
Ma occorre procedere oltre l’esperienza, e attraverso la riflessione far emergere il significato che questi eventi assumono per la persona che li patisce: cosa accade nell’interiorità della persona sofferente?
La prima caratteristica del soffrire dell’uomo è il porsi una domanda: “perché?”. È “un interrogativo – a giudizio della SD (n. 9) – circa la causa, la ragione, ed insieme un interrogativo circa lo scopo e, in definitiva, circa il senso”. Pare che in questo domandare stia il contenuto propriamente umano della sofferenza (Breton S. 1983, 65-96). L’uomo dunque non è puramente passivo dinanzi al dolore, ma vi esercita una “specifica attività” (SD 7) che – dal punto di vista psicologico – si esprime in maniera differenziata: dolore e abbattimento, tristezza e delusione, disperazione o rassegnazione, e che sono tutte manifestazioni d’una esperienza del male. Perché anche se è vero che la sofferenza non s’identifica con il male, ad esso comunque rimanda: l’uomo soffre “quando sperimenta qualsiasi male” (SD 7). In effetti l’uomo soffre quando gli viene a mancare un bene, quando ne è privato o egli stesso se ne è privato. Non è infatti comprensibile la sofferenza se non sullo sfondo della gioia di esistere: soffre solo colui per il quale esistere significa innanzitutto gioire dell’esistenza.
Eppure, la sofferenza non può – o almeno non ogni genere di sofferenza – esser ridotta a “privazione” di un bene dovuto, perché infine essa è distruttrice: è positivamente devastante, è una forza che abbatte quanto di positivo e di bello era stato costruito o si andava progettando. Taglia le radici della speranza: e cos’è più un uomo, una donna privati della speranza? La riflessione mette così in luce l’aspetto eminentemente personale della sofferenza: anche se due soggetti patiscono il medesimo dolore, ciascuno lo patisce in maniera personale, corrispondente alla sua indole e al suo carattere, alla sua cultura e alla sua educazione, alla sua esperienza della vita, alla sua memoria del passato e ai suoi progetti per l’avvenire.
Si deve anzi aggiungere che la sofferenza ha un carattere di incomunicabilità: ciascuno sta chiuso nel suo dolore, e stupisce a volte non dico la leggerezza, ma certo la facilità con la quale si pretende “partecipare” alla sofferenza dell’altro, “sintonizzandosi” sulla lunghezza d’onda di chi è nel dolore. Ciò non significa che all’uomo non riesca di partecipare all’altrui dolore, il che anzi gli è comandato. Occorrerebbe però prima precisare cosa s’intenda qui per “partecipazione”, a quali condizioni vi si pervenga e quale cammino richieda. Sarebbe illuminante, a tal proposito, un richiamo al sentimento di “compassione” come lo comprende la rivelazione biblica. Un terzo elemento che mette in luce quest’analisi, è la globalità del fenomeno della sofferenza: questa può colpire l’uomo nell’una o nell’altra delle sue dimensioni – organica, psichica o spirituale – ma è sempre la totalità della persona che ne è coinvolta: è la persona umana che soffre, e non soltanto – né tanto – una sua parte.
Anche certe distinzioni che riguardano il concetto di sofferenza, sono utili per una più appropriata comprensione del fenomeno. Ma è chiaro che le distinzioni che ora richiameremo – e le altre che si potrebbero introdurre – si riferiscono all’aspetto esteriore della sofferenza, visto che, nella sua realtà profonda l’umano patire fa tutt’uno con la soggettività personale. Tuttavia, una volta tenuto ben presente questa realtà, quelle distinzioni aiutano a capire in maniera più diversificata l’originalità dell’esperienza dolorosa dell’uomo.
Utili sono le distinzioni che si riferiscono alle differenti dimensioni della persona umana: organica, psichica, spirituale o, più in generale, la distinzione tra sofferenza “fisica” e sofferenza “morale”. Giovano a comprendere la causa o il motivo originante, che poi è da riportare, come è stato detto, alla interezza della persona umana. Un’altra distinzione che illumina per diversi aspetti il tema del dolore umano, è quella che la SD stabilisce tra l’aspetto “personale” e quello “interumano e sociale” (n. 8). Pur tenendo presente quanto abbiamo detto a proposito del carattere eminentemente personale del soffrire, il richiamo alla dimensione collettiva e sociale dell’umano patire aiuta a definire certi fenomeni: la sofferenza costituisce una sorte di “mondo specifico”, un universo a sé, dove l’esperienza della persona singola si coniuga a quella degli altri. Ne risulta una certa compattezza di quest’ambiente, che stabilisce una somiglianza tra le persone che soffrono: analogia di situazioni, bisogno di comprensione e di premura, dove tutti sono accomunati dal medesimo interrogativo sul perché del soffrire. È un mondo tipico, che diviene appello alla solidarietà e alla comunione.
Ancora due distinzioni possono giovare in maniera significativa alla comprensione del fenomeno: la sofferenza nella sua dimensione storica e in quella geografica. Il mondo del dolore, infatti, si addensa sia in alcune epoche storiche che in certe aree geografiche. Se è vero che la sofferenza è un fenomeno generale e neutro, che investe l’umanità in tutte le sue epoche e in tutti gli spazi dove essa vive, è altrettanto vero che alcuni popoli, così come alcuni spazi del nostro pianeta, patiscono, o hanno patito, in misura maggiore rispetto ad altri. Ciascun’epoca, inoltre, come ogni area culturale, ha anche un suo modo di soffrire. Questo sta a indicare che la sofferenza è anche un problema di cultura, poiché cambia la sua forma a seconda delle epoche e dei popoli (Labbé Y., 517-518.524-526). La nostra epoca, ad esempio, vede “l’accumularsi in maniera particolare la sofferenza del mondo” perché si tratta d’una società segnata da una profonda ambivalenza: trasformata dal progresso tecnico-scientifico vertiginoso, che paradossalmente è esso stesso causa di errori e di colpe (SD 8).
2.3. Analisi esistenziale
L’analisi esistenziale offre preziosi contributi per la comprensione di “come è l’uomo nella sofferenza” (Scheler M. 1983; Alfaro J. 1991, 9-24). Se si tiene presente che la persona umana affiora all’esistenza, ossia attua la propria esistenza sotto l’impulso del desiderio di vita, che chiede d’essere inverato in un progetto specifico, e realizza poi tale progetto stabilendo una trama di rapporti con gli altri, con le cose e con l’ambiente, con se stesso e fondamentalmente con Dio, ci si rende conto di quel che avviene nel suo spazio interiore quando è sorpresa e invasa dalla sofferenza. Quel desiderio di vita e quel progetto di esistenza vengono ora messi in discussione, se non addirittura frantumati. La sofferenza viene vissuta innanzitutto come negazione di quel dinamismo vitale. Il lamento del sofferente esprime la rottura della comunicazione con la realtà della vita.
Possiamo chiarire quest’affermazione ricorrendo agli studi sulla sofferenza derivante dallo “stato di malattia”, vedendo in essa un tipo emblematico dell’umano soffrire. Ora, all’analisi riflessiva (Ortemann C., 1971, 95-105), la malattia risulta come “una forma dell’esistenza concreta, non riducibile a pura accidentalità organica”. Dal punto di vista della fenomenologia, lo stato di malattia si esprime come sofferenza e debolezza. Per il malato diviene essenziale l’ansia di ciò che verrà dopo. Sul piano prettamente psicologico, si verifica un restringimento del proprio mondo, un atteggiamento egocentrico, di tirannia e di dipendenza allo stesso tempo. Ad un livello più profondo, nello spazio interiore, si possono intravedere:
a) Una rottura dell’unità soggettiva: si verifica una frattura tra “corpo” e “cogito”. Il corpo si degrada in “oggetto di rappresentazione”, si estranea al soggetto procurando una condizione di alterità e di estraneità. Stati psicosomatici, quali l’affaticamento, la febbre, il dolore, evidenziano una rottura dell’unità personale, una disarmonia interiore;
b) Nei confronti degli altri e delle cose, il malato vive una crisi della comunicazione e dei rapporti interpersonali. La malattia infatti costringe il malato ad un’attenzione quasi esclusiva a se stesso, che di per sé comporta l’oscuramento della coscienza degli altri. L’universo si restringe alla propria stanza. Si ha una forte presa di coscienza della dipendenza da altro-da-sé, che è perdita d’autonomia;
c) La malattia procura una forte esperienza del limite: è noto che quest’esperienza nasce fondamentalmente dall’inadeguatezza dell’io con se stesso, ci è dunque connaturale e sempre accompagna la nostra coscienza. Ma nella condizione patologica c’è una maniera specifica, concreta ed immediata di sperimentare la fragilità radicale del proprio essere. È esperienza del limite della vita, nella sua durata e nella sua qualità, nella sua efficacia. Per questo l’idea di morte è sempre presente, sia pur in forme e a livelli di coscienza diversi, in ogni tipo di malattia;
d) Un sentimento di derelizione sopravviene in genere allo stato di malattia, specie se questa va aggravandosi né si vede una via d’uscita. È il sentirsi abbandonati, “gettati via” dalla vita, come ultima e riassuntiva conseguenza. Sono vari stati d’animo che vi conducono: l’ansia del dopo, il senso di noia e di frustrazione, il vuoto esistenziale, la sensazione d’inconsistenza del tutto, la paura, il tedio, la tristezza.
È tutto un cammino – la “discesa nello sheol, nella fossa, nell’abisso”, direbbe il salmista – che porta verso l’annientamento della personalità. È uno stato d’angoscia che minaccia d’invadere tutto lo spazio interiore della persona. Se manca un senso a tale situazione, è facile cadere nello scoramento, nella ribellione o nella disperazione. Tutto dipende, quindi, dal trovare un senso in questa esperienza. “È proprio della sofferenza porre l’interrogativo” afferma la SD. Anche la domanda che suscita la sofferenza nasce dalla potenzialità dello stupore, dell’inquietudine (SD 10). Si può, allora, scoprire un significato nella sofferenza?
