DON ANTONIO

domenica 15 gennaio 2012

Chiesa e mondo in dialogo .Fondamenti teologici e indicazioni pastorali nella “Gaudium et Spes”di Bruno Forte





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Chiesa e mondo in dialogo
Fondamenti teologici e indicazioni pastorali nella “Gaudium et Spes”
di
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
(Incontro del Clero, Chieti, 10 Gennaio 2012)
Introduzione: dalla riscoperta della storia nella coscienza della fede al dialogo
Chiesa - mondo
Generata dall’alto, dall’iniziativa trinitaria dell’amore, la Chiesa vive il suo
pellegrinaggio nel lungo intervallo che sta tra la Pasqua di Cristo e il tempo della
gloria, quando il Risorto tornerà circondato dagli angeli e dai santi. Nel sabato del
tempo, che prepara la domenica senza tramonto del ritorno glorioso del Figlio
dell’uomo, la Chiesa avanza frammista alle opere e ai giorni degli uomini: il suo
impegno non potrà essere quello di una fuga mundi, né di una ricerca di Dio in
extremis, ma dovrà costruirsi nell’obbedienza alla Parola della vita sempre e
totalmente nella storia, in dialogo con gli uomini, nel mezzo del villaggio, dove ci
sono il silenzio delle lacrime, il chiasso del mercato, la festa della lode e la durezza
della bestemmia. Discepolo di Gesù è colui che ha tempo per gli altri, come il suo
Dio ha avuto tempo per lui: vive, cioè, la carità nel sabato del tempo, nella sequela
dell’Amato di fronte alle possibilità sempre nuove della storia, nel dialogo con la
comunità degli uomini in tutte le sue sfide e le sue promesse.
Tutto questo, però, non è scontato, deve anzi essere sempre di nuovo motivato,
attraversando a volte passaggi epocali, vivendo conversioni di mentalità e di stili
radicati: così è stato nel Novecento teologico, percorso per intero dalla sfida della
storia, da accogliere, discernere e assumere all’interno della coscienza e dell’agire
credente. Questo processo ha avuto il suo culmine nel Concilio Vaticano II, non a
caso definibile come “il Concilio della storia”, ma si è venuto maturando attraverso le
vicende fondamentali del pensiero della fede del cosiddetto “secolo breve” (Eric
Hobswam), aperto dalla crisi della prima guerra mondiale e chiuso dalla dissoluzione
del sistema dei blocchi contrapposti a partire dal 1989. Si può parlare di un triplice
ingresso della storia nella teologia del Novecento1. Il primo si colloca negli anni
venti del secolo: la guerra mondiale 1914-1918, vanificando le presunzioni liberali
borghesi e sovvertendo gli equilibri di conservazione politica e spirituale, che
sembravano indistruttibili, aveva prodotto un senso profondo di crisi.
Mentre si spegneva il mito liberale del progresso, lo spazio si andava facendo
vuoto e si poneva in modo radicale la questione del futuro, con una rinnovata
coscienza della complessità della storia. Il rifiuto dell’orizzonte idealistico-liberale
dava a questa coscienza un carattere aperto: si faceva strada la consapevolezza della
possibilità che la storia investisse il pensiero con nuova freschezza, a cominciare
1 Cf. B. Forte, Cristologie del Novecento, Queriniana, Brescia 19953.
2
dagli eventi della rivelazione biblica. “Il destino di questa generazione - scriveva ad
esempio Friedrich Gogarten - è di trovarsi fra i tempi. Noi non siamo mai appartenuti
al tempo che oggi volge alla fine. Forse apparterremo una volta al tempo che verrà? e
anche ammesso che da parte nostra si sia in grado di appartenergli, esso verrà tanto
presto? Così ci troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto”2. Questo spazio era
avvertito come aperto al nuovo assoluto, alla domanda teologica pura: “Lo spazio è
diventato libero per la domanda su Dio. Finalmente. I tempi si sono staccati l’uno
dall’altro e ora il tempo sta in silenzio”3.
Se molti furono tentati di riconciliarsi col reale mediante un semplice
superamento ideologico della crisi (si pensi alle ideologie totalitarie), si affacciò in
altri un processo di crisi del pensiero, cui sembrava imporsi il reale con le sue infinite
possibilità, con le lacerazioni e i rischi che gli sono connessi. La storia entrava
soprattutto per questa via nelle vene del pensiero della fede e le animava di nuova
vita schiudendo potenzialità insospettate: questo primo ingresso si identificò con la
rinnovata attenzione prestata all’Oggetto puro della fede cristiana, colto nel suo
dinamismo storico di rivelazione. Contro le secche del pensiero liberale, prigioniero
di se stesso, è un nuovo, fresco risuonare della Parola, una rinnovata e profonda
percezione dell’incatturabilità e della potenza dell’avvento divino. È Karl Barth a
dare voce a questo nuovo inizio: occorre lasciar parlare l’avvento di Dio, scoprendo
“nelle parole il rapporto delle parole alla Parola”. Questa forte e densa sottolineatura
del primato di Dio e dell’esigenza per l’uomo di porsi radicalmente in ascolto, trova
una corrispondenza significativa nella reazione cattolica antimodernista, come anche
nell’ampio “ritorno alle fonti” (“ressorcement”), bibliche, patristiche e liturgiche, che
caratterizza la ricerca di questo periodo. In forme diverse e con diversi accenti, è l’ora
di una nuova scoperta del primato dell’avvento di Dio di fronte al quale sta il
cammino esodale dell’uomo.
