DON ANTONIO

mercoledì 26 ottobre 2011

Lo 'straordinario' della vita cristiana di Dietrich Bonhoeffer

Le beatitudini
Gesù sulle pendici di un monte, il popolo, i discepoli. Il popolo vede: Gesù con i discepoli che si sono avvicinati a lui. I discepoli - essi stessi - sino a poco tempo prima facevano completamente parte della massa del popolo. Erano come tutti gli altri. Poi li raggiunse la chiamata di Gesù; abbandonarono tutto e lo seguirono. Da allora appartengono completamente a Gesù. Ora vanno con lui, vivono con lui, lo seguono dovunque egli li conduce. A loro è accaduto qualcosa che non è accaduta agli altri. È un fatto estremamente inquietante, scandaloso quello che il popolo vede qui con i suoi occhi. I discepoli vedono: il popolo dal quale provengono, le pecore perdute della casa di Israele. È la comunità chiamata da Dio. :È la chiesa di popolo. Quando essi furono, dalla chiamata di Gesù, scelti in mezzo a questo popolo, essi fecero quello che era naturale e necessario per le pecore perdute della casa di Israele: seguirono la voce del buon pastore, perché conoscevano la sua voce. Essi, proprio seguendo questa via, appartengono a questo popolo, vivranno in mezzo a questo popolo, entreranno in mezzo a questo popolo e gli annunzieranno la chiamata di Gesù e la gloria del cammino al suo seguito. Ma quale sarà la fine? Gesù vede: i suoi discepoli. Sono venuti apertamente dal popolo a lui. Egli li ha chiamati a uno a uno. Alla sua chiamata essi hanno rinunciato a tutto. Ora vivono soffrendo indigenza e privazioni; sono i più poveri tra i poveri, i più tentati tra gli esposti alla tentazione, i più affamati tra gli affamati. Hanno solo lui. E, con lui, nel mondo non hanno nulla, proprio nulla. Ma presso Dio hanno tutto. Egli ha trovato una piccola comunità, e ne cerca una grande quando guarda il popolo. Discepoli e popolo formano un tutt'uno; i discepoli saranno i suoi messaggeri, essi troveranno pure, qua e là, degli uditori e dei credenti. Eppure, tra loro e il popolo regnerà inimicizia fino alla fine. Tutta l'ira contro Dio e la sua Parola ricadrà sui suoi discepoli ed essi saranno respinti assieme a lui. La croce è in vista. Cristo, i discepoli, il popolo: ecco tutto il quadro della passione di Gesù e della sua comunità. (1)
Perciò: beati! Gesù parla ai suoi discepoli (cfr. Lc. 6,20 ss.). Parla a coloro che già si sono posti sotto la potenza della sua chiamata. Questa chiamata li ha resi poveri, tentati, affamati. Egli li dichiara beati, non per le loro privazioni o la loro rinuncia. Né povertà né ritmncia sono per se stesse in qualche modo motivo della proclamazione di beatitudine. Solo la chiamata e la promessa, per cui i suoi seguaci vivono in mezzo a privazioni e a rinunce, è motivo sufficiente. L'osservazione,che in qualcheduna delle beatitudini si parla di privazione, in altre di cosciente rinuncia, cioè di particolari virtù dei discepoli, non ha importanza. Privazione obiettiva e rinuncia personale hanno la loro ragione comune nella chiamata e nella promessa di Cristo. Nessuna delle due ha, per se stessa, valore o diritto. (2)
Gesù chiama beati i suoi discepoli. Il popolo l'ode ed esterrefatto è testimone di ciò che accade. Ciò che, secondo la promessa di Dio, appartiene a tutto il popolo di Israele qui tocca alla piccola comunità di discepoli scelti da Gesù. «Di loro è il regno dei cieli». Ma i discepoli e il popolo sono una cosa sola per il fatto che sono tutti comunità chiamata da Dio. Le beatitudini di Gesù dovranno portare tutti alla decisione e alla salvezza. Tutti sono chiamati a essere ciò che in realtà sono. I discepoli vengono proclamati beati a causa della chiamata di Gesù, alla quale hanno risposto. Tutto il popolo di Dio viene chiamato beato per la promessa a lui diretta. Ma il popolo di Dio afferrerà la promessa credendo a Gesù Cristo e alla sua Parola o si separerà, non credendo, da Cristo e dalla sua comunità? Ecco la domanda che resta aperta.
«Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli». I discepoli subiscono privazioni in tutti i campi. Sono semplicemente dei 'poveri' (Lc. 6,20). Non hanno sicurezza, non beni da chiamare propri, non un pezzo di terra da chiamare patria, nessuna comunità terrena a cui appartenere completamente. Ma non hanno neppure una propria forza spirituale, una propria esperienza, una propria sapienza alla quale richiamarsi, con la quale consolarsi. Hanno perso tutto questo per amore di Gesù. Quando si incamminarono dietro a lui, persero pure se stessi e così anche tutto ciò che avrebbe potuto ancora arricchirli. Ora sono poveri, così inesperti, così stolti da non avere più nulla in cui sperare tranne colui che li ha chiamati. Gesù conosce anche quegli altri, i rappresentanti e i predicatori della religione di popolo, questi potenti, rispettati, che stanno ben fondati in terra, radicati nel carattere nazionale, nello spirito del tempo, nella religiosità popolare. Non sono, però, questi, ma solo i suoi discepoli che Gesù chiama «beati, perché di loro è il regno dei cieli». Il regno dei cieli viene per quelli che, per amore di Gesù, vivono semplicemente «in privazioni e rinunce». In mezzo alla loro povertà essi sono gli eredi del regno celeste. Essi hanno il loro tesoro profondamente nascosto, lo hanno sulla croce. Il regno dei cieli è loro promesso in gloria visibile, ed è già donato a loro nella perfetta povertà della croce.
Qui le beatitudini di Gesù si distinguono radicalmente dalla loro caricatura in forma di programmazione politico-sociale. Anche l'anticristo chiama beati i poveri, ma non lo fa per amore della croce, nella quale è insita e beata ogni povertà, ma lo fa appunto per allontanare dalla croce mediante ideologie politico-sociali. Egli può chiamare cristiana questa ideologia, eppure proprio perciò diviene nemico di Cristo.
«Beati gli afflitti, perché saranno consolati». Con ogni ulteriore beatitudine la frattura fra discepoli e popolo diviene maggiore. La schiera dei discepoli viene chiamata fuori in forma sempre più visibile. Gli afflitti sono appunto quelli che sono pronti a vivere rinunciando a ciò che il mondo chiama felicità e pace, quelli che non possono essere accordati allo stesso tono del mondo, che non possono adeguarsi al mondo. San afflitti a causa del mondo, della sua colpa, del suo destino e della sua felicità. Il mondo festeggia e loro se ne stanno in disparte; il mondo grida: «godete la vita», e loro sono afflitti. Vedono che la nave, sulla quale domina questa gioiosa festa, ha già una falla. Il mondo segue il progresso, la forza, il futuro; i discepoli sanno che la fine è vicina, che verrà il giudizio, che sta arrivando il regno dei cieli, per il quale il mondo è così poco adatto. Perciò i discepoli sono stranieri nel mondo, ospiti fastidiosi, disturbatori della tranquillità, e vengono respinti. Perché la comunità di Gesù deve restare esclusa da tante feste del popolo in mezzo al quale vive? Non capisce più gli altri uomini? Si è fatta prendere dall'odio e dal disprezzo per gli uomini? Nessuno comprende i suoi simili meglio della comunità di Gesù. Nessuno ama i suoi simili più dei discepoli di Gesù, appunto perciò sono esclusi. appunto perciò sono afflitti. È sintomatico e anche bello che Lutero traduca il vocabolo greco con: portare dolore. Infatti l'importanza sta nel 'portare'. La comunità dei discepoli non si scuote di dosso il dolore come se non la toccasse per nulla, ma lo porta. E su questo si fonda la sua comunione con gli altri uomini. Contemporaneamente questo vocabolo dice che la comunità non cerca arbitrariamente il dolore, che non si ritira per un arbitrario disprezzo dal mondo, ma porta dò che le viene imposto, ciò che le tocca per amore di Gesù Cristo, mentre lo segue. Ed infine, i discepoli non vengono piegati, logorati, amareggiati dal dolore, in modo da esserne spezzati. Anzi, portano il dolore loro imposto solo per la forza di colui che sulla croce porta tutto il dolore. Come «portatori di dolore» si trovano in comunione col Signore crocifisso. Vivono come stranieri sostenuti dalla forza di colui che era tanto straniero in terra che fu crocifisso. Questo fatto, o meglio quest'uomo è la loro consolazione, il loro consolatore (Lc. 2,15). La comunità degli stranieri trova consolazione nella croce, trova consolazione nel fatto che viene respinta al luogo dove il consolatore di Israele la attende. Essa trova la sua vera patria presso il Signore crocifisso, qui e in eterno.