Come l’uomo è “creatura di desiderio”, così la sofferenza – che ne è il rovescio – mette in discussione quel desiderio; e come il punto esclamativo può esser preso quale sigla interpretativa dell’uomo nel suo gioioso proiettarsi nell’esistenza, così il punto interrogativo può significare il contorcimento sfigurativo cui la persona umana è ridotta dalla morsa della sventura: l’uomo è stato ridotto ad un punto interrogativo, figura nella quale si esprime l’immedesimazione della persona umana con il suo dolore. Quest’interrogativo sulla sofferenza, è innanzitutto una provocazione che mette l’uomo in questione. Nel suo primo momento, è il tentativo di rimuovere il carattere di estraneità che riveste la sofferenza: l’uomo sa che se riesce a trovarvi un senso, è liberato dal sentimento di estraneazione e d’isolamento che il dolore porta con sé. Il dolore infatti, se è privo d’un significato, isola, separa dai rapporti costitutivi della trama dell’esistenza. Per questo la scoperta d’un senso in una situazione di dolore, equivale in un certo senso ad una nuova nascita, ad una rinnovata scoperta del valore della vita, di altri orizzonti.
In secondo luogo, mettendo l’uomo in questione, la sofferenza lo provoca a uscire da se stesso, a superarsi dallo stato attuale per cercarsi altrove, a cercare in “altro” il termine della propria identificazione, a comprendere in maniera diversa il suo progetto di vita, il suo destino. La capacità di soffrire dell’uomo, infatti, è data dalla sua autocoscienza. L’esperienza del dolore può far entrare nella coscienza di sé, ed è noto come la coscienza del dolore sofferto è parte integrante della propria autocoscienza, fino a costituire un elemento di crescita – o di regressione! – della maturità umana. C’è senza dubbio del vero nell’affermazione di Hegel: “Ogni coscienza di vita è coscienza del male della vita”, come a dire che l’uomo allora si apre effettivamente alla coscienza quando sperimenta un male.
In terzo luogo, la sofferenza chiama all’auto¬trascendimento, al superamento di se stesso. Ciò è manifestato proprio dal fatto che la risposta che l’uomo riesce a trovare, è sempre insufficiente, insoddisfacente, sempre al di sotto della realtà. Più grande e pieno di mistero è il dolore, più fortemente si è rimandati a cercar oltre, a trovar risposte sempre differenti, che per lo più sono differenti da quello che ci si attendeva. La SD sostiene che “la sofferenza è tanto profonda quanto l’uomo, ... perché manifesta, a suo modo, quella profondità che è propria dell’uomo, ed a suo modo la supera... Essa è uno di quei punti nei quali l’uomo viene in un certo senso destinato a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso” (n. 2). Molte volte ritorna, nella SD, il concetto di sofferenza come “appello”, come “chiamata”, come “compito” (nn. 2.19.22.23.26) per indicare, nelle varie esperienze di dolore, questo carattere provocatorio, di appello per il proprio essere e per il proprio divenire, per la stessa autocomprensione: la sofferenza rivela che l’uomo è “più” di quel che egli riteneva d’essere, e soprattutto che lo è in una direzione diversa da quella che egli avrebbe pensato.
Ma, ciò ammesso, si dirà che l’uomo potrà sempre trovare un senso alla sua sofferenza? A parte il fatto che la SD stessa dirà che la percezione d’un senso nella sofferenza richiede determinate condizioni (n. 13), già l’umana esperienza ci dice che certamente ci sono esperienze di dolore dotate di senso, ossia situazioni di sofferenze nelle quali l’uomo è provocato nella sua responsabilità personale. L’analisi esistenziale si pone appunto in questa linea: far emergere il senso di provocazione e di appello insito nella situazione di dolore.
È perciò da dire che ad un livello immediato è relativamente facile vedere sofferenze dotate di senso. In queste situazioni, all’uomo incombe il compito di “lottare contro” la sofferenza e, nel caso si renda conto dell’impraticabilità di questa via, deve vedervi una sfida alla sua responsabilità. Né è così difficile esemplificare in questi casi. Già ad esempio il dolore fisico è “sintomo” d’una alienazione, d’una disfunzione, d’un deterioramento. Funge da campanello d’allarme. La stessa cosa può dirsi di certi dolori o disturbi psichici, di certo malessere o stato d’animo perturbato, che denunciano un danno – o una minaccia – più profondo della personalità, del carat¬tere, dell’intelligenza, della memoria, dei rapporti.
C’è poi il dolore della crescita, della maturazione e dell’educazione: se si vuol raggiunge¬re un determinato sviluppo della personalità, se si vogliono degli obiettivi nella vita, è ne¬cessaria una rinuncia, un impegno, una fatica. Il dolore in tali casi offre l’opportunità per “educere” (cavar fuori) certe energie e potenzia¬lità che altrimenti rimarrebbero inattuate (SD 12). Anche la sacra Scrittura conosce bene questa funzione della sofferenza (Dt 8,5; 1Pt 4, 12-19; Eb 12,7 11,ecc.). Altre volte il dolore ha una funzione purificatrice per il male commesso o il bene non adempiuto, comporta un ristabilimento dell’equilibrio dell’ordine morale e di giustizia. In una prospettiva religiosa, si parla anche d’un dolore che è penitenza per il peccato com¬messo, in maniera che la colpa sia espiata. Oppure il dolore è purificante in quanto dimostra il valore e la giustizia dell’innocente, o semplicemente dimostra il valore della persona: nel dolore si dimostra l’autenticità dell’uomo, chi veramente egli sia e non quello che egli – o gli altri – crede di essere. Il tal caso il dolore è segno di rettitudine.
Certe esperienze di dolore che stimolano a lottare, svolgono una funzione di appello, di provoca¬zione: fanno vedere la vita come compito, come risposta ad una chiamata. Rendono attenti circa la serietà della vita e della morte, circa l’ultimo fine dell’uomo. Riguar¬dano il suo destino. Quante “esistenze” hanno ricevuto la loro configurazione appunto dall’esperienza del dolore, e quante vite hanno trovato, o ritrovato, il proprio significato in situazioni di sofferenze e di sventura. La sofferenza si rivela in tali casi come una chiamata all’at¬tenzione: l’uomo è chiamato a scoprire altri aspetti di sé e della realtà cui prima era as¬sente. Molti sviluppi e progressi della scienza e della vita sono dovuti al dolore.
Il dolore stimola anche all’amore al prossimo. Quanti atti e comportamenti di autode¬dizione, di disponibilità nascono di fronte al dolore altrui: i centri sanitari e i centri di accoglienza in genere, ad esempio, frequentemente sono luogo dove si esprime tanta dedizione generosa. Molte situazioni di sofferenza hanno il loro senso nella responsabilità umana. Dal punto di vista biblico, occorrerà tener conto di quanto afferma il libro delle origini: Genesi ai capitoli 2-3; 4 e 11. Dinanzi a tante sciagure, infatti prima di chiamar in causa Dio valicando i confini dell’umano, l’uomo deve esaminare se stesso, i propri giudizi e comportamenti: quanti mali che devastano il mondo e la storia provengono da egoismi, ambizioni, presunzioni, ambiguità, inadempienze, vigliaccherie, indolenze dell’uomo stesso. Preziose chiarificazioni riguardanti sia la presenza di tanto dolore nel mondo che la sua comprensione si ottengono da una retta teologia del peccato originale.
Queste situazioni elencate – e le molte altre che potrebbero aggiungersi – non sono tut¬tavia sufficienti per affermare che ogni sofferenza ha un suo significato. Basta richiamare la figura emblematica di Giobbe per rendersi conto di quanto fragile sia quella pretesa. E ci si accorge anche di quanto utilitarismo e razionalismo siano a volte caricate quelle in-terpretazioni, se vengono considerate da un punto di vista etico o religioso.
Perché la protesta di Giobbe fa immediatamente apparire il dolore che è semplicemente al di fuori d’ogni orizzonte di significato. Quelle interpretazioni hanno un loro valore fin¬ché si rimane sul piano di dolori domestici, per così dire, ossia a misura d’uomo. Ma in Giobbe emerge la sproporzione, l’eccedenza tra ciò che si va soffrendo e la colpa che si può aver commesso o il bene che ci si può attendere (von Balthasar H.U., 1986, 176-185)
Lo stesso rapporto tra colpa e castigo, peccato e punizione – che rimane lo schema classico della spiegazione della presenza del male nel mondo in molte religioni e filosofie – pur essendo stato accolto dalla sacra Scrittura nella sua epoca classica, viene poi dalla stessa Bibbia messo in discussione: ci si accorge che le proporzioni del male e del dolore sono ben più vaste di quel che potrebbe giustificare l’azione dell’uomo. La responsabilità umana non è sufficiente a dar ragione di tutti i mali. Ciò appare in maniera evidente nel dolore innocente; lo si vede poi in dolori che sono eccedenti rispetto alla misura umanamente giusta e sopportabile. Il dolore umano a volte è davvero insopportabile. Si pensi a certe situazioni di “umiliati e offesi”, di deboli di fronte allo strapotere dei potenti. Il dolore della violenza e dell’oppressione, dell’ingiustizia si-stematica e calcolata. Il dolore delle guerre, delle potenze oppressive e dittatoriali (cosa dire ancora dopo Auschwitz e Dachau?). Il dolore causato da strutture inique di ordine politico, economico e sociale. O anche il dolore causato da morti precoci e inattese: la morte d’una giovane madre, una vita giovane stroncata immaturamente. Ma anche il do¬lore provocato dal disfacimento della vita, da certe forme d’invecchiamento, i dolori di “diminuzione”, il logoramento inesorabile della persona umana; il dolore di certe meno¬mazioni o handicap dove scompare ogni esercizio delle facoltà razionali e coscienti. Il dolore della follia. Il dolore che nasce da sventure e cataclismi improvvisi, o le epidemie che distruggono, attraverso una lenta agonia, interi gruppi etnici (Camus, La peste). Il dolore innocente dei bambini: Ivan Karamazov restituisce il “biglietto d’ingresso” se lo si deve pagare a tale prezzo. Sarebbe sufficiente considerare anche solo il dolore tragico che afferra l’uomo quando è coscientemente messo dinanzi alla morte: la morte che è prima di tutto annullamento, azzeramento, rottura di tutta l’esistenza e dei valori in essa attuati: bontà, verità, amore, sentimenti di gioia e anche di dolore esperiti. Dove vanno a finire?