La ripresa riflessa del valore della componente antropologica, per tanti aspetti
mortificata dalla violenza dei totalitarismi ideologici, segnò il secondo ingresso della
storia nel pensiero teologico novecentesco: in continuità con la moderna emergenza
della soggettività, ma anche alla luce della riscoperta dell’iniziativa divina, si andò
evidenziando l’apertura del cuore e della mente dell’uomo, il carattere storico della
sua ragione e la radicalità delle sue domande. È la cosiddetta “svolta antropologica”,
che va dal recupero della categoria dell’incontro e dell’interpretazione esistenziale in
Rudolf Bultmann, alla più generale ricerca ermeneutica, tesa a far sì che i testi della
Scrittura parlino al nostro presente e sovvertano o consolino l’interlocutore umano
con la loro forza. Nella stessa linea si muove in teologia la riflessione
sull’autotrascendenza umana, specialmente in Karl Rahner, che, pur con ottiche
differenti, è mossa dalla medesima esigenza di pensare la condizione del soggetto
umano davanti e in rapporto al puro Oggetto divino, precisando le condizioni e le
aspettative dell’esodo dell’uomo di fronte all’avvento del Dio vivente. Il risveglio
concreto, poi, di numerosi soggetti ecclesiali (si pensi soltanto alla maturazione delle
2 F. Gogarten, Fra i tempi, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Queriniana, Brescia 1976, 502.
3 Ib., 507.
3
coscienze laicali) si offrirà come un altro aspetto di questo medesimo ingresso della
storia.
Fra riscoperta dell’avvento divino e svolta antropologica la sintesi si andrà
compiendo col terzo ingresso della storia nella coscienza riflessa della fede:
recependo il valore dell’una e dell’altra esigenza, si cerca di pensare propriamente
l’incontro dei due mondi, di Dio e degli uomini, nei loro reciproci rapporti. Si
riscopre così il primato dell’escatologia, non come un capitolo fra gli altri della
dommatica cristiana, ma come “l’aurora dell’atteso nuovo giorno che colora ogni
cosa della sua luce”4 e determina la riflessione della fede come pensiero della
speranza: fra la tesi, che è nel passato (il “già” della promessa), e l’antitesi, che è nel
presente, la sintesi va cercata nel futuro del Dio veniente, il “non ancora” della Sua
promessa, al quale aprirsi con tutto l’impegno dell’attesa. Diversamente da quanto
avviene nella cattura delle ideologie, dove è il presente il luogo del compimento e il
passato e il futuro non sono che antitesi raccolte nel dominio incontrastato dell’atto
della ragione, la ragione teologica è colta come ragione aperta, per la quale sarà il
futuro di Dio che decide ciò che una cosa è, anche se è nell’avvento già compiutosi la
promessa e l’anticipazione del compimento futuro. La verità dell’esodo umano è così
coniugata alla verità dell’avvento divino, nella tensione fra il “già” e il “non ancora”,
costitutiva della salvezza sperimentata nella storia.
Un’analoga circolarità sarà affermata - in più diretto rapporto alle analisi del
presente storico - dalle teologie della prassi, narrative e politiche: “Riflettere partendo
dalla prassi storica liberatrice equivale a riflettere alla luce del futuro su quanto si
crede e si spera, su un’azione trasformatrice del presente, ma non in vitro, bensì
radicandosi dove batte, in questo dato momento, il polso della storia, illuminando il
presente con la Parola del Signore della storia, che si impegnò definitivamente con
l’oggi del divenire dell’umanità, per portarlo al suo compimento”5. La realizzazione
di un tale progetto passa attraverso lo sforzo di prendere sul serio le due forme di
esperienza “che dovranno essere mantenute continuamente e criticamente collegate
l’una con l’altra... per un verso l’intera tradizione d’esperienza del grande movimento
giudaico-cristiano, per l’altro la nuova esperienza umana che oggi fanno i cristiani e i
non cristiani”6. Anche qui è la circolarità ermeneutica soggetto-oggetto, la reciproca
relazione che si pone nella storia fra la Parola veniente e le situazioni umane, che fa
scaturire il pensiero e la prassi della fede: non nel senso di ridurre la Parola alla
storia, né in quello di dedurre la storia dalla Parola, ma nel vivo e forte senso di
leggere la Parola, in tutta la sua normatività, nella storia, e la storia, in tutta la sua
precarietà e complessità, alla luce della Parola.
Si delinea così la forma di una coscienza storica della fede, che tenga insieme i
tre ingressi della storia, propri della teologia del Novecento, che sia, perciò,
fortemente biblica e ricca di ascolto della testimonianza vivente del passato fontale
della fede; che sia densamente esistenziale e concreta, attenta alla complessità del
presente in cui viene prodotta; che coniughi, infine, le due dimensioni in una
4 J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1971, 10.
5 G. Gutierrez, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, 25.
6 E. Schillebeeckx, La questione cristologica. Un bilancio, Queriniana, Brescia 1980, 11.
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permanente apertura al nuovo della promessa di Dio. Di una simile coscienza della
fede ha costituito un’emblematica testimonianza il Concilio Vaticano II: ricco di
memoria della Parola di Dio e dei Padri, attento alla compagnia con l’uomo del
mondo contemporaneo, esso si è posto come profezia di avvenire, nuovo inizio della
situazione storica del cristianesimo. Concilio della storia, il Vaticano II l’ha assunta
nella memoria dell’origine, nella coscienza del presente e nella riscoperta apertura al
futuro, che non solo determina l’indole escatologica della chiesa peregrinante, ma
offre l’orizzonte più vasto per la presenza e l’azione del popolo di Dio nella vicenda
mondana. Questa forte percezione dello stare fra i tempi ha consentito alla riflessione
del Concilio di coniugare esodo e avvento nella maniera più fedele alla complessità
del vissuto ecclesiale e mondano. Fra compagnia, memoria e profezia, il Vaticano II
testimonia l’assunzione consapevole di una forma di coscienza storica della fede,
aperta all’intelligenza accogliente della rivelazione.
