DON ANTONIO

lunedì 7 maggio 2012

Amare anche nel dolore, ecco ciò che salva la vita del cristiano







Tratto da:
Enzo Bianchi, Elogio della debolezza, Avvenire, 10 luglio 2011

Guida alla lettura
In questo breve ma denso articolo Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, illustra il vero
significato della debolezza e della sofferenza nell’etica cristiana. Un significato spesso oscurato,
attraverso i secoli, da una frettolosa interpretazione di passi peraltro cruciali del Nuovo
Testamento, al punto che una spiritualità tuttora molto diffusa predica il dolore come via di
salvezza. Mentre Cristo ci ha insegnato, prima di tutto, che non è il dolore in sé che conferisce
senso ai nostri giorni ma l’amore con cui si vivono tutte le situazioni della vita, anche quelle di
dolore; e, in secondo luogo, che “amore” significa non soltanto il nostro amore per gli altri e per
Dio, sempre potenziale fonte di orgoglio, ma anche accoglienza dell’amore che gli altri e Dio
nutrono per noi: una dinamica che, per quanto possa sembrare paradossale, è molto più difficile da
accettare, perché si fonda sul riconoscimento della propria radicale condizione di non
autosufficienza.
Questo nucleo di pensiero è talmente fondativo nella visione cristiana che persino la sofferenza che
il credente patisce per propria colpa può diventare, se vissuta senza rinnegare l’amore, luogo in cui
Cristo si manifesta e dona nuova fiducia nel futuro. Una fiducia incomparabilmente più potente di
quella che possiamo suscitare noi esseri umani, perché non è solo generica speranza che le cose
possano volgere al meglio, ma vita nuova, tempo propizio (kairós), forza efficace per cambiare in
profondità (metánoia). Scrisse un giorno Jean Daniélou, teologo francese: «Nulla è irrevocabile, né
fallimenti né infedeltà… Ritornare a Dio è sempre un inizio assoluto, perché la potenza di Dio è
senza limiti». Per il credente, un’apertura di orizzonti così assoluta è davvero la “buona notizia”
(euanghélion) capace di dare sostegno e orientamento a tutta la vita.

Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così
la debolezza, l’asthenía che nasce dalla malattia, dall’handicap, dall’umiliazione, dalla sofferenza
imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può diventare
addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù
nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare
avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati,
affamati (cf. Mt 5,1-12). L’Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura
quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta
la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi
ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo. Perciò
mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle
angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10).
In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al
- Il dolore e la spiritualità 14/09/11
Amare anche nel dolore, ecco ciò che salva la vita del cristiano
lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo
mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo.
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla
sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma
è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa
viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di
Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento,
è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo
disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la
debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.
Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando
tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la
violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una
possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi
sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per
essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come
comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta
caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza
voler «dare testimonianza» a noi stessi?
Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo
o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando
ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le
mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo
allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha
messo la sua tenda.
C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella
dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in
cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e
agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere
stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la
chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze
di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù
nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì,
dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da
vivere senza tradire l’amore.
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella
storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per
sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal
suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva
capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli
altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad
esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici
25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di

Il dolore e la spiritualità 14/09/11
Amare anche nel dolore, ecco ciò che salva la vita del cristiano vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova.

Biografia
Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla
facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione
abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una
comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità.
È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse
nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International
Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di
lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica
che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone,
Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi,
Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera,
Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di
articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie
Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico
del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e
consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della
rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e
Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo
dei Vescovi.


www.fondazionegraziottin.org

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