L’incapacità dell’uomo a trovare un senso nelle situazioni di sofferenza dove il dolore gli appare radicale e definitivo, nasce sia dalla dimensione oggettiva della sofferenza che da quella soggettiva: nella dimensione oggettiva, la sofferenza è “male”, carenza di qualcosa di do¬vuto. Nella dimensione soggettiva – che è l’esperienza umana del male – la sofferenza è vissuta come costringimento, chiusura, limitazione, schiavitù, anonimia, spersonalizzazio¬ne, negazione dell’au¬to¬¬possesso (Angelini G., 1982, 10-11; Botturi F., 1985, 56-65). La malattia, per esempio, s’è visto che di per sé porta alla deper¬so-nalizzazione in quanto l’uomo si vede ridotto a “oggetto di calcolo”, a “problema tecnico”. Bernanos nella sua opera narrativa ce ne ha dato una descrizione impietosa ma realistica: il male è “una cosa estranea”, è “oggetto” presente nel corpo, è “quella cosa, nemica dell’io”. Per questo il malato può giungere a considerare se stesso come un essere abbandonato, “gettato via”: “Che ci sto più a fare?”. Queste situazioni ci risultano completamente inintelligibili, prive di senso perché in es¬se è messa in discussione la totalità dell’esistenza. È in gioco l’uomo come tale: “Vale la pena di vivere? Ci sono ragioni sufficienti per vivere e credere in un mondo del gene¬re?”. Se si è credenti, una tale crisi mette in discussione anche il concetto di Dio, il volto con il quale finora ci era apparso, la sua volontà su di noi: “Chi è questo Dio con cui ho a che fare? Cosa pensa di me, come mi tratta, e perché?” “Dov’è il tuo Dio?” (S1 42,2) “Questo è il mio tormento: è mutata la destra dell’Altissimo” (Sl 77,1). Qual è allora il volto di Dio? Perché non mi risponde? “Fino a quando, Signore, continue¬rai a tormentarmi?” (Sl 83,5) “Perché mi hai abbandonato?” (Sl 22,2; Mt 27,35).
Siamo così rimandati a cercare ancora, lasciandoci interpellare dalla Rivelazione. L’uomo, lasciato a se stesso, non è in grado di scoprire un senso alla sofferenza quando questa assume i contorni d’una esperienza del male in una forma radicale. Questa diviene una provocazione per la trascendenza dell’uomo.
3. La proposta biblica: da problema a mistero
Nella sofferenza, l’uomo è fatto consapevole che la “risposta” non se la può dare da sé, poiché ivi è egli stesso il questionato. Lui, che è ricercatore di senso, è divenuto “domanda”. La sofferenza lo ha aperto ad una possibilità di risposta che egli né si può da¬re né può pretendere. Se la può solo aspettare come “dono”: gli può essere data come “grazia” che diviene poi suo “compito” da sviluppare e attuare. La proposta biblica può apparire imprevedibile e paradossale, eppure risponde alle esigenze più caratteristiche e profonde dell’uomo stesso.
Nessuna spiegazione viene fornita. La Rivelazione sa che si tratta d’un tema d’ordine esistenziale, che non richiede spiegazioni concettuali, né teorie o speculazioni d’ordine teorico. La prima risposta che la rivelazione dà alla sofferenza, è la prassi, l’impegno, la lotta contro la sofferenza stessa. La storia della salvezza ha inizio in una decisione d’inter¬venire da parte di Jahvè a favore del suo popolo che vede oppresso (Es 3,7 10). Giunge, attraverso tutt’una storia di progressivo avvicinamento, all’incarnazione del Figlio di Dio, che s’accosta all’umanità peccatrice e sofferente per sanare ogni sorta d’infermità pren¬dendo su di sé dolore e peccato (Mt 8,17). Questo tuttavia non significa che quella risposta sarà una eliminazione della sofferenza. In essa i testi della rivelazione vedono la presenza d’un mistero che viene illuminato, ma mai cancellato. Appartiene al mistero della vita: illuminato, ma mai pienamente svelato.
Per questo richiede l’atteggiamento di fede: va creduto, com’è creduta la risurrezione, la chiesa e gli altri misteri della dottrina rivelata. Quell’imprevedibilità della proposta biblica, cui si accennava, fondamentalmente con¬siste in un compimento della stessa condizione di finitudine e di peccaminosità della crea¬tura umana, ossia in un assumere e vivere fino in fondo le conseguenze di quelle condizioni. E questo non in maniera esteriore all’uomo, quasi che quell’azione risanante gli passi accanto o vi rimanga al di sopra: bensì in una modalità che la prenda dal di den¬tro. Quanto è avvenuto di bello e di valido, d’imperituro, non deve esser vanificato, perché quel frammento che è l’esistenza dell’uomo nel tempo, ha ricevuto il germe dell’eterno. Determinante è l’intervento di Dio; ma questo non significherà uno scavalcamento della responsabilità dell’uomo. Il superamento della situazione negativa che comporta la soffe¬renza, dovrà essere il frutto congiunto dei due partners dell’Alleanza, sia pur rispettando la specificità dei ruoli: altro è quello di Dio, cui appartiene l’iniziativa e che fonda la stessa possibilità del ruolo dell’uomo, altro è il compito della creatura.
3.1. Sguardo generale
La Lettera apostolica Salvifici doloris vede la Sacra Scrittura come “un grande libro della sofferenza” (n. 6). Raccoglie infatti praticamente tutte le esperienze dell’umano dolo¬re, collocandole all’interno del dialogo che Dio ha voluto stabilire con la sua creatura, un dialogo di “salvezza”, che tende, vale a dire, al pieno compimento dell’esistenza umana collocandola nella comunione con Dio e nell’unione fra gli uomini stessi. Quale atteggiamento assume il testo rivelato di fronte a questa dimensione notturna dell’esistenza, che cosa ne pensa, come la giudica, cosa propone? (von Balthasar H.U., 1989).
Realismo: la parola di Dio innanzitutto guarda con realismo a questa esperienza umana. La vede come un dato di fatto, in un certo senso “fondamentale”, come qualcosa di gene¬rico e di neutrale, che riguarda tutti: cfr. Sir 40,1-9. Praticamente nei testi della parola di Dio sono ri¬portate tutte le situazioni di sofferenza proprie della condizione umana: ma¬lattia, persecu¬zione, esilio, morte, emarginazione, guerre, sconfitte, fatica, solitudine, inimicizie, amicizie tradite, peccato, abban¬dono di Dio, paura e tedio della vita, noia e non senso dell’esistenza. E sarebbe illuminante la riflessione su alcuni di questi temi, rica¬vandone il senso teologico.
Atteggiamento: la Scrittura non intende preservare dalla sofferenza, perché sa che fa parte della vita. Intende guardarla con realismo e serietà. Ne suggerisce quindi un atteg¬giamento di forza. Non che ci si debba rassegnare: tutt’altro! Anzi, se ne attende una libe¬razione. È di qui che nasce l’attesa e la speranza del “Messia”. L’esperienza della soffe¬renza, pur nella varietà delle sue cause e delle modalità di espressione, diventa motivo di impegno e di attesa della liberazione, luogo dove matura la speranza del Dio-salvatore.
Giudizio: quindi ne pronunzia una valutazione negativa: è un “male”, è la man¬canza di qualcosa di dovuto all’uomo. Si legga nel Sir ad es. il valore e l’apprez¬zamento per la “salute” (30,14-20). Non ci dovrebbe essere, perciò richiede un im-pegno di cooperazione con il Dio-salvatore per il suo superamento. Ma la Scrittura sa che in ultima analisi solo Dio può defini¬tivamente sconfiggerla nella sua ori¬gine e nella sua causa ultima.
Alla ricerca di un senso: prima di tutto, la Scrittura sa l’origine di alcuni mali e soffe¬renze: di alcuni di essi c’è la “spiegazione” e quindi è necessaria l’accettazione: es. le an¬gustie proprie della vita umana, come la vecchiaia, la malattia. Altre volte è chiaro il rap¬porto con il pec¬cato. Oppure la causa è “Satana”. O ancora è il limite della condizione umana: l’uomo è un es¬sere finito, deve quindi avere la fortezza e il coraggio di accettare la propria condizione, e an¬che la consapevolezza delle proprie responsabilità nei con¬fronti di tanti mali.
Lo “scandalo” però nasce di fronte al dolore innocente. La scrittura non può darne una spie¬gazione dualistica, e sa che l’ultima ragione di quanto avviene è in Dio. Dunque, è “mistero”: ora la domanda è posta di fronte a Dio. Ecco dove la do-manda diventa teolo¬gica: si pensi al genere di “Lamentazioni”, ai numerosi Salmi che pongono la domanda a Dio: “Perché? Fino a quando?...”.
Il significato di questo lamento e di questo “grido dal profondo” indirizzato a Dio, è da ricer¬carsi nell’atto di fede che assume la forma d’una lotta con Dio. È “confronto del no¬stro cre¬dere con il nostro soffrire”, che, posto di fronte a Dio, esclude ogni possibilità di alibi.
Rivela dunque “un che di abissale nella vita” (von Balthasar H.U., 1985, 12): fa apparire il para¬dosso dell’e¬sistenza che allora risulta racchiusa entro un preciso limite di inizio e di fine, e che pure ri¬chiede di gioire finché c’è la luce dell’esistenza (cfr. Qo 9,4-9; 11,7-10). Si è, vale a dire, chia¬mati a vivere e dunque a godere dell’esistenza donata, mentre poi subentra la notte del dolore con la sua schiavitù e infine il de¬stino di morte. Si intuisce già ora il senso più acuto del sof¬frire umano: desiderio infinito di vivere, di aspirazioni, costretto però entro uno spazio ben circoscritto di attuazione: lo spirito umano, fascio infinito di aspirazioni, eppure costretto en¬tro le angustie delle attuazioni. La sofferenza diventa in tal modo un luogo rivelativo di quanto c’è di più profondo nell’uomo.