Come il Vaticano II motiva l’impegno del dialogo fra la Chiesa e il mondo nella
molteplicità delle sue espressioni, riconoscendovi una forma autentica di fedeltà al
Dio rivelato? La risposta a questa domanda è stata precisata nell’elaborazione del
cosiddetto “Schema 13”, sfociato poi nella Costituzione del Concilio Vaticano II
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, testo fondante per l’esatta
comprensione del rapporto fra Chiesa e mondo. Sono tre gli interrogativi
fondamentali cui il testo conciliare contribuisce a rispondere: il primo è perché il
dialogo vada vissuto “nella” storia, “col” mondo, perché dunque il mondo non sia
semplicemente destinatario dell’annuncio, ma anche luogo del Vangelo, luogo della
presenza di Dio, dove Lui vuole essere incontrato nei segni della storia. Il secondo
interrogativo è come abitare da discepoli di Cristo in questo sabato del tempo, e cioè
con quale stile va vissuto il dialogo del credente e della Chiesa col mondo. Infine,
trova luce nella Costituzione conciliare la risposta alla domanda su quale forma di
dialogo vada privilegiata per mettersi al servizio di un mondo nuovo e vivere la
condizione di testimoni che, attraverso la loro presenza, vorrebbero suscitare il
superamento delle solitudini nelle quali spesso gli uomini si trovano e aiutare a vivere
l’incontro vivificante con Cristo e il suo amore che salva.
1. Il mondo come luogo del Vangelo: la forza di un “perché”
Per comprendere fino in fondo perché il mondo sia luogo del Vangelo e perché,
di conseguenza, l’amore di Dio non possa prescindere dal dialogo con gli uomini,
dobbiamo chiederci quale fosse l’atteggiamento dominante in un non lontano passato
(e qual è forse, ancora oggi, l’atteggiamento di alcuni) nel modo di concepire il
rapporto fra la Chiesa e il mondo. Per richiamare questo modo di porsi e mostrare il
profondo cambiamento operato dal Concilio Vaticano II, si può ricordare la storia del
titolo dello “Schema 13”, che poi divenne la costituzione pastorale Gaudium et Spes.
Originariamente il titolo era De ecclesia et mundo huius temporis, la Chiesa e il
mondo del nostro tempo. Dopo una travagliata vicenda divenne De ecclesia in mundo
huius temporis, la Chiesa nel mondo contemporaneo. Questo cambiamento fu la cifra
di una radicale conversione teologica e pastorale: la Chiesa non veniva più vista come
5
“dirimpettaia” del mondo, ma come un popolo mescolato al mondo, lievito nella
pasta. La Chiesa veniva così a identificarsi in qualche modo con la città terrena, pur
restando altra da essa: non si chiamava fuori dal tempo e dalla storia, riconosceva
anzi la sua vocazione e missione innanzitutto in una solidarietà profonda, perfino in
una sorta di compromissione con la complessità del tempo presente, vivendo però
tutto questo in obbedienza al Cristo, suo unico Signore.
Secondo l’atteggiamento espresso nel titolo De ecclesia et mundo, il mondo è
soprattutto la domanda, la Chiesa è la risposta. In questa concezione del rapporto fra
Chiesa e mondo, la Chiesa è testimone esclusiva della verità, di cui dispone come del
suo tesoro, della sua eredità. E questa verità in sé, che viene dall’alto, donata dal
Signore, la Chiesa deve custodirla e annunciarla destinandola a un mondo senza
verità, che non conosce la bellezza di Dio. Di conseguenza, l’atteggiamento del
credente verso il mondo è unidirezionale: ricevendo tutto da Dio, egli prosegue nel
tempo il movimento “kénotico” (cf. Fil 2,6ss) dell’Eterno, la discesa del dono
dall’alto per portarlo fin nelle pieghe più recondite della storia. Si tratta di un
atteggiamento nobile, che ha motivato la passione del Vangelo in tantissimi santi ed è
all’origine del grande impulso missionario dell’epoca moderna: un atteggiamento che
spesso ha ispirato i fondatori di grandi famiglie religiose e delle opere sociali e
missionarie da esse compiute.
C’è, tuttavia, un elemento che ci rende pensosi di fronte a questa impostazione.
Lo esprimo con le parole di Walter Kasper: “La realtà di un mondo senza Dio, di
fronte alla quale ci troviamo, è in parte solo la reazione a un Dio senza mondo”7. Una
Chiesa che proclama la verità in sé, che viene dall’alto e deve essere unicamente
passata al mondo, rischia di risultare del tutto estranea e indifferente al mondo. È la
Chiesa casta meretrix, secondo la formula di sant’Ambrogio8: la Chiesa santa, che,
poiché deve dare la sua santità ai peccatori, in qualche modo si contamina
avvicinandosi ad essi. È il commercium del dono della santità al mondo, che in
quanto puro e semplice destinatario di essa è solo tenebra e peccato. Con la Gaudium
et Spes il modo di porsi verso il mondo cambia profondamente: la Chiesa riconosce
di essere l’amata, il luogo della verità di Dio, ma insieme scopre che la verità di Dio
non abita esclusivamente in lei. La Chiesa contempla la verità, più grande del suo
cuore, e, riconoscendo la sua piccolezza davanti ad essa (si pensi alla formula audace
della Dei Verbum, n. 8: “la Chiesa tende incessantemente alla pienezza della verità
divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio”), si apre alla
possibilità che il mondo stesso possa essere luogo della verità, che ci siano semi di
verità in esso, presenze della gloria di Dio nascoste nei frammenti della storia.