«Beati i miti, perché possederanno la terra». Nessun diritto proprio protegge questa comunità di stranieri nel mondo. Non lo pretende nemmeno, perché i miti di cuore sono coloro che vivono rinunciando ad ogni proprio diritto per amore di Gesù Cristo. Se li si rimprovera tacciono, se si usa loro violenza la sopportano, se li si caccia cedono. Non fanno processi per difendere il proprio diritto, non fanno chiasso se subiscono ingiustizia. Non cercano il proprio diritto. Vogliono lasciare ogni diritto a Dio; non cupidi vindictae, diceva la chiesa antica. Ciò che piace al loro Signore deve piacere anche a loro. Solo questo. Ogni loro parola, ogni gesto manifesta che non appartengono a questa terra. «Lasciate loro il cielo», così dice pieno di compassione il mondo; «lì è il loro postO».3 Ma Gesù dice: «possederanno la terra». La terra appartiene a questi uomini senza diritti, impotenti. Quelli che ora la occupano con violenza e ingiustizia la perderanno; e quelli che qui hanno completamente rinunziato, che erano miti fino alla croce domineranno sulla nuova terra. Non si tratta qui di pensare ad una giustizia punitiva di Dio in terra (Calvino), ma quando il regno dei cieli sarà istaurato, la forma della terra sarà rinnovata e sarà la terra della comunità di Cristo. Dio non abbandona la terra. Egli l'ha creata. Ha mandato suo Figlio in terra. Ha edificato la sua comunità in terra. Così il regno incomincia già in questo tempo. Un segno è stato dato. Già qui agli impotenti è data una parte di terra, hanno la chiesa, la comunità, i loro beni, fratelli e sorelle - in mezzo alla persecuzione fino alla croce. Anche Golgota è un pezzo di terra. Da Golgota, dove il più mite morì, parte il rinnovamento della terra. Se viene il regno dei cieli, i miti possederanno la terra.
«Beati gli affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati». Chi segue Cristo non vive rinunciando solo al proprio diritto, ma persino rinunciando alla propria giustizia. Con le proprie azioni e con i propri sacrifici non si acquista nessuna gloria propria. Non si può ottenere giustizia se non essendone affamato e assetato; né giustizia propria né giustizia di Dio in terra; lo sguardo del seguace è sempre rivolto alla futura giustizia di Dio, ma non può crearla lui stesso. Chi segue Gesù sarà affamato e assetato durante il cammino. Desidera perdono dei peccati e totale rinnovamento della terra e perfetta giustizia di Dio. Ancora la maledizione copre la terra, ancora il peccato dei mondo cade su di lui. Colui che egli segue deve morire maledetto sulla croce. Un disperato desiderio di giustizia è il suo ultimo grido: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Ma il discepolo non è al di sopra dei suo Maestro. Segue lui; è beato in questo cammino perché gli è stato promesso che sarà saziato. Otterrà giustizia, non solo a parole; sarà fisicamente saziato di giustizia. Mangerà il pane della vera vita nella futura Cena con il suo Signore. È beato per questo futuro pane; perché lo ha già qui presente. Colui che è il pane della vita è in mezzo ai suoi discepoli, in tutta la loro fame. Ecco la beatitudine dei peccatori.
«Beati i misericordiosi, perché a loro sarà fatta misericordia». Questi nulla tenenti, questi stranieri, questi impotenti, questi peccatori, questi seguaci di Cristo vivono con lui ora rinunciando anche alla propria dignità, poiché sono misericordiosi. Non si accontentano delle proprie difficoltà, delle proprie privazioni, ma partecipano pure alle difficoltà altrui, alla bassezza altrui, al peccato altrui. Hanno un amore irresistibile per i piccoli, gli ammalati, i miserabili, gli umiliati e oltraggiati, per quelli che subiscono ingiustizie, per gli esclusi, per tutti quelli che si tormentano e si preoccupano; cercano quelli che sono caduti nel peccato e nella colpa. Non c'è difficoltà troppo grave, peccato troppo terribile, perché la misericordia non li cerchi. Il misericordioso dona il proprio onore a chi si è macchiato di vergogna e prende su di sé la sua vergogna. Egli si fa trovare presso i pubblicani e i peccatori e subisce volontariamente il disonore della loro compagnia. Cede il massimo bene che un uomo possa avere, la propria dignità ed il proprio onore, ed è misericordioso. Conosce solo una dignità e un onore: la misericordia del Signore, della quale sola egli vive. Gesù non si vergognò dei suoi discepoli, divenne fratello degli uomini, portò la loro vergogna fino alla morte sulla croce. Questa è la misericordia di Gesù, della quale sola vogliono vivere quelli che sono legati a lui. La misericordia del Cristo crocifisso fa loro dimenticare ogni proprio onore e dignità e cercare solo la compagnia dei peccatori. E se anche sono coperti di vergogna sono pure beati. Perché sarà fatta loro misericordia. Dio si chinerà profondamente su di loro e prenderà su di sé i loro peccati e la loro vergogna. Dio darà loro il suo onore e lui stesso toglierà loro il loro disonore. Sarà l'onore di Dio a portare l'infamia dei peccatori e a rivestirli del suo onore. Beati i misericordiosi, perché hanno per Signore il Misericordioso.
«Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio». Chi è puro di cuore? Solo chi ha dato totalmente il suo cuore a Gesù, perché lui solo vi regni; chi non macchia il proprio cuore del proprio male, ma neppure del proprio bene. Il cuore puro è il cuore semplice del bambino, che non sa che cosa è bene e che cosa male, il cuore di Adamo prima della caduta, il cuore nel quale non domina la coscienza, ma solo la volontà di Gesù. Chi rinuncia alle proprie azioni buone e malvagie, al proprio cuore, chi vive così nel pentimento e resta unito solo a Gesù avrà un cuore puro per opera della Parola di Gesù. La purezza del cuore è qui il contrario di ogni purezza esteriore, di cui fa parte anche la purezza dei buoni sentimenti. Il cuore puro è puro dal bene e dal male, appartiene indiviso a Cristo, guarda solo a lui che precede. Vedrà Dio solo chi, in questa vita, ha guardato unicamente a Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Il suo cuore è libero da immagini che possano macchiarlo, non è trascinato or qui or lì dalla molteplicità dei propri desideri e delle proprie intenzioni. È tutto intento a guardare Dio. Vedrà Dio colui il cui cuore è divenuto specchio dell'immagine di Gesù Cristo.
«Beati quelli che s'adoprano alla pace, perché essi saranno chiamati figlioli di Dio». I seguaci di Cristo sono chiamati alla pace. Quando Gesù li chiamò essi trovarono la loro pace. Gesù è la loro pace. Ora non devono accontentarsi della loro pace, devono anche farla. (4) Questo vuol dire rinunciare a violenza e ribellione. Queste infatti non servono mai alla causa di Cristo. Il regno di Cristo è un regno di pace, e la comunità di Cristo si scambia il saluto di pace. I discepoli di Gesù mantengono la pace soffrendo loro stessi il male piuttosto di fame ad altri; conservano la comunione dove un altro la rompe, rinunciando all'auto affermazione e subiscono in silenzio odio e ingiustizia. Così vincono il male con il bene. Essi diffondono la pace divina in mezzo ad un mondo che si nutre di odio e di guerra. Ma la loro pace non sarà da nessuna parte maggiore che lì dove vanno incontro al malvagio offrendogli pace e sono pronti a subire del male da parte sua. I pacifici porteranno la croce con il loro Signore: infatti sulla croce fu conclusa la pace. Essendo così attirati nell'opera di pace di Cristo, chiamati a partecipare all'opera del Figlio di Dio, essi stessi saranno chiamati figli di Dio.
«Beati i perseguitati per cagione di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli». Non si parla qui della giustizia di Dio, ma della sofferenza per una causa giusta, (5) per il giudizio e l'azione giusta dei discepoli di Gesù. Coloro che seguono Gesù rinunziando a beni terreni, a felicità, al diritto, alla giustizia, all'onore, alla violenza si distingueranno dal mondo nel giudizio e nell'azione, saranno di scandalo al mondo. Perciò i discepoli saranno perseguitati per cagione di giustizia. Il premio delle loro parole ed azioni non sarà riconoscenza, ma riprovazione da parte del mondo. È importante che Gesù chiami beati i suoi discepoli anche lì dove non soffrono direttamente per la testimonianza del suo nome, ma per una causa giusta. È loro rivolta la stessa promessa che ai poveri. Come perseguitati, infatti, sono uguali a questi.
Qui alla fine delle beatitudini sorge la domanda, quale luogo in terra resti ancora a una simile comunità. È chiaro che a loro resta solo un posto, cioè quello dove si trova il più povero, il più esposto alla tentazione, il più mite, la croce sul Golgota. La comunità delle beatitudini è la comunità del Cristo crocifisso. Con lui ha perso tutto e con lui ha trovato proprio tutto. Partendo dalla croce ora si dice: «beati, beati». Ma ora Gesù parla esclusivamente a quelli che possono comprenderlo, ai discepoli, perciò usa la seconda persona: «Beati voi, quando v'oltraggeranno e vi perseguiteranno e mentendo diranno male di voi per causa mia. Gioite ed esultate, perché molta è la vostra ricompensa nei cieli; così infatti perseguitarono i profeti prima di voi». «Per causa mia...» i discepoli vengono ripudiati, ma è Gesù stesso a essere colpito; tutto ricade su di lui, perché essi sono oltraggiati per cagione sua. Egli porta la colpa. L'oltraggio, la persecuzione fino alla morte, la maldicenza sigillano la beatitudine dei discepoli nella loro comunione con Gesù. Non può essere altrimenti, se non che il mondo si sfoghi con parole, violenza, calunnia contro lo straniero mite. Troppo minacciosa, troppo forte è la voce di questi poveri e miti, troppo paziente e silenziosa la loro sofferenza; troppo potentemente la schiera dei discepoli testimonia, mediante povertà e dolore, dell'ingiustizia del mondo. Questo deve essere punito con la morte. Mentre Gesù grida: «Beati, beati! », il mondo grida: «via! via!». Sì, via, ma dove? Nel regno dei cieli. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli. Ecco i poveri nella sala addobbata a festa. Dio stesso asciuga le lacrime versate dagli afflitti in esilio, sazia gli affamati con la sua Cena. I corpi feriti e martoriati ora sono trasfigurati, e al posto delle vesti del peccato e della penitenza portano le vesti bianche dell'eterna giustizia. Da questa eterna letizia già ora una voce giunge alla comunità dei seguaci sotto la croce, la voce di Gesù: «Beati, beati».