3.2. Alcuni schemi interpretativi della tradizione biblico-cristiana
Per un’esigenza di chiarezza e di analisi, siamo soliti distinguere i differenti ambiti di origine dei patimenti umani: sofferenza di ordine fisico, di ordine morale, spirituale e altro. La Bibbia, a sua volta, non parla mai d’un’esperienza di sofferenza isola¬tamente: la situa sempre all’interno d’un vasto complesso di situazioni dolorose. In altri termini, non fa molte distinzioni. In genere, il male è visto come una globalità articolata e complessa, che comprende allo stesso tempo disagi, ingiustizie, violenze, insuccessi, ma¬lattie, lutti, emarginazione. In tal modo si evidenzia una diversa concezione antropologica rispetto a quella dell’uomo moderno, portato a distinguere ed analizzare: l’uomo biblico, sia per mancanza di conoscenze adeguate e sia per una capacità d’andare immediatamente al fondo delle cose, coglie le singole realtà nella molteplicità delle loro relazioni (Ratzinger J., 1979, 99-116).
L’Antico Testamento ha elaborato numerose risposte al mistero del male e del dolore, che anche il Nuovo e la tradizione della Chiesa hanno mantenuto, inserendole però nell’alveo della redenzione. Richiamando in maniera sintetica e semplificando, quelle risposte possono essere riassunte in cinque schemi:
– Schema della “giustizia retributiva”: ad ogni colpa/peccato corrisponde un castigo che ha la funzione di ristabilire l’ordine violato (SD 10). E Dio è il giudice garante di questa “armonia cosmica”. Se dunque tu soffri, è segno che hai peccato, anche se forse non conosci o non ricordi la tua colpa (cfr. anche Gv 9,2; Lc 13,1; Dt 28; Lv 26; Ez 18, ecc.). Giobbe rifiuterà tale interpretazione, non perché non contenga elementi di verità, ma perché si sa nel proprio caso innocente; e poi, “non è vero che ogni sofferenza è conse¬guenza d’una colpa, né che ha carattere di punizione” (SD 11); è la sua espe¬rienza d’inno¬cente che gli fa rifiutare questa soluzione.
– Schema della responsabilità umana: connessa in parte con la precedente, questa in¬terpretazione è già presente in Gn 2-3; 4; 11. Nasce dalla “protesta contro Dio” quando avviene una sciagura, e risponde a tale protesta: “piuttosto che chiamar in causa Dio e vo¬ler così affron¬tare il mistero dell’essere, prima, cioè, di pretendere di valicare i propri confini, l’uomo deve esaminare se stesso, i propri giudizi e comportamenti, la sua men¬ta¬lità, i suoi schemi mentali: quanti “mali” presenti nel mondo e nella storia proven¬gono dai nostri errori, dai nostri egoismi, ambizioni, presunzioni, ambi¬guità, inadempienza, indolenze...” (Ravasi). Presto però la Bibbia si accorge che le proporzioni del male e del dolore sono ben più vaste di quel che potrebbe giustificare l’azione dell’uomo. L’uomo non è suffi¬ciente a dar ragione di tutti i mali.
– Schema della “prova/purificazione”: è la soluzione che il giovane Eliu applicherà a Giobbe (ma è molto pre¬sente nella sacra Scrittura: Gn 22,12; Dt 8; Ger 7 ecc.): il dolore e il male hanno lo scopo di dimostrare la giu¬stizia dell’innocente. Del resto già il prologo di Gb così lo pre¬senta. La sofferenza purifica l’uomo dal suo limite e ne fa splendere tutto il valore. Proposta che ha una profonda suggestione, non solo per la parte di verità che con¬tiene, ma anche per la forza di convinzione che le perviene dall’esperienza della vita. Il lato de¬bole, e dunque la sostanziale insufficienza di quest’interpretazione, appare dinanzi al dolore innocente: che dire del dolore del bambino?... E poi c’è propor¬zione tra il “prezzo da pagare” (Dostoevskij) e il frutto che se ne raccoglie? Vale davvero la pena? Tanto più che ciò non sempre avviene, ossia, non sempre la sofferenza riesce in questa sua presunta – o vera – funzione purificatrice; perché c’è una zona limite al dolore affinché divenga ele¬mento di maturazione. E poi anche perché richiede che avvenga all’interno d’una esperienza di “paternità” non sempre presente.
– Schema del dolore come “elemento edu¬cativo”: è la risposta classica affiancata alla precedente: il dolore offre l’opportunità di “cavar fuori” da sé (“educere”) delle possibilità che altrimenti rimangono inattuate. La sofferenza avrebbe questa funzione di stimolo per il divenire della persona e della comunità (SD 12); (cfr. anche Dt 8,5; Pr 3,11-12; 2Mac 6,12; Eb 12, 7-11). E tuttavia, pur riconoscendo un alto valore a questa interpretazione, se ne vede altresì l’insuf¬ficienza (SD 13): non sempre riesce a dar ragione e a far intendere il motivo di tante soffe¬renze, che non assumono affatto una funzione edu¬catrice: terremoti, epidemie, e simili, giove¬ranno forse ad altri, ma a costui, a questa generazione?... E poi son tante le condizioni richie¬ste perché di fatto la sofferenza stimoli la crescita della persona e della comunità che resta una spiegazione piutto¬sto teorica, né pare che prenda sufficientemente sul serio il dolore “qui”, “ora”, e di un determinato soggetto umano. Troppe sono le per¬sone – e le società – che sotto il dramma del dolore rimangono grandemente immature: anzi, di per sé, non in¬duce nel sog¬getto piuttosto una regressione? Sono interrogativi ed elementi da tener presenti se vogliono esser introdotti in una riflessione cri¬stiano sul senso del soffrire.
– “Nel dolore c’è un germe di bene”: schema della sofferenza vicario-sostitutiva: quest’interpretazione affiora nell’AT e vi rimane allo stadio di una gemma non aperta, è ca¬rica di misteriosità, ed ha una verità che avvince ed allontana allo stesso tempo, è pro¬posta particolarmente nei “Carmi del Servo di Jahvè” di Isaia, specialmente nel IV (Is 52,13-53,12). Questo mi¬sterioso essere innocente è colpito dal do¬lore al punto d’apparire emblema dell’uomo “percosso e umiliato da Dio”. Vi si intravede un mistero, perché attraverso la sua sofferenza giunge ad altri una sal¬vezza. In lui innocente, si nasconde una forza libera¬trice misteriosa ma effettiva. Il NT riprenderà questo tema che il profeta antico aveva in¬travisto e lasciato in so¬speso (SD 18,1).
Potremmo ancora proseguire nell’indicazione di questi vari schemi interpreta¬tivi, ri¬facen¬doci sia alla Sacra Scrittura che alla tradizione cristiana. Quanto detto, potrà esser sufficiente a delineare il qua¬dro della questione. In tutti questi schemi, ritroviamo elementi preziosi di verità, di cui ci si dovrà av¬valere nell’interpreta¬zione cristiana del senso della sofferenza. Nell’in¬sieme tuttavia, e nella prassi pa¬storale, risultano ancora insufficienti, e a volte forse anche improponibili: sarà allora necessario cercare ancora (SD 18,6).
3.3. La figura di Giobbe
Viene qui preferito il libro di Giobbe per accostare il tema del dolore nell’AT soprattutto per il fatto che l’argomento è centrato in maniera teologica: è posto di fronte a Dio, e mette bene in evidenza l’insufficienza d’ogni teoria che si presuma risolutiva del dramma. Nella teologia anticotestamentaria, inoltre, Giobbe rappresenta un avanzamento nella risposta al tema del dolore, superando lo stereotipo dello schema “dolore-castigo”, che del resto continuerà a persistere fin nel NT (Gv 9, 2). Ma ci sono anche motivi propriamente di “pastorale sanitaria” che sollecitano il confronto privilegiato con questo testo: il lamento di Giobbe esplode quando egli è colpito “nella sua pelle”, nella sua salute: a cerchi concentrici Satana lo ha umiliato, colpendolo prima negli averi, poi negli affetti, quindi nel ruolo socio-professionale, nell’amore della sposa e infine nella salute: a questo punto erompe il suo grido, che è ricerca d’un perché di quanto gli sta accadendo. Inoltre, Gb è un testo che intende rispondere anche alla questione: “in che modo si può parlare di Dio all’uomo sofferente”?
I temi che il testo affronta sono noti: dolore e crisi, oscurità e tragedia, l’assurdo e le contraddizioni della vita e della fede. Il significato di tutto questo spogliamento non è soltanto il “perché” del dolore. Questo è lo spunto per una riflessione ampia e profonda, che abbraccia le radici della vita e della fede. La stessa composizione del libro, quale a noi è stato tramandato ed è letto nella chiesa, è significativa: ogni lettore di Giobbe conosce la distinzione del testo in due parti, narrativa la prima (1-2; 42,7-17) – che fa da cornice – dialogica l’altra (3-42), che è estremamente drammatica. Le due parti attri¬buiscono a Giobbe un comportamento verso Dio che è contrastante: nella prima parte, Giobbe è l’uomo paziente per eccellenza, pio ed umile che accoglie il destino come volon¬tà di Dio. Nella parte drammatica, Giobbe vi recita la parte del contestatore, dove si ribel¬la a Dio rifiutandosi d’accettare il destino che Dio gli ha mandato. Tralasciando la spiegazione che abitualmente si dà di questo contrasto, noi consideriamo il testo nella sua globalità, poiché così ci è stato tramandato, così è stato accolto dal redattore finale. Piuttosto – ed è questo un primo elemento del messaggio da accogliere – l’accettazione da parte del redattore dell’unità del testo pur mantenendo distinti gli atteggiamenti del protagonista, sta a significare che i due comportamenti nel credente possono coesistere. Si può dare, cioè, nella stessa persona, fiducia in Dio e ribellione nei suoi confronti. La di¬stinzione può avvenire non solo in tempi diversi, il che è ben plausibile; ma anche nel me-desimo momento: in tal caso si tratterà di differenti livelli di coscienza.