Questa constatazione cambia profondamente il modo di guardare il mondo da
parte del credente. La Chiesa non è più semplicemente la padrona del vero, che si
rivolge alla massa dannata da illuminare e salvare; mentre vive l’obbedienza della
fede al Vangelo in cui ha creduto, la comunità credente sente il bisogno di scoprire
nelle pieghe della storia la presenza di Dio, e si pone perciò verso il mondo in un
atteggiamento di dialogo, di attenzione, di ascolto, senza peraltro rinunciare alla
7 W. Kasper, Il mondo come luogo del Vangelo, in Id., Fede e storia, Queriniana, Brescia 1975, 160.
8 Nel Commento al Vangelo di Luca 3, 17-23.
6
proclamazione della buona novella. Su questi temi si è a lungo dibattuto e cercato,
prima, durante e dopo il Concilio. Che cos’erano i conflitti intraecclesiali della
Chiesa italiana all’inizio degli anni Ottanta (come, ad esempio, la polemica fra i
cristiani “della presenza” e i cristiani “della mediazione”) se non un ripresa della
questione che ho evocato? Questo dovrebbe però farci capire che non stiamo
parlando di altri: “de re nostra agitur”! Qui si decide il destino del nostro modo di
essere Chiesa, lo stile della nostra presenza, la passione più profonda del nostro
vivere l’annuncio evangelico.
Se questo è vero, dobbiamo chiederci per quali ragioni teologiche possiamo e
dobbiamo dire che la verità di Dio va riconosciuta nella fatica e nella complessità
della storia. La Costituzione Gaudium et Spes offre tre prospettive di soluzione alla
questione. La prima è la motivazione teologica: “Dio vide che ciò era buono” (tov:
Gen 1, passim). La bellezza di Dio ha baciato tutte le cose, e dunque in tutto ciò che
esiste è presente un segno della divina bellezza, per il semplice fatto di esistere.
Ignazio di Loyola mostra questa verità nella sua Contemplazione per ottenere
l’amore9: quando Dio crea il mondo, lo crea per amore. Tutto ciò che esiste, esiste per
amore. L’essere porta in sé l’impronta dell’amore eterno. Dio ama tutti gli esseri e
per Ignazio la conseguenza profonda di questo “essere come amore” è che ogni cosa
merita la reverencia, non solo l’essere umano, ma ogni creatura. In tutto ciò che
esiste c’è l’amore creatore che lo fa esistere. Dunque, rispettare la creatura,
riconoscerne la bellezza, anche sfigurata dal male, vuol dire amare e lodare Colui che
è la sorgente di ogni dono perfetto. Sta qui la motivazione teologica “pura”, che porta
a riconoscere nel mondo il luogo della grazia: impegnarsi per un mondo migliore è
impegnarsi per Dio; servire la causa della promozione umana è rendere gloria
all’Eterno.
La seconda motivazione presente nella Gaudium et Spes è di tipo cristologico:
tutto è stato creato per mezzo di Cristo e in vista di Lui (cf. l’inno di Col 1,15-16). Da
qui derivano due grandi conseguenze: c’è una dimensione cristica della creazione e
c’è una dimensione cosmica dell’incarnazione. La dimensione cristica della creazione
indica che ogni cosa è destinata al Cristo, porta in sé la vocazione alla Sua luce. La
dimensione cosmica dell’incarnazione, invece, ci fa vedere come, facendosi uomo,
Cristo abbia assunto la natura umana, per cui tutto in qualche modo è portato in Lui.
In ogni cosa il credente può riconoscere il suo Signore amato: “mihi vivere, Christus
est” (Fil 1,21). Cristo è in ogni realtà che esiste, perché tutto ha assunto in sé. Cristo è
colui che è venuto a far risplendere la luce nascosta in ogni cosa (“Io sono la luce del
mondo”, Gv 8,12), a farci riconoscere in tutto ciò che esiste l’originario splendore,
come avviene sul Tabor. Seguire Gesù con cuore indiviso vuol dire allora offrire la
propria vita, perché in ogni situazione umana risplenda la Sua bellezza e il disegno
creatore di Dio, plasmato sul Figlio eterno, venga a realizzarsi nella storia degli
uomini.
La terza motivazione, presente nel Concilio a favore di un riconoscimento
dell’amore al Creatore nella carità verso le creature, è quella pneumatologica: lo
Spirito soffia dove vuole. Dobbiamo ascoltarne i gemiti dovunque siano presenti nel
9 Nella Quarta Settimana degli Esercizi Spirituali: nn.230-237.
7
cuore dell’uomo e nel cuore della storia per aprirci al dono di Dio. È la teologia dei
segni dei tempi riscoperta e riproposta dal Vaticano II. Qui risulta chiaro che
l’atteggiamento del cristiano nel mondo non potrà essere unidirezionale, come di chi
pensasse di avere tutto da dare a chi non ha niente, ma deve diventare quello di chi
vive la fatica di un rapporto vivo e complesso con l’altro, riassumibile in un triplice
compito: non dedurre mai la storia dal Vangelo; non ridurre mai il Vangelo alla
storia; mantenere sempre in una tensione feconda il Vangelo e la storia. Non dedurre
la storia dal Vangelo vuol dire non ritenere mai che di fronte ai problemi e alle sfide
abbiamo le soluzioni pronte, quasi che tutto sia già scritto e che da padroni della
verità possiamo dispensarla come se il mondo nulla avesse da dirci. Molte volte la
nostra azione pastorale risulta irrilevante perché rispondiamo a domande che nessuno
ci pone, o poniamo domande che non interessano nessuno. Il problema vero non è
dare risposte, ma suscitare e riconoscere le vere domande. La carità vissuta non
consiste nel trasmettere anzitutto delle risposte prefabbricate, ma nel far nascere nel
cuore dell’uomo l’inquietudine delle domande che fanno crescere.