[1] La giustificazione esegetica di questa interpretazione sta nella espressione anoigen to stoma, sulla quale già nell' esegesi della chiesa primitiva si attirava l'attenzione. Prima che Gesù inizi il suo discorso, passano alcuni minuti di silenzio.
[2] La costruzione di un contrasto tra Matteo e Luca non trova nessuna ragione nella Scrittura. Non si tratta di una spiritualizzazione, da parte di Matteo, delle beatitudini originali in Luca, né di una politicizzazione delle beatitudini da parte di Luca, dicendo che in origine si sarebbero solo riferite alla «disposizione d'animo». Né in Luca la ragione della beatitudine è la privazione, né in Matteo la rinunzia. In ambedue privazione e rinuncia, atteggiamento spirituale o politico, sono giustificate solo dalla chiamata e dalla promessa di Gesù, che solo fa delle beatitudini ciò che sono, e che è il solo fondamento della loro beatificazione. L'esegesi cattolica, a partire dai Clementini, ha voluto proclamare beatitudine la virtù della povertà pensando d'un canto alla paupertas valuntaria dei monaci, d'altro canto ad ogni povertà volontà. ria per amore di Cristo. In ambedue i casi l'errore consiste nel fatto che la ragione della beatitudine non viene ricercata solo nella chiamata e promessa di Gesù, ma in un comportamento umano.
[3] L'imperatore Giuliano nella sua 43ma lettera scriveva beffardamente, che confiscava i beni dei cristiani solo perché potessero entrare poveri nel regno dei cieli.
[4] eirenopoioi ha un duplice senso: anche l'espressione 'pacifici' secondo l'interpretazione non deve essere presa solo in senso passivo. La traduzione inglese peaamakers (= facitori di pace) è unilaterale a causa di un molteplice attivismo cristiano frainteso.
[5] Attenzione alla mancanza di articolo!

La comunità visibile
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non serve più ad altro che ad essere buttato via e ad essere calpestato dagli uomini. V ai siete la luce del mondo. Non si può nascondere una città posta sul monte, né accendono una lucerna e la pongono sotto il maggio, ma sul candelabro, affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vr:dano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt.5,13-16).
La parola è rivolta a coloro che, nelle beatitudini, sono invitati alla grazia di seguire il Cristo crocifisso.
Mentre quelli che venivano chiamati beati fino a qui dovevano apparire, sì, degni del regno dei cieli, ma evidentemente del tutto superflui e inadatti alla vita in questa terra, ora vengono caratterizzati con il simbolo del bene più indispensabile sulla terra. Essi sono il sale della terra. Sono il bene più nobile, il massimo valore che la terra possiede. Senza di loro la terra non può sussistere. La terra viene mantenuta per mezzo del sale; essa vive proprio per questi poveri, ignobili, deboli, che il mondo ripudia. La terra distrugge la sua propria vita espellendo i discepoli e - o meraviglia! - la terra può continuare a vivere proprio a causa di questi reietti. Questo «sale divino» (Omero) dà prova della sua efficacia, compenetra tutta la terra. È la sua sostanza. Così i discepoli non sono indirizzati solo verso il regno dei cieli, ma vie n loro ricordata la loro missione terrena. Essendo legati unicamente a Gesù, la loro attenzione viene rivolta verso la terra, di cui essi sono il sale. Gesù, non chiamando sale della terra se stesso, ma i suoi discepoli, trasmette a loro la sua opera sulla terra. Egli li rende partecipi della sua attività. La sua azione resta limitata al popolo di Israele, ma ai discepoli egli affida tutta la terra. Solo se il sale resta sale, se conserva la forza del sale che purifica e dà sapore alla terra, la terra potrà essere conservata per opera del sale. Per amore di se stesso e per amore della terra il sale deve restare sale, la comunità dei discepoli deve restare ciò che è in seguito alla chiamata di Gesù Cristo; in questo consisterà la sua vera efficacia in terra, la sua forza conservatrice. Il sale deve essere incorruttibile e così conservare una costante forza purificatrice. Per questo nell'Antico Testamento ci si serve del sale per compiere i sacrifici; per questo nel rito battesimale cattolico si mette del sale nella bocca del bambino (Es. 30,35; Ez. 16,4). Nella incorruttibilità del sale sta la garanzia della durevolezza della comunità.
«Voi siete il sale...», non: siate il sale. Non dipende dalla volontà dei discepoli, se vogliono essere il sale o no. E non è nemmeno loro rivolto un appello di divenire sale della terra. Essi lo sono, lo vogliano o no, grazie alla chiamata che li ha raggiunti. Siete il sale, e non: avete il sale. Sarebbe una riduzione, se si volesse identificare - come fecero i riformatori - il messaggio dei discepoli con il gale. È chiamata in causa la loro esistenza, in quanto con la chiamata di Cristo a seguirlo ha avuto un nuovo fondamento, l'esistenza della quale parlano le beatitudini. Chi, raggiunto dalla chiamata di Gesù, si è messo al suo seguito è, a causa di questa chiamata, sale della terra in tutta la sua esistenza.