Il messaggio della parte narrativa si aggancia a quanto è già frequente nella Bibbia, come ad esempio nella storia dei patriarchi (es. Gn 22), dove la sofferenza è permessa o inviata da Dio per mettere alla prova il giusto innocente. Nel nostro caso, è Giobbe ad essere presentato come un pio esemplare, che viene colpito in tutto ciò che costituisce la trama della sua esistenza, per verificare la fedeltà al Signore. Giobbe viene colpito nei suoi rapporti con le cose, con gli altri (familiari, amici, società), ma rimane integro nella sua fede. Segnerà la felice conclusione della prova, con la copiosa ricompensa. Giobbe ha superato la prova perché ha ritenuto non esservi una contraddizione nel compor¬tamento di Dio; un tale contrasto, va giudicato possibile all’interno della condizione umana. Per questo la figura di Giobbe ne esce glorificata, è l’immagine dell’uomo paziente e pio. Le sue affermazioni sono rimaste proverbiali nella cultura occidentale: “Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia bene¬detto il nome del Signore!” (1,21). Questo perché egli era “uomo pio e timorato di Dio, nemico del male” (1,1).
Nella parte drammatica accanto a questa figura paziente e pia, ne appare un’altra che le è contrastante. Il medesimo Giobbe si presenta contestatore e ribelle, rifiuta ogni giustificazione teologica del suo male e, accusando, si appella a Dio stesso, perché valuti la sua condizione. La contestazione assume prima la forma d’un lungo lamento, che esprime la prima reazione di fronte al dolore, all’umiliazione, alla delusione, all’offesa. Il lamento è il linguaggio proprio della sofferenza, ed è una forma di preghiera. In Giobbe assume tre forme: lamento su se stesso, lamento verso gli amici, lamento verso Dio. A mano a mano che Giobbe entra negli abissi del dolore, il lamento si fa più cupo e ardimentoso: così esprime la profondità della sofferenza. E in tal senso va compreso. In seguito al lamento, subentra il dialogo con i tre visitatori-amici. Le reazioni di Giobbe divengono sempre più forti e violente contro le spiegazioni che la teologia tradizionale degli amici propone. Giobbe si lamenta innan¬zitutto di non riuscire più a comprendere Dio, il suo vero volto, i suoi sentimenti. Per questo i dialoghi sviluppano una progressiva accusa contro Dio. Giobbe lamenta in primo luogo il comportamento di Dio di fronte alla propria innocenza. In seguito accusa Dio della sorte ineguale degli uomini di fronte alla giustizia, che arriva a premiare i malvagi e punire i giusti. In terzo luogo, Giobbe accusa Dio di essere lui stesso il tormentatore degli uomini, specialmente dei giusti.
Che cosa si propone l’autore mostrandoci un tale volto di Giobbe? Il lamento di Giobbe, nelle sue varie forme espressive, vuole portare dinanzi a Dio il proprio dolore, perché è appunto l’atteggiamento di Dio che sta a cuore a Giobbe, è il volto di Dio che, nel dolore, gli riesce incomprensibile, sconosciuto. Quel lamento diviene perciò una segreta invocazione: la parola di Giobbe si fa sempre più pressante per attendere e sperare una giustificazione di Dio stesso (31,24-27.35-37). In Giobbe dunque è presente una segreta speranza: che Dio si riveli, si auto¬comunichi, sia presente. Per questo la epifania di Dio (38-41) è una prima risposta al tema del dolore. Dio di fatto accoglie la richiesta dell’uomo sofferente, gli si rivela. Il contenuto di questa rivelazione si sviluppa su differenti livelli: prima di tutto, Dio respinge l’accusa di essere nemico della creazione e dell’uomo, quasi un sadico creatore che distrugge l’opera delle sue mani. Ricorda la giusta collocazione dei due interlocutori: la creatura stia al suo posto, non pretenda di farsi “creatore” di se stesso o di altri, come aveva insinuato il tentatore nel dramma delle origini. Dio inoltre mostra come si prenda cura delle sue creature. Il discorso di Dio sulla creazione, che ad una lettura superficiale potrebbe apparire fuori luogo, tende a far comprendere a Giobbe come Dio gli sia accanto e di lui si occupi nella sua situazione di sofferenza. L’uomo nel dolore si smarrisce, perde gli abituali punti di riferimento e crede che Dio non se ne curi. Mentre Dio è là vicino.
Chiaro è il messaggio della reazione di Giobbe: “Finora ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono!” (42,5). Parole che esprimono la ritrovata fiducia, in una fede fatta adulta e matura. Il fatto poi che Dio stesso dichiari l’innocenza di Giobbe e la posizione ingiusta degli amici – “Non avete detto di me cose giuste come il mio servo Giobbe” (42,8) – sta a significare che Dio ha accolto l’invocazione di Giobbe, e che questi ne ha ottenuto la benevolenza.
Il nucleo del libro di Giobbe sta nella critica alla teologia classica e tradizionale, po¬polare. Dimostra la fragilità della concezione di fede e del Dio trascendente del passato, e mostra l’attualità dei nuovi spunti teologici che il testo introduce, occasionati appunto dalla situazione di sofferenza. La teologia di Giobbe (come anche quella del Qohelet) svolge un ruolo di demistifica¬zione, di superamento della concezione classica del Dio visto unicamente come il garante della giustizia e dell’ordine morale, attento giudice dell’osservazione della legge, dell’al¬leanza, dell’osservanza etica. Si rivela un nuovo volto di Dio: Dio non è solo – né soprattutto – il garante della giu¬stizia e della legge, ma ben di più. Egli è libertà e gratuità, imprevedibilità assoluta, tra¬scendenza: è mistero. L’uomo non può mai pretendere di “con prenderlo” nelle maglie della sua logica, di mettervi su le mani possessive.
La soluzione del mistero del dolore in Giobbe, sta nell’incontro personale con Dio, in una rinnovata esperienza della presenza del Dio vivente, che difende il sofferente dallo strapotere e dalla rigidità oppressiva di un’immagine standardizzata di Dio. La sofferenza diviene l’occasione per l’affermazione della presenza di Dio costante, universale e provvi¬da, premurosa, anche se ciò non avviene nelle modalità che forse l’uomo s’at¬tenderebbe.
3.4. Il NT: Gesù Cristo
L’esperienza dolorosa del Cristo è di capitale importanza per comprendere la sofferenza dell’uomo (GS 22; SD 31). Ogni analisi e feno¬menologia della sofferenza rimane incom¬piuta e inadeguata, se non addirittura distorta, finché non accosta quanto la rivelazione ri¬ferisce della sofferenza del Cristo. Infatti, è in Cristo che l’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine, vi si trova come ricapitolata ed elevata nella sua verità de¬fi¬nitiva. Inoltre, la sofferenza, assunta dal Cristo, viene purificata da ogni motivo deviante o torbido, ed appare nella sua purità essenziale (SD 17-18).
Una lettura attenta al significato che la sofferenza umana assume quando è collocata di fronte a Cristo o è da lui stesso vissuta, dovrebbe distinguere i due momenti: Gesù “di fronte” alla persona sofferente, e Gesù “nella” sofferenza. Tuttavia apparirebbe immediatamente che i due momenti non sono adeguatamente distinguibili: la reazione di Gesù dinanzi alla sofferenza altrui, è già la reazione che ha di fronte alla propria esperienza dolorosa, perché egli “prende su di sé ” i nostri dolori (Mt 8,17).
Dell’atteggiamento di Gesù di fronte al dolore dell’uomo, è da sottolineare innanzitutto quanto i vangeli narrano: la sua presenza tra i sofferenti, il suo “stare con” loro. Parole, gesti, sentimenti ci vengono trasmessi per esprimere la sua reazione. Egli “si è incessantemente avvicinato al mondo della sofferenza” (SD 16). L’entusiasmo attorno a lui, specialmente nel periodo detto, da alcuni esegeti, della “primavera galilaica”, dagli evangelisti è attribuito, insieme con le parole, anche alle sue guarigioni, alla sua attenzione a chi era portatore di dolore (Mc 1,32-34; 3,10; 6,55-56; Mt 9,35; 10,1-7; ecc. Lc 9,11,1-2; 7,22).
Sono parole d’insegnamento, come quelle dirette agli apostoli inviandoli in missione (Lc 6,20-23), o dove si dichiara portatore di riposo (Mt 11,28), alle città del lago (Mt 11,20-24) o quando gli riferiscono fatti di cronaca (Lc 13,2-5). Altre volte sono parole di dialogo (es. Mc 1,40-45; 5,25-34; 8,22-26; ecc.) che si propongono di far uscire dall’isolamento che è causato dalla malattia o dalla sofferenza in genere, e che tendono a suscitare un nuovo atteggiamento di fiducia e di responsabilità di fronte alla vita. Tendono a stabilire la “comunione”, a ritessere i rapporti con le persone e con le cose, con l’ambiente, tendono insomma alla reintegrazione psico-fisica e socio-religiosa.
I gesti di cura o di guarigione fanno parte di quegli atti di Gesù che gli evangelisti qualificano come “atti di potenza”, “segni”, “prodigi, “opere”. Dai vangeli sono letti come atti salvifici, rivolti al bene dell’uomo. In maniera diretta ed esplicita, sono gesti che com¬portano la liberazione dai mali che affliggono l’uomo: malattie (es. Mc 3,4; 5,28; 10,52), forze della natura avverse (Mt 8,25; 14,30), demoni (Lc 8,36), morte imminente o avve¬nuta (Mc 5,23; Lc 8,50; Gv 11,12), bisogni materiali (Mc 6,35 44; Gv 2,1 11).
Ma questa “salute fisica”, è simultaneamente spirituale: si legga ad es. il samaritano lebbroso guarito (Lc 17,19), il cieco di Gerico (Mc 10,52) dove la “sequela” con cui si conclude l’episodio, oppure l’espressione: “la tua fede ti ha salvato” indicano l’avvenuta salvezza globale dell’uomo (v. anche Lc 17,19; Mc 2,1 12; Gv 5,1 14). Sono aspetti par¬ziali dell’opera con cui Gesù glorifica il Padre e dà la vita agli uomini. Hanno le loro ra¬dici nella fede nel Dio creatore e provvido, operante benefico e salvatore delle sue creatu¬re, specialmente dell’uomo. Per questo il NT testimonia un’alta concentrazione di tali “miracoli” durante il ministero di Gesù. Sono “primizie” della salvezza, della vittoria de¬finitiva sul male fisico e morale che affligge l’uomo. Si tratta perciò di “brecce aperte nel regno di Satana, preludio della vittoria pasquale”. Richiedono, tuttavia, la fede, la fiducia in Dio e in Gesù quale suo inviato; una fede che si fa disponibilità, acco¬glimento, adesione alla persona del Cristo, alla sua missione e alle sue esigenze (es. Mc 10,52).