Il rischio opposto è quello di voler ridurre il Vangelo alla storia, facendo del
messaggio evangelico una semplice variante della ideologia di moda. Occorre aver
chiaro che il Vangelo è irriducibile alle sole coordinate mondane. Come diceva il
giovane Lutero, “vere verbum Dei, si venit, venit contra sensum et votum nostrum”,
la Parola di Dio, se arriva, arriva sconvolgendo la nostra sensatezza e il nostro
desiderio. Il Vangelo è un fermento critico, una riserva escatologica che inquieta il
mondo. Nello Spirito occorre, allora, tener sempre viva la tensione fra Vangelo e
storia per discernere i sentieri della carità che edifica e salva. Nessuna formula che sia
alla base delle nostre scelte può darsi per scontata. Occorre amare Dio ed essere
docili al Suo Spirito, mettendosi in continuo ascolto della novità della sua voce: la
frase di San Bernardo “non est status in via Dei, immo mora peccatum est”, “non si
dà sosta nella via di Dio, perfino l’indugio è peccato”, vale in modo stringente per la
continua riforma dell’agire di chi si consacra alla Sua causa in questo mondo nel
servizio degli uomini.
Dobbiamo chiederci allora: come vivere questo coraggio della novità sempre
nuova, dell’“aggiornamento” del nostro operare in sintonia col soffio dello Spirito?
Come aiutare i credenti impegnati sulle frontiere più diverse del dialogo e
dell’incontro con gli altri a saper “dire” ogni giorno, in modo credibile, la freschezza
dell’annuncio evangelico, in ciò che essi sono e fanno, aperti al dialogo sincero e
generoso con tutti? Un primo orizzonte di luce ci viene da ciò che abbiamo detto: se
il mondo è luogo del Vangelo, servire la promozione umana non solo non è contrario
all’adorazione di Dio, ma ne è espressione autentica e necessaria. Chi si è consacrato
al Signore con tutto il cuore e per tutta la vita, non troverà nel dialogo o nell’agire al
servizio degli uomini uno spazio neutro o addirittura un ostacolo a quest’unico
amore, ma potrà vedervi una realizzazione dell’incontro con l’Amato, l’irradiazione
di esso. Questo richiede, però, che le sue scelte nascano da una profonda unione con
Dio, contino sull’aiuto della Sua grazia più che sui mezzi umani e non avanzino
alcuna pretesa di merito: siano, insomma, opere della fede e non della legge, frutto
8
della gratuità di un cuore che ama e non della ricerca di gratificazione di una vita
povera di amore. Come assicurare che questo avvenga in noi e nel nostro agire?
2. Il discernimento dei segni dei tempi: lo stile di un “come”
Come vivere nel sabato del tempo il Vangelo della carità, coniugando
efficacemente il Vangelo e il dialogo con tutto l’uomo, in ogni uomo? La risposta mi
sembra vada cercata nell’esercizio del discernimento spirituale e pastorale, cioè nella
capacità di leggere nella complessità delle situazioni umane i segni dei tempi. È
ancora la teologia della Gaudium et Spes a venirci incontro, in modo particolare
quella espressa nei numeri 4, 11 e 44, testi programmatici che impegnano la Chiesa a
discernere sempre nuovamente i segni di Dio nella storia. Dice Gesù: “Quando si fa
sera, voi dite: ‘Bel tempo, perché il cielo rosseggia’; e al mattino: ‘Oggi burrasca,
perché il cielo è rosso cupo’. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete
capaci di interpretare i segni dei tempi?” (Mt 16,2s). Che cosa sono questi segni dei
tempi? In generale potremmo definirli come le tracce della gloria divina nascosta
sotto gli eventi e le parole della storia. Discernere i segni dei tempi vuol dire allora
leggere nella complessità della storia la presenza del Dio vivente e del suo Spirito che
ci orientano a Cristo e alla costruzione della città futura da lui iniziata e promessa.
Per compiere questa lettura occorre unire tre momenti, che scandiscono lo stile del
discernimento, che è poi lo stile del dialogo fra la Chiesa e il mondo, la presenza del
cristiano nella comunità degli uomini: assumere la complessità; confrontarla con il
criterio della Parola; avanzare proposte provvisorie e credibili.
Assume la complessità chi non presume mai di avere la soluzione pronta ai
problemi e alle sfide del cambiamento in atto nelle diverse situazioni in cui vive. Ai
discepoli di Cristo va raccomandato di non lasciarsi guidare in nessun caso da
un’ideologia prefabbricata, che s’imponga alla storia astrattamente. Ciò che occorre è
“aggiornare” le nostre scelte, vivendo sempre di nuovo la fatica dell’ascolto,
aprendoci all’audacia della compagnia, intesa nel senso etimologico dello spezzare
insieme il pane: bisogna, insomma, sempre di nuovo “uscire dall’accampamento”, per
andare “verso di lui (Cristo)”, se necessario “portando il suo disonore”, e cioè
abbracciando la croce, poiché “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in
cerca di quella futura”(Eb 13, 13s). Occorre impegnarci tutti a essere una Chiesa che
ascolta, che condivide, la cui gloria è innanzitutto nell’essere “con” prima che
nell’essere “per”, una Chiesa amica degli uomini e della loro fatica di vivere: quella
voluta, appunto, dal Vaticano II. Chiamarsi fuori dalla complessità con soluzioni
semplicistiche, frutto di schemi ideologici o di ripetizioni passive (all’insegna del “si
è sempre fatto così!”), è tradimento del Dio vivo, che si lascia invece incontrare nella
complessità del tempo e delle vicende umane, come abbiamo appena mostrato alla
luce della teologia della Gaudium et Spes e dei suoi fondamenti biblici e patristici.