C'è un'altra possibilità, però, che il sale perda il suo sapore, cessi di essere sale: allora cessa la sua efficacia, e il sale realmente non serve più a nulla se non a essere gettato via. Questo è il pregio del sale: ogni cosa deve essere salata; ma il sale che perde il suo sapore non può essere mai più salato. Tutto, anche la materia più corrotta, può essere salvato dal sale; solo il sale che ha perso il suo sapore è definitivamente deteriorato. Questo è il rovescio della medaglia. È il giudizio che minaccia la comunità dei discepoli. La terra deve essere salvata dalla comunità, solo la comunità stessa che cessa di essere ciò che è, è irrimediabilmente perduta. La chiamata di Gesù Cristo significa essere sale della terra o essere distrutti, seguire o...; la chiamata stessa annienta il chiamato. Non c'è un'altra possibilità di salvezza. Non può esserci.
Con la chiamata di Gesù ai discepoli non è solo assicurata l'invisibile efficacia del sale, ma anche il visibile splendore della luce. «Voi siete la luce...», e di nuovo non: siate la luce. Non può essere altrimenti; essi sono una luce che è visibile; se non fosse così, la chiamata evidentemente non li avrebbe raggiunti. Quale mèta impossibile, insensata sarebbe per i discepoli di Gesù per questi discepoli, voler diventare la luce del mondo! Lo sono già divenuti per mezzo della chiamata, essendo in cammino dietro a Gesù. E di nuovo, non è detto: avete la luce, ma: voi siete la luce. La luce non è qualcosa che vi è stato dato, non è, per es., la vostra predicazione; voi stessi siete la luce. Quello stesso che dice di sé espressamente: «la sono la luce del mondo», dice espressamente ai suoi discepoli: «Voi siete la luce in tutta la vostra vita, in quanto restate fedeli alla chiamata. E dato che lo siete, non potete più rimanere nascosti, anche se lo voleste. Una luce risplende, e la città sul monte non può rimanere nascosta. Non lo può. È visibile da lontano, sia che si tratti di una città fortificata a di un castello ben munito, sia che si tratti solo di qualche rovina». Questa città sul monte - quale Israelita non penserebbe a Gerusalemme, la città «sull'alta montagna?» - è la comunità dei discepoli. I seguaci in tutto ciò non sono più posti di fronte ad una scelta; l'unica scelta per loro possibile è già stata fatta. Ora essi devono essere ciò che sono, o non sono seguaci di Gesù. Quelli che lo seguono sono la comunità visibile, il loro seguire è una azione visibile, che li distingue dal mondo... o non è proprio un seguire Gesù. Seguire Gesù è un'azione altrettanto visibile quanto la luce nella notte e quanto un monte che si eleva in una pianura.
La fuga nell'invisibilità è rinnegamento della chiamata. Una comunità di Gesù che vuol restare comunità invisibile non è più una comunità che segue Gesù. «Non si accende una lampada per metterla sotto il maggio; anzi, la si mette sul candeliere». È di nuovo l'altra possibilità, che la luce sia coperta, che si spenga sotto un maggio, che la chiamata venga rinnegata. Il maggio sotto cui la comunità visibile nasconde la sua luce può essere altrettanto paura degli uomini quanto un cosciente conformismo col mondo per conseguire determinati scopi - siano essi di carattere missionario, siano essi dovuti a un malinteso amore per gli uomini -. Ma potrebbe anche essere - e questo è ancora più pericoloso - una cosiddetta teologia riformata che osa persino chiamarsi theologia crucis e che è caratterizzata dal fatto che alla 'farisaica' visibilità preferisce una 'umile' invisibilità sotto forma di totale incorporazione nel mondo. In questo caso segno di riconoscimento' della comunità non è una eccezionale visibilità, ma una sua conferma nella iustitia civilis. Qui il criterio di cristianità è che la luce non splenda. Ma Gesù dice: «La vostra luce risplenda nel cospetto degli uomini». E in ogni caso la luce della chiamata di Gesù splende. Ma che specie di luce è, dunque, quella in cui questi seguaci di Gesù, questi discepoli delle beatitudini devono splendere? Che luce deve venire da quel luogo al quale hanno diritto solo i discepoli? Che cosa ha in comune l'invisibilità e segretezza della croce di Gesù, sotto la quale si trovano i suoi discepoli, con la luce che deve risplendere? Non si dovrebbe dedurre da quella segretezza che anche i discepoli dovrebbero rimanere nascosti e appunto non essere in luce? È un diabolico sofisma quello che dalla croce di Gesù vuole dedurre la conformità della Chiesa col mondo. Il semplice uditore non riconosce forse chiaramente che proprio lì sulla croce è divenuto visibile qualcosa di eccezionale? Oppure tutto ciò sarebbe iustitia civilis) la croce sarebbe conformità con il mondo? La croce non è forse qualcosa che, con sommo turbamento degli altri, proprio in tutta la sua oscurità è divenuta incredibilmente visibile? Non è forse abbastanza visibile che Cristo è respinto e deve patire, che la sua vita finisce fuori delle porte della città sul colle dell'ignominia? Tutto questo sarebbe invisibilità?