In maniera particolare in Gv tali gesti vengono letti come segni rivelatori della persona di Gesù, della sua origine divina, della dignità della sua missione e della sua unione al Pa¬dre. Sono delle “epifanie” nel vero senso del termine. Si può forse notare che tale funzione rivelatrice la svolgano in maniera progressiva: dal “segno” della moltiplicazione dei pani Gesù esce definito quale “pane di vita” (6,35); alla guarigione del cieco, segue l’afferma¬zione di Gesù “luce del mondo” (9,5); e alla risurrezione di Lazzaro, Gesù si autodefinisce “risurrezione e vita” (11,25): sono tappe, contraddistinte dalla forte affermazione “Io so¬no”, che vanno verso l’“Io sono” del Figlio dell’uomo elevato sopra la croce e glorificato “per attirare tutti a sé” (8,38; 12,32).
D’altra parte, gli esegeti parlano anche d’una “povertà” dei segni, delle opere prodigio¬se, nel senso che tutto sommato sono piuttosto “rari”, avvengono spesso nella “riservatezza” e sono “temporanei” negli effetti. Sono caratteristiche che contengono una data pedagogia: vogliono preservare i discepoli dalle attese miracolistiche. Inoltre, tale “povertà” di miracoli permette a Cristo di seguire la “via della croce”: ossia, vogliono far comprendere che la “salvezza” “già” attuata nel suo nucleo essenziale attraverso la risur¬rezione del Cristo, deve tuttavia coesistere con la “debolezza” dell’uomo, con il peccato e con i limiti della finitudine creaturale. L’uomo costruisce la sua esistenza in un processo contrad¬distinto da “morte e risurrezione”.
Spesso gli evangelisti testimoniano il sentimento di pietà o di compassione che accompagna quei gesti. È un sentimento che esprime la com¬partecipazione di Gesù al male altrui che glielo fa sentire come proprio. Di qui la personale sofferenza di Gesù stes¬so (Mt 8,17 e “nota” della BJ).Il grido dell’angoscia, non rimane senza ripercussioni nell’animo di Gesù: si veda ad esempio la reazione di Gesù dinanzi al centurione che lo supplica per il figlio (Mt 8, 5 13; Lc 7,1 10; Gv 4,46 54), oppure nei confronti della madre cananea (Mc 7,24 30 e par. in Mt), del padre del fanciullo epilettico (Mt 17, 14 21 e par.), di Giairo (Mc 5,22 43), della vedova di Nain (Lc 7, 11 17), di Lazzaro (Gv 11, 1 46).
Altri testi mettono in luce l’angoscia di Gesù di fronte a chi soffre a causa della pro¬pria malattia o perché è di fronte alla morte: ad esempio, il cieco di Gerico (Mc 10, 46 52 e par.), il grido angosciato dei discepoli sul lago in tempesta (Mc 4,35 41 ); il terrore di Pietro mentre cammina sull’acqua (Mc 6,45 52 e par.). I vangeli dunque non attribuiscono a Gesù né parole, né gesti, né sentimenti che propongano un atteggiamento di passività o di rassegnazione dinanzi al male e al dolore: tutto in Gesù indica impegno operoso per vincere e superare le situazioni di sofferenza. Il sentimento di compassione di Gesù è rivelativo dell’impostazione di fondo della sua esistenza. Diviene l’occasione perché egli esprima la sua autodonazione, l’opportunità che suscita la uscita da se stessi (“ex stasi”), dal proprio centro personale per andare verso il compimento di sé, che avviene solo nel dono di se stessi all’altro.
Stando ai testi evangelici, Gesù ha considerato la sua vita come rivolta in maniera spe¬cifica ai sofferenti: a coloro che gemono sotto il peso del dolore causato dalle cause più svariate e che assume una straordinaria molteplicità di forme, fino a quella riassuntiva della morte e del peccato (Lc 7,22; 4,17 21; 10,25 37; Mt 11,28, ecc.). Di tale atteggiamento, figura emblematica è il buon Samaritano (Lc 10,25 34). La parabola esprime il comportamento vissuto dal Cristo, e diviene il disvelamento del suo atteggiamento profondo, che sarà poi espresso teologicamente nella lettera agli Ebrei (10,7). Questo “es¬sere per l’altro” è avvenuto in due precise direzioni, che Eb 2,17 indica con due attributi: “pistos” (= degno di fede, fedele a Dio), e “eléemon” (= misericordioso, compassionevole verso gli uomini). Sicché, in quel sentimento di compassione, è da vedere il segno della partecipazione di Dio stesso alla sofferenza dell’uomo. Dio non rimane assente o indifferente dinanzi all’an¬goscia che preme sul cuore della sua creatura, ma, nel Figlio incarnato, lo fa proprio. Dio non si contenta più – come in Giobbe – di “essere accanto”, ma “prende dentro di sé” quel dolore: l’angoscia dell’uomo è diventata l’angoscia di Dio. È quanto i vangeli rivelano in maniera definitiva quando il dolore diventa esperienza personale del Figlio, esperienza che raggiunge il culmine nel Getsemani e sul Golgota.
Questi sono o luoghi per così“ dire “classici” dell’esperienza dolorosa personale del Cristo. Vi sono riassunti e ricapitolati tutti i generi di sofferenza che il Nuovo Testamento narra. Sono testi che rivelano quel che è accaduto nello spazio intimo di Gesù, quello che è stato il suo dramma, la sua sofferenza personalissima e irripetibile. È un’esperienza – ci avverte Von Balthasar – leggibile a partire da due luoghi ermeneutici: il dolore disseminato nell’Antico Testamento e nella storia della chiesa. La problematica di Giobbe e tutta la drammaticità della vita presente nell’AT vanno lette e interpretate come anticipazione del dramma di Cristo. E tutte le esperienze di dolore delle figure del NT e della storia della chiesa vanno anch’esse intese in riferimento al Getsemani e al Golgota. Le esperienze di “notte oscura” o di “abbandono” dei martiri e dei mistici e tutte le tragedia che colpiscono l’umanità, sono da leggersi in riferimento alla notte di morte e alla notte di fede che Gesù ha vissuto nel giardino e sul colle.
Lì Cristo ha sofferto tristezza e abbattimento. Marco parla di “stordimento”, d’un “esser-fuori-di-sé”. Luca la chiama “ansietà”, tipica di chi sta per esser privato dell’unico bene che lo può colmare, cioè Dio. L’abbattimento lo fa cadere a terra; il triplice andare e venire, il silenzio del Padre, sottolineano la solitudine estrema, il fallimento del suo desiderio profondo di comunione e di compimento della missione. Nel “grido di derelizione” riportato da Mc e Mt raggiunge il culmine il silenzio di Dio, il silenzio del Padre. La terminologia attribuita a Gesù denota non solo la sua giudaicità, ma anche la sua personalità di uomo individuale che, rivolto a Dio, mantiene lucida la consapevolezza della distanza che ormai li separa. Rimane il fatto della relazione con Dio, ma che nella sua umanità egli vive ormai come una sorte di assenza: siamo nel cuore dell’oscurità, della “notte della fede”. Quell’abbandono, per di più, è fatto oggetto d’un interrogativo: “Perché?...”. È un lamento che Gesù rivolge a Dio, richiamandosi alla fedeltà del Padre. La relazione filiale non è più risentita come relazione all’“Abbà”: nessun’eco dell’emozione filiale. Gesù entra solo nella morte, che è sentita come qualcosa di contro natura, di non-senso.
Gesù ha dunque sofferto le nostri notti più oscure: la morte corporale e la notte della fede. Davvero che nulla di quanto accade all’uomo sarà ormai estraneo al suo Creatore. Gesù ha assunto in pieno il non-senso della morte; e il silenzio di Dio, in linea con tutta la tradizione biblica, rimane la maggiore sofferenza. Ma, vale la pena sottolinearlo, neppure nel Getsemani o sul Golgota il comportamento di Gesù rivela un suo passivo “rassegnarsi” alla situazione: si è totalmente affidato al Padre, fiducioso che egli avrebbe portato a compimento il suo disegno di salvezza.
4. Sintesi teologico-pastorale
4.1. Il significato della sofferenza e morte di Cristo
La sofferenza e la morte di Gesù vanno comprese nell’insieme della sua vita (Wiederkehr D., 1983, 172-195; Id. 1989, 171-174). L’esegesi contemporanea è attenta a cogliere non tanto le “parole” (“ipsissima verba”) o le “azioni” (“ipsissima facta”) di Gesù, quanto la “intenzione” profonda della sua esistenza (“ipsissima intentio”) (Schurmann, 1977, 16-17.31-33). Questa si rivela soprattutto quando si analizza il suo comportamento di¬nanzi al dolore e alla morte. Ogni uomo, alla fine della sua vita, “deve attraversare la morte, e questa è per lui un evento tanto più personale quanto più autentica e ricca fu la sua vita”. In tal senso si può parlare d’una morte di Gesù che fu per lui “assolutamente personale”. Quando infatti si tiene presente la maniera come egli ha vissuto, non si può far a meno di ritenere che la sua morte abbia espresso in forma privilegiata quell’at¬teggiamento di au¬todona¬zione e di servizio che aveva caratterizzato la sua esistenza. Il modo con cui Gesù ha vissuto il suo soffrire e il suo morire, è iscritto all’interno del suo comportamento e della sua attività, ne è la conseguenza, o meglio il coronamento. Nel modo come Gesù soffre e muore, si rivela l’impo¬stazione fondamentale della sua esistenza.
Il Nuovo Testamento, già nelle sue prime elaborazioni teologiche dell’evento Cristo, ha coniato delle formule che sono indicative di quel significato: “yper” (= “per”, “a favore di”, “per amore di”, “in obbedienza a”). Viene a stabilirsi un circolo ermeneutico: per com¬prendere quanto vi è di più caratteristico nella sofferenza e morte di Gesù, si deve far ri¬ferimento alla sua vita e al suo comportamento che è “proe¬sistenza”, ossia una vita “per” gli altri: Dio e gli uomini. D’altro canto, il modo di soffrire e di morire, anch’esso conno¬tato da autodedizione e servizio – “per amore” e “per obbedienza” – diviene luogo som¬mamente rivelativo dell’atteggiamento proesistente che ha caratterizzato il suo vivere.