Assumere la complessità vuol dire, in particolare, non avere fretta nella ricerca
delle soluzioni, avere anzi la pazienza dell’ascoltare e dell’imparare, accettando la
fatica di volersi docili allo Spirito nel raccogliere la sfida dei mutamenti. Dobbiamo
imparare tutti dalla sapienza dei poveri, che hanno la capacità di “sopportare la
9
fatica” del tempo. Assume la complessità chi ascolta le competenze, rispetta il rigore
dei diversi approcci alla complessità del reale: un pastore che volesse parlare di
economia, senza ascoltare gli economisti, non sarebbe un maestro, ma un ignorante.
Dovremmo tutti educarci a questa sapienza delle competenze da accogliere e da
rispettare per leggere la complessità della storia e non fare delle nostre scelte le
conseguenze di una sia pur inconsapevole ideologia. Questa pazienza e questa
sapienza della carità non giustificano, peraltro, alcun rimando all’infinito: la ricerca
necessaria all’“aggiornamento” non potrà mai essere alibi a conservare il già dato per
la semplice paura o pigrizia di non rinnovarsi! La nostalgia delle sicurezze passate è
chiusura alla novità dello Spirito almeno quanto lo è il prurito di novità che salta
sull’umile e faticosa lettura dei segni dei tempi!
Il secondo compito per vivere il discernimento necessario nel dialogo è quello di
valutare la complessità alla luce della Parola di Dio. Come diceva Karl Barth, “il
cristiano ha in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale”: il criterio ultimo delle sue
scelte è la rivelazione divina. Sub verbo Dei vive chi crede: sotto la Parola di Dio, in
ascolto e in obbedienza ad essa. La Parola, tuttavia, cresce con chi la legge, come
dice san Gregorio Magno: “Scriptura cum legente crescit”10. Bisogna bussare alla
porta delle Scritture con la violenza dei violenti che conquistano il Regno (cfr. Mt
11,12). Che cos’è questa violenza se non l’urgenza delle domande del tempo? Sta qui
la fatica di leggere nella complessità la presenza di Dio: quando si mette a confronto
la Parola con le sfide della vita e della storia, essa sprigiona tutta la sua luce, assolve
alla funzione del servus lampadarius, che nel mondo romano andava avanti nella
notte per illuminare il cammino. La Parola - come il servus lampadarius - illumina
quel tanto di strada che basta ogni giorno per avanzare verso il domani promesso.
Così, “ogni giorno è sufficientemente lungo per sostenere la lotta per conservare la
fede” (Dietrich Bonhoeffer). La fede è agonia, passione, lotta con la Parola, perché
dalla Parola si sprigioni la luce delle sorgenti della vita. Dobbiamo dialogare con la
Parola perché essa ci doni il suo frutto nella complessità del presente.
Finalmente, perché ci sia discernimento spirituale e pastorale occorre unire
l’ascolto del tempo e l’ascolto della Parola, avanzando proposte provvisorie e
credibili. Non si tratta di giungere a soluzioni definitive: non ci sono risposte
ideologiche ai mali del mondo. Come credenti, nei dialoghi cui saremo chiamati
avanzeremo proposte provvisorie, umili, per la situazione e il tempo che ci è dato di
vivere. L’importante è che queste proposte siano credibili, caratterizzate, cioè, dalla
doppia fedeltà all’eterno e al tempo, alla Parola e alla storia, al mondo presente e al
mondo che deve venire. L’etica cristiana è l’etica della duplice fedeltà: e vivere la
doppia fedeltà è a volte lacerante, perché ci chiede di essere nel tempo coloro che
ricordano la patria di Dio, segno di contraddizione per tener viva la nostalgia del
mondo futuro promesso. “L’esilio vero d’Israele - afferma un detto rabbinico -
cominciò il giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio”: l’esilio
non comincia con la lontananza fisica, ma con quella del cuore, quando si è persa la
nostalgia della patria. Vivere il desiderio della Gerusalemme celeste vuol dire vivere
10 Commento morale a Giobbe, XX,1.
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nel presente, fino in fondo, l’inquietudine della ricerca incessante di soluzioni
provvisorie e credibili.
Se la Chiesa del Vaticano II è l’“Ecclesia semper reformanda”, “semper
renovanda et purificanda”, non di meno sono chiamati a rinnovarsi e riformarsi i
battezzati di oggi nello spirito dello stesso Concilio. Operare da discepoli di Gesù non
è compito che possa sottrarsi alla fatica di un tale “aggiornamento”: e la sola
condizione possibile per adempierlo è vivere lo stile del discernimento spirituale e
pastorale attento ai segni del tempo, aperto all’ascolto della Parola e capace di
coniugare le due fedeltà - a Dio e alla storia - nell’unico amore di carità. Ciò richiede
libertà dalla paura del nuovo e dalla nostalgia del passato, disponibilità a mettersi in
gioco con coraggio, fiducia nell’azione sempre nuova dello Spirito nel tempo. Solo
così potremo trovare le chiavi che ci aiutino a discernere i tempi che stiamo vivendo e
arriveremo a ipotizzare nuovi percorsi di carità, o perlomeno modi nuovi per
incarnarla credibilmente nell’oggi. Solo così potremo comprendere se e come nella
varietà dei contesti la profezia della vita cristiana dovrà essere più “visibile” o più
“anonima”, più “istituzionale” o più “di frontiera”, più “creativa” o più “organizzata”.
