Questo blog è personale. Contiene alcune omelie rivolte ai fedeli di Stoner di Enego,provincia di Vicenza, dal 1986 al 2002 ed omelie dal Monastero di Bose. Il blog contiene inoltre molte riflessioni sulla speranza cristiana , sulla sofferenza, sul senso del dolore , ricavate dalle pagine WEB, contiene anche qualche preghiera e altre verità della nostra religione cristiana cattolica.
domenica 28 agosto 2011
La speranza e il dolore
Che succede quando un vescovo entra in malattia? O quando si ammala un cristiano comune che ha un ruolo nella Chiesa? Può venirne un grande fatto, di preghiera e di comunità. È capitato più volte, negli ultimi anni e sta ricapitando oggi, a Belluno e nell'Azione cattolica italiana.
Vincenzo Savio: «Mi metto
alla scuola del dolore»Per San Martino, patrono di Belluno, il vescovo è in clinica e scrive alla sua comunità una lettera che viene letta, in cattedrale, dal vicario generale Giuseppe Andrich: «Non so ancora dirvi niente perché solo i prossimi giorni mi permetteranno di valutare lo spessore e la qualità del disturbo che sento da alcuni mesi». La certificazione medica viene pubblicata il 13 novembre: «Affezione neoplastica addominale suscettibile di trattamento chemioterapico per via sistemica».
Ma una diagnosi dice il male e non il malato. Ed ecco che domenica 24 novembre il Gazzettino pubblica un'intervista così intitolata: «Parla il vescovo Savio che ha voluto rendere pubblico il cancro di cui è affetto».
«Sono uno che sta imparando l'alfabeto della malattia. Ero abituato a una corrispondenza tra quello che sognavo e quello che realizzavo. Non so che cosa il Signore sta predisponendo per me. Non so che cosa ci sia oltre la curva. Per i malati non ho parole, ma mi sento partecipe alla loro sofferenza. Ora vivo l'orizzonte delle speranze. La malattia mi sta buttando dentro l'amore sconfinato della gente. Persone che dicono di offrire la loro vita perché io guarisca. È una ricchezza straordinaria che sto vivendo. Spero di non scoraggiarmi, di saper vedere il possibile e poterlo assumere pienamente. Non sopporto bene il dolore, ma imparerò. Mi metto alla scuola del dolore».
«Lei ha voluto rendere pubblica la sua malattia», osserva il giornalista, e il vescovo: «Questa è la mia famiglia. Non volevo che restassero in ansia senza sapere. E ho ritenuto giusto dire qual era la situazione. Ora mi sento fasciato di amore, ma chiedo di non essere un privilegiato. Voglio trascinare con me, nell'amore che tantissima gente mi ha dimostrato, tutti gli ammalati. Desidero che anche loro vengano compresi in questo amore. Perché c'è gente che soffre più di me, senza avere nessuno vicino che li conforta. E questo non posso dimenticarlo».
Sono stato a Belluno per un incontro del clero, a Santa Giustina, il 28 novembre e il vescovo era là, a salutare i preti e l'ospite, che aveva invitato di persona. Scherzava: «I chili che non ero riuscito a perdere in due anni, li ho persi in due mesi». Poi che è partito, il vicario raccomandava a suo nome che «nel pregare per lui, vengano ricordati tutti gli ammalati».
Nelle battute che abbiamo scambiato, don Vincenzo - lo frequento da 27 anni e ancora lo chiamo così - mi ha detto: «Mi tengo in contatto con Paola Bignardi e sto imparando da lei, che è entrata per prima in questa scuola del dolore».
Paola Bignardi: «In famiglia
tutto si porta insieme»Rientrato a Roma da Belluno, mi sono procurato la lettera con cui Paola Bignardi, la presidente dell'Azione cattolica, ha comunicato il suo male all'associazione. Mentre i destinatari ricevevano la lettera, lei era al Gemelli, per un trapianto di midollo.
«Da qualche giorno so di avere una malattia molto seria che apre davanti a me un tempo duro di fatica, di sofferenza e di incertezza; un tempo in cui il mio lavoro per l'associazione non potrà che essere meno intenso e comunque diverso (...) Non posso pensare che dal punto di vista di Dio quello che mi sta accadendo sia banale, per me e per l'associazione; e se a tutto questo cerco un senso, nella fede penso che anche questa mia malattia sia una parola che il Signore vuole dirci, a tutti: una parola misteriosa e oscura come quella del Calvario, ma una sua parola. E dunque un invito a credere che la debolezza e non la forza ci salveranno e salveranno anche l'Azione cattolica; che la vita del Signore risorto e non le nostre strategie sarà la parola che farà nuova questa esperienza cui vogliamo così bene e che crediamo così importante per la Chiesa».
«Ho ritenuto di dover informarvi per rispetto e per affetto: vorrei che l'Azione cattolica fosse soprattutto una famiglia, e in famiglia si condividono gioie e dolori, e tutto si porta insieme (...) So che a molti di voi, pensando di pregare per me, verrà da chiedere al Signore la salute. Io vorrei chiedervi di domandare al Signore di farmi vivere questo momento nell'abbandono al suo amore; di aiutarmi a credere che anche in questo modo o forse proprio in questo modo si realizza quello che il papa ci ha detto all'Assemblea: che il Signore ha a cuore l'Azione cattolica; poi, se volete, pregate per la mia salute, ma solo dopo (...)».