Le esigenze del suo vangelo: il radicalismo con cui parla della sovrana volontà di Dio, la morale teocentrica, la fiducia da nutrire nella presenza provvida del Padre e del come saprà egli ricompensare, solo grati per quanto il Padre vede e del come vorrà ricompensa¬re, l’impegno concreto per amare e servire il prossimo, massimamente i bisognosi, il ritenersi servi inutili dopo aver fatto tutto quanto ritenevamo nostro dovere: tutte queste esigenze, e le altre che si potrebbero richiamare, raggiungono la loro completa espressione nel comportamento che Gesù assume quando è nelle circostanze di dover vi¬vere quelle situazioni.
Il senso dunque della sofferenza e della morte di Gesù, appare in primo luogo collocandole in riferimento alla sua vita, all’impegno di obbedienza a Dio e di fedeltà agli uomini, alla sua missione; di questa la morte è coronamento. In secondo luogo, quel senso si rivela pienamente nel riferimento a Dio che lo glorifica con la risurrezione. Il “come” Gesù muore, rivela il segreto della sua esistenza: la fiducia nel Padre, il suo convincimento della presenza del Dio d’amore che porta avanti il suo disegno di salvezza e lo realizza.
Gesù non ha spiegato la sua sofferenza e la sua morte, come non ha spiegato la soffe¬renza e la morte degli uomini. Anzi, ha lottato contro la sofferenza, la malattia, l’ingiusti¬zia e la morte, come lo dimostrano sia le sue “parole” che i suoi “segni” o “miracoli”. Questo indica che il primo significato della sofferenza e morte di Cristo, è di essere una protesta nei confronti della sofferenza stessa, della morte e del male. Il secondo significato, sta nella modalità con la quale ha dato una “risposta” al mistero della sofferenza: egli non l’ha vinta “dall’esterno”, né quindi ha procurato la salvezza degli uomini “dal di fuori”, rimanendo estraneo alla condizione umana, segnata dalla finitudine e dal peccato: lo ha fatto dall’interno, autodonandosi, autoconsegnandosi.
Con lui la “grazia” è entrata nel cuore del mondo. Ma anche questo Gesù non l’ha spie¬gato a parole, piuttosto l’ha fatto “facendosi vicino” all’uomo nel dolore, facendosi carico di esso. In tal modo, il dolore “dell’altro”, è divenuto il “suo proprio dolore”. Restando fedele fino alla fine, Gesù è stato trasformato dalla sofferenza: la sofferenza l’ha trasformato radicalmente (Eb 5,7-10). Conseguentemente, quest’evento ha trasformato il senso della sofferenza e della morte dell’uomo, che ora sono divenute “cammino alla gloria” (Vanhoye A., 1980, 152).
Ora la sofferenza e la morte di ogni uomo, hanno un senso, a condizione d’essere inserite nel Cristo: non che la sofferenza e la morte abbiano un valore in se stesse! Il loro valore proviene dalla fedeltà, dall’amore obbediente, dalla solidarietà. Anche la risurrezione del cristiano, non è il puro ritorno all’esistenza. È invece il termine di quel processo di trasfigurazione che viene descritto come “gemito del parto” (Rm 8, 22; Gv 16, 21), ossia la ridonazione della vita attra¬verso quel processo di morte e di vita, d’un vivere e d’un morire che sono stati attraversati dagli atteggiamenti di fedeltà e di autodedizione.
4.2. Significato della sofferenza e morte dell’uomo “in Cristo”
Cosa avviene alle esperienze dolorose dell’esistenza e alla morte in seguito a quella trasformazione dell’esistenza dell’uomo causata dall’incontro con il Cristo?
Né l’Antico Testamento né Gesù nel Nuovo hanno preteso di fornire una spiegazione alla sofferenza. Piuttosto hanno lottato contro di essa e, quando non l’hanno potuto evitare o eliminare, la loro “passione” ha assunto in primo luogo il senso d’una protesta contro di essa: è qualcosa che non dovrebbe esserci, perché è in riferimento al male. Chi invece s’è posto il problema del senso della sofferenza è stato l’apostolo Paolo (Cinà G., 1995, 86-113). Dinanzi alle differenti situazioni penose che ha dovuto attraversare, s’è posto la domanda sul loro significato. Le contraddizioni che incontrava nelle sue comunità, le tribolazioni provenienti dai giudaizzanti e dagli oppositori, i dubbi che gli salivano dall’interno, le preoccupazioni, le ansie, le perplessità, come anche le malattie, gli insuccessi, le difficoltà di ordine economico e familiare, Paolo li ha collocati in quel contesto di fede, interpretandoli in primo luogo come esperienze anticipatrici della morte e chiedendosi il perché di tale drammaticità (es. 2Co 1,8-10; Rm 4,17-21) (Léon-Dufour X., 1979, 237-243) .
Il principio risolutivo fondamentale Paolo l’ha individuato nella visione del Cristo, il quale ora “siede alla destra di Dio” ed è tutt’ora all’opera, fino alla fine dei tempi, per dispiegare la forza trasformante della sua risurrezione, applicandola alle situazioni di sofferenza e di morte degli uomini (At 9,5; 1Co 15,20-28). La coscienza dell’apostolo è dunque dominata dalla luce del Cristo-risorto. La risurrezione è stata la risposta del Padre all’atteggiamento di fedeltà e di compassione del Figlio. Sicché Paolo vive la sua esistenza “con” e “in” Cristo risorto. La risurrezione di Gesù non ha mostrato semplicemente che quella morte era stata un’ingiustizia in più: piuttosto ne ha mostrato la fecondità, la potenza di liberazione che vi è insita, il valore per la salvezza degli uomini. Puntando su questo dato, le esperienze di sofferenza del credente vengono ad essere trasformate, acquistano un senso nuovo.
Potremmo verificare quest’affermazione analizzando i testi dove l’apostolo applica, per così dire, il principio alle situazioni concrete, come ad esempio nelle sofferenze derivanti dalla sua vita apostolica (es. 1Co 4,9-13; 2Co 4,7-18; 6,3-10; 11,23-33; 12,9-12; Col 1,24): in esse Paolo vede all’opera la “nekrosi” di Cristo, ossia l’atteggiamento con cui Gesù è morto: nelle tribolazioni dell’apostolo, ha sperimentato Paolo, è Cristo stesso che continua ad operare e a soffrire, anzi a morire. La forte espressione di Col 1,24 vuol dire che l’opera di Cristo si continua nei suoi discepoli, in essi è ancora in azione. Ciò vale, osserva Léon-Dufour (275-277), non solo per l’apostolo, bensì per ogni credente, purché in qualche modo partecipi all’attività apostolica di Cristo.
Le sofferenze derivanti dalla condizione mortale, di finitudine dell’uomo, e che riguardano tutte le contraddizioni presenti nel cosmo e nella vita umana, Paolo le riassume nella formula: “la creazione geme e soffre” (Rm 8,19-25): uomo e natura sono in una situazione di “vanità” a causa del peccato dell’uomo. Tale leggerezza indica la rottura del legame con il Dio creatore, per cui mancano di fondamento e di solidità, non sono che superficie e instabilità. Ne segue la “corruzione”, ossia uno stato di divisione e di continua disgregazione. Ebbene, l’incarnazione e l’opera del Cristo hanno introdotto la creazione in un orizzonte di speranza. Questo cambia il senso di quel patimento, di quel lamento: ora gemito e sofferenza significano il gemito dell’attesa, delle “doglie del parto”. È il senso d’una nascita attraverso il dolore, sicché attraverso la sofferenza si manifesta “già” la vita. La novità introdotta dal Cristo è che ora attraverso il dolore viene la vita.
E le sofferenze che nascono nella vita quotidiana, connesse con le preoccupazioni d’ogni giorno d’ordine economico, come pure le malattie e i lutti, le difficoltà dei rapporti umani, i conflitti interpersonali, certi insuccessi, cambiano anch’essi di senso, in quanto il discepolo è inserito “in-Cristo”, vive “con-Cristo”, dove è stato collocato dal battesimo (Gal 2,20). Perché non solo l’esistenza apostolica, ma la condizione umana come tale è stata assunta dal Cristo (GS 22; SD 31).
La morte stessa non è più un destino da subire; può invece divenire un atto liberamente accettato, in atteggiamento di filiale affidamento al Padre; in essa è portata a compimento il processo di configurazione a Cristo. Anzi, per Paolo la morte può significare “un guadagno”, perché gli permette d’essere in maniera piena e immediata “con” Cristo (Fil 1,21). Come il vivere per il credente è un “vivere-con/in-Cristo”, così il morire è un “morire-con/in-Cristo”. Ma tutt’e due le situazioni hanno senso e valore in quanto sono un “essere-con/in-Cristo”, ed è questo che conta. L’esperienza dell’attuale “essere-con” Cristo fonda la certezza della morte come un simile “essere-con-Cristo”. Non che venga a cadere il velo di mistero che sempre avvolge la morte: mistero del peccato e mistero della vita in pienezza. Ma ora non è più uno spettro che fa paura. Collocata nel mistero del Dio incarnato, apre alla libertà radicale.
5. Conclusione
La tradizione teologica e spirituale della Chiesa ha colto fin dagli inizi il significato di “partecipazione alle sofferenze di Cristo” dei patimenti subiti “a causa” di Cristo: ciò è stato subito individuato nelle persecuzioni, nelle tribolazioni derivanti dalle fatiche apostoliche, fino al martirio. Ben presto fu anche visto questo senso nella vita di penitenza e di ascesi, di “fuga mundi” per una sequela di Cristo più immediata. Maggiore difficoltà la teologia ha trovato nel vedere quel senso di partecipazione al patire di Cristo nelle esperienze dolorose derivanti dall’umana condizione di finitudine e di creaturalità, come la malattia, la morte, in queste vedendo lo svolgimento del naturale percorso d’ogni essere vivente.