Sulla via di un tale ascolto docile dello Spirito, potremo trovare - se necessario -
il coraggio di lasciare quello che già ci fosse garantito per “buttarci” sulla strada, in
ascolto dei nuovi poveri e delle nuove povertà, confidando più nella Provvidenza di
Dio che sulla previdenza degli uomini. Inoltre, sarà solo un attento discernimento che
potrà farci comprendere il ruolo preciso della collaborazione dei laici, interessati in
prima persona a capire come coniugare la loro professionalità con la necessità di
testimoniare il Vangelo. Non si stanno forse profilando anche per i laici nuovi modi
per incarnare e vivere la propria fede? Non è urgente anche per loro discernere come
stare nel mondo? Basterà che essi vivano la carità come lo chiede il mondo, con le
sue leggi e i suoi accreditamenti? Oppure c’è un “quid” in più, richiesto anche a loro?
E se c’è, qual è? E che cosa possono fare i pastori cui essi si riferiscono per non
essere né di ostacolo, né di scandalo al loro cammino e alle loro scelte di obbedienza
a Dio?
3. La via del dialogo al servizio di una Chiesa viva in un mondo nuovo:
umile, discreta e bella
Arriviamo così all’ultimo arco del nostro ponte fra il pensiero e la vita, riflettendo
sul dialogo dell’amore: quale carità siamo chiamati a vivere nel sabato del tempo?
Alla luce di quello che abbiamo detto - pensando il mondo come “luogo del
Vangelo”, e dunque una carità che si edifica nella compagnia degli uomini, e al
tempo stesso proponendo una carità che non ha soluzioni facili, ma deve vivere il
discernimento come suo stile - è possibile qualificare il dialogo della carità, cui siamo
chiamati, e il suo stile con tre aggettivi: umile, discreto e bello.
a) Umile è il dialogo che non sceglie il suo interlocutore in forza della
gratificazione che se ne aspetta: a muoverlo è la carità “gratuita”, ex nihilo, che ama
perché ama e da null’altro è motivata ad amare che dall’urgenza dell’amore e
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dall’altrui bisogno. Ricordiamo la frase di san Bernardo, ripetuta tante volte da
Lutero: “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, Dio ci rende buoni e belli perché
ci ama”. Dio non ha ragioni per amare e dialogare con noi, se non l’amore. L’umiltà
di Dio è il modello del dialogo dell’amore cui siamo chiamati: Dio ama per amore,
soltanto per amore e ci rende capaci di questo possibile - impossibile amore, che è la
carità, con la Sua grazia. Un amore impossibile, perché da soli non ce la faremmo
mai a viverlo, e possibile perché Lui ce ne rende capaci. L’“impossibile possibilità”
di Dio è l’amore gratuito cui Egli ci chiama.
La domanda che dobbiamo farci sta allora nel sapere se la nostra proposta di
dialogo nella carità agli altri è veramente umile, se, cioè, ciò che facciamo lo
facciamo in vista di un secondo scopo, di un interesse, di un ritorno, o per pura
gratuità, nella compagnia generosa della vita e della storia. Come dice Paolo, “la
carità non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto
spera, tutto sopporta” (1Cor 13,5-7). Ogni opera umana può essere opera della legge
o opera della fede, a seconda che essa motivi la presunzione di giustizia o sia
motivata dall’invocazione della giustizia: non è l’opera a fare giusto l’ uomo, ma è la
fede a rendere giusta l’opera. Chi compie le opere della fede si lascia far prigioniero
dell’invisibile, si consegna al Dio vivente con un amore puro, senza altra motivazione
o interesse al di fuori di Dio stesso. Viene da chiederci: con quale intenzione di
gratuità cerchiamo il dialogo con l’altro? Cerchiamo noi stessi, il nostro successo, la
considerazione e l’accrescimento del nostro possibile potere mondano, o unicamente
l’amore di Dio e dei poveri a cui Lui ci invia? Le nostre sono scelte sono motivate da
logiche di interesse o dalla carità umile e gratuita?
b) Discreto è il dialogo animato dalla carità che non vuole imporre i propri
modelli o progetti, ma che si mette in ascolto dell’altro, entrando in quel processo del
discernimento - “discretio caritatis” - che assume la complessità e la confronta con la
Parola di Dio, avanzando proposte provvisorie e credibili. Questa forma di dialogo sa
leggere la complessità perché si pone in essa con un atteggiamento di ascolto attento
e obiettivo. I medievali avevano una formula densa per esprimere la luce che viene
dalla carità: Ubi amor, ibi oculos. Se si sta in una situazione veramente per servire,
l’amore dà occhi per vedere. “L’essenziale è invisibile agli occhi, solo il cuore lo
vede”, dice Le petit prince di Antoine de Saint-Exupéry. La carità discreta non è
trionfalista, né impositiva di soluzioni arbitrarie o astratte, né ideologica. Essa cerca
la sua via in umiltà, come fa il Poverello di Assisi, pregando davanti al Crocifisso
di San Damiano: “Altissimo, glorioso Dio illumina le tenebre del core mio. E damme
fede dritta, speranza certa e caritade perfetta, senno e cognoscemento. Signore, che
faccia lo tuo santo e verace comandamento”. Proprio così, la carità è anche docta,
capace di coniugarsi alla passione dell’intelligenza. Dice Agostino senza mezzi
termini: “Fides nisi cogitetur nulla est”, la fede se non è pensata non è. La carità, e il
dialogo mosso da essa, se non sono esercitati con intelligenza, rischiano di non essere
veri. Abbiamo bisogno di cristiani adulti, pensosi, non negligenti nel vivere la fatica
del pensiero e della fedeltà: cristiani che usano l’intelligenza, che amano il sapere
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della fede, che dialogano con consapevolezza di causa e preparazione. Non lasciamo
mai la riflessione critica della fede come riserva di caccia di pochi, ma sappiamo
innamorarcene, farla nostra, perché abbiamo bisogno di credenti liberi e pensosi, che
vivano la fatica di credere, ma anche l’infinita gioia di lottare con Dio, possibilmente
lasciando che egli vinca, e di servirlo con intelligenza d’amore.