«L'Azione cattolica ci ha insegnato l'amore alla vita. Che il Signore ci conceda di fare della nostra esistenza e della nostra morte un grande inno alla vita».
«Preghiamo in suo nome
ma possiamo anche digiunare»La lettera di Paola Bignardi ai presidenti e agli assistenti diocesani ha la data del 17 novembre ed è stata accompagnata da un affettuoso biglietto dell'assistente, il vescovo Francesco Lambiasi, che segnala «l'umiltà mite e forte» con cui la presidente «sta vivendo questa svolta della sua vita»; parla della preghiera «in suo nome» e aggiunge: «Possiamo anche digiunare, così come il santo padre ci propone spesso di fare, non solo con il digiuno alimentare, ma anche con il digiuno da parole inutili, da pensieri amari, da immagini vane e comunque sempre per la carità verso i fratelli più poveri».
È bello sentire il vescovo Savio che dice di imparare da Paola. C'è un magistero della vita dove siamo tutti alla pari. Del resto, se chiedessimo a Paola, verosimilmente ci direbbe che ha imparato dal vescovo Franceschi, o da altri - preti e cristiani comuni - che hanno scritto buone pagine di questa pedagogia del cristiano nella malattia. Tutti ricordiamo quanto ci mostrò padre Turoldo dieci anni fa e ognuno conosce il cristiano della porta accanto che affronta le prove nell'abbandono al Signore, come dice Paola.
Per limitarci a chi ha funzione di guida, c'è una scuola - ormai - di vescovi che hanno vissuto la malattia in comunicazione diretta con la loro comunità: Franceschi, Agresti, Bello, Corecco, Bianchi.
Il Giovedì santo dei vescovi
Franceschi e BelloProfeta di questa scuola fu Franceschi, l'indimenticabile don Filippo dell'Azione cattolica, divenuto vescovo di Padova e colpito da tumore al fegato: il Giovedì santo del 1988, celebrando in cattedrale, chiede all'assemblea dei suoi preti che lo unga con l'olio degli infermi che ha appena consacrato e che gli imponga le mani con gesto collegiale.
«Vi scrivo per condividere con voi la mia attuale situazione di salute», annuncia ai «carissimi diocesani» l'arcivescovo di Lucca, Giuliano Agresti, il 25 maggio 1990. «È un tempo molto ricco e benedetto per me», arriva a dire del travaglio procurato dal tumore e conclude: «vi prego di starmi vicino».
Tre anni dopo sarà Tonino Bello, vescovo di Molfetta, a parlare a tanti e a tutti nella fase avanzata della sua malattia: lo si vide smagrito alla marcia della pace in Bosnia, nel Natale del 1992 e fece dell'omelia del giovedì santo della Pasqua 1993 il suo testamento di speranza. L'avevo visitato la Domenica delle palme e avevo visto il suo popolo che saliva a salutarlo, come i figli un padre.
Eugenio Corecco, vescovo di Lugano (siamo in Svizzera, ma è Svizzera italiana), colpito da tumore alle ossa, riceve l'unzione degli infermi il 25 agosto 1994 a Lourdes, insieme agli altri malati di un pellegrinaggio della diocesi e in quella celebrazione tiene un'omelia sull'accompagnamento ecclesiale dei malati.
Donato Bianchi, arcivescovo di Urbino, è l'ultimo di questi maestri di comunicazione nella malattia, dei quali ho avuto occasione di occuparmi: una forma improvvisa di leucemia lo costringe al ricovero e ne dà l'annuncio durante un'omelia, l'11 gennaio 1998, affidandosi alla «presenza sponsale e materna di questa chiesa, che porto con me e abbraccio con povero cuore di uomo, di cristiano e di vescovo».
Una lezione di vita
da un uomo di curiaAccanto ai vescovi che hanno vissuto nella Chiesa l'ultima malattia, ne vanno ricordati almeno altri due che hanno fatto la stessa scelta e che sono ancora tra noi: Comastri e Marchetto.
Angelo Comastri, ora vescovo di Loreto, fu operato a cuore aperto nel 1994, quand'era vescovo di Massa Marittima-Piombino e raccontò in un libro - intitolato La croce e la gioia, Dehoniane, Roma 1995 - come il suo lamento sia mutato in danza: «Le parole di sempre sono risuonate completamente nuove per me».
Agostino Marchetto - già nunzio e oggi segretario del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti - combatte vittoriosamente, da sette anni, contro un tumore linfatico «ad alta malignità» e ha raccontato la sua vicenda di paura e di fede in un libretto intitolato Nel tunnel della speranza (Camilliane, Torino 1997), nel quale si firma: «Agostino, vescovo in malattia». Lezioni di vita vengono anche dagli uomini di curia.
Con il vescovo Marchetto il cerchio si chiude, perché la sua narrazione della malattia è stata citata nell'incontro del clero di Belluno cui ero presente e da cui sono partito per questa divagazione. «Il volume di mons. Marchetto - ha detto il vicario Giuseppe Andrich - ci può aiutare a intendere il momento che ora vive il nostro vescovo e lo spirito con cui lo vive».
C'è dunque una circolarità nel magistero della vita che ci vede discepoli gli uni degli altri. Perché qui davvero «Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
Luigi Accattoli
http://www.ilregno.it/it/archivio_articolo.php?CODICE=32194
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