Eppure non mancano, nella tradizione della Chiesa, interpretazioni in quel senso, sia pure con modalità e accentuazioni differenti: a volte la Chiesa ha letto il senso di questi patimenti come conseguenza del peccato originale o come lo scotto da pagare per entrare nella “vita eterna”, scindendo quindi in un certo senso, la partecipazione alle sofferenze di Cristo da vivere nel corso dell’esistenza terrena dalla partecipazione alla sua “gloria” nella vita beata futura. Altre volte ha interpretato la malattia e gli altri patimenti come opportunità voluta o permessa da Dio per la purificazione o per l’espiazione di colpe proprie o altrui, o come occasione per progredire nella conoscenza della vita divina. Sono anche state viste come condizioni da vivere per giungere alla perfetta libertà interiore, alla “indifferenza umile” come si esprime S. Ignazio di Loyola. I fondatori dei grandi Ordini e Istituti ospedalieri del dopo-Concilio di Trento hanno visto nel malato e nel morente essenzialmente la persona del Cristo.
Recentemente una lettura più attenta delle fonti della Rivelazione e della tradizione della Chiesa, sollecitata anche dalle provocazioni della cultura contemporanea, sta orientando il pensiero e la spiritualità cattolica a definire con maggiore esattezza il senso delle sofferenze umane derivanti dalla creaturale finitudine e mortalità. Cristo infatti è venuto non solo per distruggere il peccato ma anche “la corruttibilità naturale e terrestre con l’incorruttibilità spirituale o celeste della sua risurrezione... Se, in virtù della nostra appartenenza al mondo, la morte è inserita nella nostra identità, vi sarà parimenti inserita l’appartenenza al Cristo che abolisce la morte (Martelet G., 1987, 171-172). La SD (n. 14) esprime questa verità con l’affermazione che Cristo è venuto a sconfiggere le “radici trascendentali del male“, cioè “il peccato e la morte: esse si trovano alla base della perdita della vita eterna”. Essendo un essere in divenire, l’uomo “per diventare se stesso deve sperimentare la propria alterità rispetto a Dio e attraversare, a titolo di finitudine, l’abisso della morte. Tuttavia questa non può costituire l’ultima parola di Dio a quell’Adamo creato tutto per amore: “Dio non ha creato la morte (Sap 2,12)” (Martelet G., 1987, 172): Dio ci vuole simili a sé, partecipi della sua vita divina. Il peccato ha certamente causato un oscuramento della nostra mente e un perturbamento nel nostro spirito, per cui ci riesce più difficile comprendere e assecondare questo significato della sofferenza e della morte quali attualmente sperimentiamo. Viene così ripreso e riportato al centro della teologia l’interrogativo: “Cur Deus homo?” con la risposta: “ut homo fieret Deus”: la divinizzazione dell’uomo è il motivo centrale dell’incarnazione.
In questa prospettiva i punti teologici che devono esser tenuti presenti e che vanno ancora approfonditi, sono quelli che si originano da una cristologia che inserisce il significato della sofferenza e della morte di Cristo nell’insieme della sua vita. Una tale concezione – come è stato accennato – mette in chiaro il senso originario di quelle esperienze: per il modo con cui Gesù le ha vissute, in esse è da vedere il coronamento del suo “vivere-per”, dell’impostazione di fondo della sua vita come autodonazione e servizio.
Ne segue che la “croce” se da un lato è il segno della solidarietà e dell’impegno di Cristo per la condizione creaturale dell’uomo, dall’altro è anche – e prima ancora – segno di protesta contro il male in tutte le sue manifestazioni, perché contrario alla vita (dimensione soteriologica). La croce, è poi segno rivelativo del Dio-trinitario, in quanto quel soffrire e morire è stato l’opportunità perché Gesù esprimesse “fino alla fine” come uomo quello che egli è come Figlio di Dio. Ha così “portato a compimento” la rivelazione del volto di Dio, del “vivere” di Dio quale autodonazione e accoglienza: tale è il circolo della vita intradivina. Sicché un certo modo di morire è insito nello stesso dinamismo del vivere: per vivere è necessario “perdersi”, donarsi; è la legge del chicco di frumento che “se caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24-25) (dimensione trinitaria).
Emerge anche la nuova dimensione antropologica, la “nuova creatura” dovuta all’atto redentore di Cristo: il NT descrive quel passaggio in termini di “nuova esistenza”, di un nuovo modo di essere, caratterizzato dall’“essere-in-Cristo”: H. Schlier (1969, 160) ritiene che la formulazione paolina “en Christhô Jesou einai” oppure “en Christhô Jesou zên” (essere in Gesù Cristo, vivere in Gesù Cristo) sia “la migliore per esprimere il concetto di “esistenza cristiana” usando il linguaggio neotestamentario”. In forza di quest’evento, tutto quanto avviene al cristiano, gli avviene in quanto è “in-Cristo”, e quindi anche il suo soffrire – al di là della distinzione, pure opportuna, tra il soffrire “a causa” di Cristo oppure “insieme con Cristo” (SD 25.26) - è partecipazione al soffrire di Cristo, come anche il suo morire, il suo risorgere, la sua glorificazione. Ciò spiega perché, in questa concezione, anche il soffrire di chi non può assu¬mere un atteggiamento, di chi non può prendervi posizione – ad esempio, la sofferenza dei bambini, della persona priva di senno – ha già un senso in forza di quella partecipazione a Cristo: il valore di quel patire, sta nell’“essere in Cristo” stabilito dall’in¬carnazione e, nel credente, fatto proprio dal battesimo. La sofferenza, anzi è da aggiun¬gere, conferisce una specifica configurazione al Cristo, in quanto assimila al Cri¬sto sofferente, il quale di fatto ha esplicato la massima potenzialità del suo amore oblativo e re¬dentivo, appunto nella “ora” del dolore e della morte.
La dimensione ecclesiale di quest’esperienza è espressa dall’apostolo con la dottrina del “corpo mistico”, per cui essendo noi tutti “sue membra, ciascuno per la sua parte”, siamo tra noi “membra gli uni degli altri”, dove ognuno “porta il peso degli altri”: la comunità cristiana si edifica attraverso questo movimento di reciproca autodonazione e accoglienza.
Il principio che rende possibile l’efficacia positiva della sofferenza è l’atto reden¬tivo del Cristo, accolto dal discepolo nella fede. La sofferenza, la morte e la ri¬sur¬rezione di Cristo, hanno un significato di “redenzione” della sofferenza umana, che perde in tal mondo il suo non-senso. Sicché l’uomo, soffrendo “a causa di” Cri¬sto op¬pure “in unione a” Cristo – a questo punto le due motivazioni, in un certo senso, si equival¬gono – diviene partecipe della soffe¬renza del Cristo: ora, la sua soffe¬renza acquista “senso” (SD 24.14-18). Il significato che la sofferenza dell’uomo acquista quando è inserita in quella di Cri¬sto, è da leggersi all’interno della verità più volte ripresa da Giovanni Paolo II (RH 8-12; DM 68; DV 39-41) che Dio vuole il bene delle crea¬ture, e vuole soprattutto la dignità della persona umana; l’opera della re¬denzione non è distaccata da quella della crea¬zione, ma ne è un prolungamento e un rin¬novamento. Sicché il “valore salvi¬fico” della sofferenza nasce da un uni¬verso dotato di senso, per¬ché il Dio Creatore guida tutto verso un fine da lui stabilito. Egli in-tende co¬municare la sua “gloria” agli uomini, ossia intende ren¬derli partecipi della pro¬pria pie¬nezza di essere e di vita, del valore divino in quanto viene manifestato e parteci¬pato agli uomini.
Tale progetto, Dio lo attua servendosi della collaborazione delle sue crea¬ture, le con¬duce progressivamente verso la piena matu¬rità tramite il Fi¬glio incarnato, “autore e per¬fezionatore delle fede” (Eb 12, 2). In tal modo, all’interno dell’esi-stenza umana, è in¬serito un principio vitale che comunica una sua qualità: far sì che gli uomini vivano “per Iddio”, “a gloria del Padre” e non per se stessi, vivano sull’esempio del Figlio. Per questo la sofferenza diviene l’“occasione” perché di fatto si at¬tui l’obbe¬dienza alla volontà del Padre: la sofferenza svolge il ruolo di appello, di chiamata, di occasione che provoca l’autodo¬nazione del¬l’uomo. Così egli raggiunge la sua piena maturità e manife¬sta la sua “grandezza spirituale”.
L’atteggiamento del cristiano di fronte alla sofferenza si esprime dunque in due maniere: la prima consiste nell’amore radicale come autodo¬nazione quale è ap¬parso in Gesù Cristo: amore per gli altri, dono di sé nel servizio per combattere la sofferenza o per alleviarla, impegno per venire incontro in ogni modo a chi è colpito dal dolore o dalla sventura. In tale aspetto sono da comprendersi quei patimenti che il credente affronta per lottare contro la sofferenza e le sue cause, per vincere le malattie e affermare la vita, per confrontare le ingiustizie, le mancanze di solidarietà, per opporsi al disimpegno o alla cattiveria di chi è motivo di sofferenza e di schiavitù, di umiliazione per altri.
La seconda maniera sta nell’amore di abnegazione somigliante al Crocifisso, alla sua “kénosis” e “tapéinosis”. é l’atteggiamento da assumere quando si è personalmente nella sofferenza né questa può essere eliminata, oppure, con fondati motivi, si può supporre che il Signore voglia associarci al suo patire. In queste circostanze, l’atteggiamento appropriato del credente è desiderio ar¬dente d’essere associati al Crocifisso, alla sua condizione di svuotamento e di umiliazione – come è dato vedere nella tradizione dell’ascesi e della mistica cristiana, e come è espres¬so da innumerevoli figure eminenti della storia del cristianesimo.
Come si vede, in ambedue le modalità di partecipazione al Cristo sofferente, la rivela¬zione biblica suppone la corresponsabilità dell’uomo ad essere recettivo dell’aiuto prove¬niente da Dio. All’uomo in fine è chiesto l’atteggiamento che può esser descritto come au¬toaffidamento attivo, un essere attivi sotto la grazia, un affidamento responsabile.
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CINÀ GIUSEPPE

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