c) Un simile dialogo, mosso dalla carità, saprà riconoscere, accogliere e
testimoniare la bellezza di Dio: bello è lo sforzo dialogico, della bellezza che viene
dall’alto. Nel Vangelo di Giovanni (10,11) Gesù viene chiamato “il pastore bello” (o’
poimen o kalòs), buono e bello (o’ kalòs). L’ora pasquale rivelerà il volto di questa
bellezza nell’Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore nostro. È l’amore
con cui ci ha amati che trasfigura “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la
faccia” (Is 53,3) nel “più bello dei figli degli uomini”: il crocefisso Amore è la
bellezza che salva. La via del Vangelo è allora anzitutto quella della conversione del
cuore a Cristo: nel Crocefisso Risorto i discepoli incontrano l’Amore incarnato e si
lasciano rendere da Lui capaci di amare. Il dialogo vissuto nella fede e nella carità
sarà bello se sarà animato in chi crede dalla continua conversione a Cristo del cuore,
e se le sue parole nasceranno da un profondo spirito di adorazione e da una continua
scelta di sequela evangelica.
C’è però anche un altro dato evangelico che aiuta a riconoscere nel dialogo una
via del Vangelo della bellezza di Dio: a notarlo è Pavel Florenskij, il “Leonardo da
Vinci russo”, genio della scienza e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di
Cristo, morto martire della barbarie staliniana. Commentando Mt 5,16 - “Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e
rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” - egli osserva che “ ‘i vostri atti buoni’
non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico: ymòn tà kalà
érga vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità
spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande
all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce,
‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora”11. La
testimonianza della carità, via privilegiata per l’annuncio del Vangelo di Gesù, si
compie attraverso lo sfolgorio della bellezza del cuore nelle scelte e negli atti del
dialogo vissuto dal discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito: dove la carità si
irradia dall’interiorità, trasformata dallo Spirito, lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è
resa lode al Padre celeste e cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come
discepoli del Suo amore crocifisso e risorto.
Conclusione: alle sorgenti del dialogo della carità fra la Chiesa e il mondo
Dove una tale bellezza si offre a noi e ci contagia? È lo stesso Florenskij a
indicarci il luogo del misterioso e trasformante incontro dialogico fra l’amore divino
e la nostra fatica di amare. Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa sulla
collina Makovec, rivolta verso il grande Monastero (la “Lavra”) di Sergiev Possad,
11 P.Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 19997, 50.
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cuore del cristianesimo russo, così descrive la paradossale bellezza della liturgia,
simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla terra e l’eternità mette le
sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel “tempio santo, misterioso, che brilla
di una bellezza celeste”:
“Il Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono. Scendeva la sera. I raggi
dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un inno solenne all’Eden. L’occidente impallidiva
rassegnato, e verso di esso era rivolto l’altare, posto sulla sommità della collina. Una catena di
nuvole si stendeva sulla Lavra come un filo di perle. Dalla finestra sopra l’altare erano visibili le
nitide lontananze e la Lavra dominava come una Gerusalemme celeste. Al Vespero il canto ‘Luce di
pace’ sigillava il tramonto. Il sole morente si abbassava sontuoso. Si intrecciavano e si scioglievano
le melodie antiche come il mondo; si intrecciavano e si scioglievano i nastri d’incenso azzurro. La
lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente, qualcosa che
ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva trasformata misteriosamente dalla gioia
del ritorno. E al canto ‘Gloria a Te che ci hai mostrato la luce’ accadeva significativamente che la
tenebra esterna, pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava attraverso la finestra
dell’altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non svanisce, quella gioia del crepuscolo della
grotta. Il mistero della sera si univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola”12.
La liturgia è culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa dell’amore, sorgente
sempre nuova della carità e delle sue opere, perché è il luogo potente dove il mistero
del mondo, che è “il mistero della sera”, si incontra e dialoga con l’eternità, il
“mistero del mattino”, e si lascia trasformare da esso. Nella preghiera che nasce dalla
liturgia e ad essa conduce, l’eternità mette le sue tende nel tempo e il Vangelo della
carità entra nella vita e nella storia. Come testimoniano i grandi Santi, non ci sono
opere e dialoghi di carità autentica che non nascano dall’adorazione di Dio,
dall’azione di grazie e dal sacrificio della lode. La bellezza del dialogo si accoglie
all’altare della vita, dove Cristo si dona per noi: “Il pane è importante - scrive il
gesuita tedesco Alfred Delp, morto martire della barbarie nazista -, la libertà è più
importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione
vera”. Anche nella vita dei credenti in dialogo col mondo e nelle opere cui li chiama
la fedeltà al loro carisma e allo Spirito che soffia dove vuole e parla in maniera
sempre nuova nei segni dei tempi.
12 P. Florenskij, Sulla collina Makovec, 20. 5. 1913, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale
Monferrato 1999, 260s.

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