In questa luce devono essere viste le buone opere dei discepoli. Non voi, ma le vostre buone opere, ecco ciò che si deve vedere, dice Gesù. Che cosa sono queste buone opere che possono essere viste in questa luce? Non possono essere altro che le opere che Gesù stesso suscitò in loro quando li chiamò, quando li fece luce del mondo sotto la sua croce: essere poveri, stranieri, miti, apportatori di pace, ed infine, essere perseguitati e respinti, ed in tutto ciò una sola cosa: portare la croce di Gesù. La croce è la strana luce che risplende, e in questa sola tutte quelle buone opere dei discepoli possono essere viste. In tutto ciò non è detto che Dio divenga visibile, ma che si vedono le «buone opere» e che, per queste opere, la gente loda Dio. Visibile diventa la croce e visibili diventano le opere della croce, visibili diventano le privazioni e la rinunzia di quelli che sono chiamati beati. Ma nella luce della croce e di questa comunità non si può più lodare l'uomo, ma Dio solo. Se le buone opere fossero varie virtù di uomini, allora per esse non si loderebbe più il Padre, ma il discepolo. Ma così non resta nulla di degno di lode nel discepolo che porta la croce, nella comunità la cui luce risplende ed è visibile sul monte: per le loro «buone opere» solo il Padre celeste può essere lodato. Così vedono la croce e la comunità sotto la croce e credono in Dio. Ma questa è la luce della risurrezione.
La giustizia di Cristo
«Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a completare. In verità vi dico che fino a quando non passeranno il cielo e la terra, uno iota solo o un solo apice non passerà dalla legge fino a che non sia tutto adempiuto. Chi dunque avrà abolito anche uno solo di questi minimi comandamenti e così avrà insegnato agli uomini, sarà chiamato il più piccolo nel regno dei cieli, ma chi li osserverà ed insegnerà, sarà chiamato grande nel regno dei cieli, poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli». (Mt.5,17-20).
Non ci si deve certo meravigliare se i discepoli, sentendo dal loro Signore queste promesse, nelle quali era svalutato tutto ciò che agli occhi del popolo aveva valore, ritenevano arrivata la fine della legge. Infatti la Parola era rivolta a loro e li contraddistingueva come uomini a cui era dato semplicemente tutto per libera grazia di Dio, come uomini che ora possedevano tutto, come eredi certi del regno dei cieli. Essi erano in piena comunione personale con il Cristo che rinnovava tutto. Erano il sale, la luce, la città sul monte. E allora tutte le cose vecchie erano passate, erano cambiate. Era, dunque, fin troppo logico che Gesù avrebbe provveduto a fare una netta separazione tra sé e il passato, che avrebbe dichiarata nulla la legge dell'antico patto e, nella sua libertà di Figlio, avrebbe rotto con questa legge e l'avrebbe abolita per la sua comunità. Da quanto precedeva i discepoli potevano pensare come Marcione, che, rimproverando al testo una falsificazione giudaistica, lo cambiò come segue: 'Credete voi che io sia venuto per compiere la legge o i profeti? Sono venuto per abolirla, non per completarla'. È infinito il numero di coloro che, dopo Marcione, hanno letto e spiegato la parola di Gesù in questo modo. Ma Gesù dice: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti...» Gesù avvalora la legge dell'Antico Testamento.
Come possiamo spiegare questo fatto? Sappiamo che Gesù si rivolge ai suoi seguaci, a quelli che sono vincolati a Gesù Cristo solo. Nessuna legge aveva potuto impedire la comunione di Gesù con i suoi discepoli; questo risultò evidente nell'interpretazione di Le. 9,57 ss. Seguire Gesù vuoI dire unirsi a lui solo e immediatamente. Eppure qui, del tutto inaspettatamente, Gesù vincola i suoi discepoli alla legge dell'Antico Testamento. Con questo intende dire ai suoi discepoli due cose: che obbedire alla legge non significa ancora seguire Gesù, ma che anche una unione con la persona di Gesù Cristo senza obbedienza alla legge non può essere considerato un seguire Gesù. Egli rimanda quelli, a cui ha rivolto le sue promesse e donato la piena comunione con lui, proprio alla legge stessa. Poiché lui, dietro il quale i discepoli si sono incamminati, osserva la legge, la legge vale pure per loro. Allora sorge la domanda: «Che cosa vale: Gesù o la legge? A che cosa sono vincolato? A lui solo, oppure, nonostante tutto, alla legge? Cristo ha detto che nessuna legge può frapporsi fra lui e i suoi discepoli. Ora dice che un'abolizione della legge significherebbe separazione da lui. Che significa? ».
Si tratta della legge dell'antico patto, non di una legge nuova; ma dell'unica antica legge, alla quale fu rinviato il giovane ricco e il capzioso scriba; poiché essa esprime la manifesta volontà di Dio. Questo comandamento diviene un comandamento solo per il fatto che Cristo vincola i suoi seguaci a questa legge. Non si tratta, dunque, di creare una «legge migliore» di quella dei farisei; è la stessa legge, è la legge che deve restare intatta in ogni sua lettera, deve essere osservata fino alla fine del mondo, deve essere adempiuta fino al più piccolo iota. Ma si tratta certo di una «giustizia maggiore». Chi non ha questa giustizia maggiore non potrà entrare nel regno dei cieli, appunto perché in questo caso si sarebbe allontanato dal cammino al seguito di Gesù, che lo rimanda appunto alla legge. Ma nessuno è in grado di avere questa giustizia maggiore, se non colui a cui è rivolta la Parola, che viene chiamato da Cristo. La condizione per ottenere questa giustizia maggiore è la chiamata di Cristo, è Cristo stesso.
Così si comprende, perché Cristo a questo punto del discorso sulla montagna per la prima volta parla di se stesso. Tra la giustizia maggiore e i discepoli, dai quali Gesù la pretende, si trova lui stesso. Egli è venuto per compiere la legge dell'antico patto. È la premessa per tutto il resto. Gesù fa vedere la sua completa unità con la volontà di Dio espressa nell'Antico Testamento, nella legge e nei profeti. Egli, in realtà, non ha nulla da aggiungere ai comandamenti di Dio; egli li osserva... è l'unica cosa che aggiunge. Egli osserva la legge, ecco ciò che dice di se stesso. Perciò è vero. Egli la compie fino all'ultimo iota. Ma dato che egli la adempie, «tutto è compiuto» ciò che deve accadere per il suo completamento. Gesù farà ciò che la legge richiede, perciò dovrà subire la morte; perché lui solo vede nella legge la legge di Dio, cioè: né la legge stessa è Dio, né Dio stesso è la legge, in modo che la legge sarebbe messa al posto di Dio. Israele aveva frainteso così la legge. La colpa di Israele consisteva nell'aver divinizzato la legge e aver trasformato Dio in legge. Il colpevole malinteso dei discepoli sarebbe, invece, il voler privare la legge della sua origine divina e il separare Dio dalla sua legge. In ambedue i casi Dio e legge erano separati l'uno dall'altra, oppure identificati, il che, in fondo, è lo stesso. Se gli ebrei identificavano Dio e la legge, lo facevano per impadronirsi, con la legge, di Dio stesso. Dio era assorbito dalla legge e non era più il padrone della legge. Se i discepoli pensavano di poter separare Dio dalla sua legge, lo facevano per potersi impadronire di Dio, essendo sicuri della loro salvezza. In ambedue i casi donatore e dono venivano scambiati, si rinnegava Dio con l'aiuto della legge o della promessa della salvezza.
Di fronte ad ambedue questi malintesi Gesù rimette in vigore la legge come legge divina. Dio è donatore e signore della legge, e solo nella comunione personale con Dio la legge viene adempiuta. Non esiste obbedienza completa alla legge senza comunione con Dio, ma nemmeno comunione con Dio senza obbedienza alla legge. La prima osservazione vale per gli Ebrei, la seconda vale per i discepoli che rischiavano di fraintendere il senso della legge.
Gesù Figlio di Dio, che, unico, è pienamente in comunione con Dio, per amore suo rimette in pieno vigore la legge, venendo per compiere la legge dell'antico patto. Essendo l'unico che la osserva pienamente, lui solo poteva insegnare rettamente la legge e il suo compimento. I discepoli dovevano saperlo e comprenderlo, quando gliene parlò, perché sapevano chi egli era. Gli ebrei non potevano capirlo, finché non gli credevano. Perciò dovevano rifiutare il suo insegnamento sulla legge come bestemmia contro Dio, cioè contro la legge. Perciò Gesù, per amore della vera legge di Dio, dovette subire la condanna da parte dei difensori della falsa legge. Gesù muore sulla croce come blasfemo o come trasgressore della legge, perché ha messo in vigore la vera legge, contro la legge fraintesa e falsa.
La legge, dunque, non può essere adempiuta altrimenti, così dice Gesù, che con la crocifissione di Gesù come peccatore. Lui stesso, crocifisso, è il perfetto completamento della legge.
Con ciò è detto che Gesù Cristo, e solo lui, adempie la legge, perché lui solo è in completa comunione con Dio. Egli stesso si pone tra i suoi discepoli e la legge, ma la legge non può porsi fra lui e i suoi discepoli. La via dei discepoli verso l'adempimento della legge passa per la croce di Cristo. Così Gesù vincola di nuovo i suoi discepoli, rimandandoli alla legge, che lui solo adempie. Egli deve rifiutare la comunione senza la legge, perché sarebbe solo esaltazione, e quindi non un vero v!ncolo; anzi, sarebbe un completo svincolamento. La preoccupazione dei discepoli, che un loro vincolo con la legge possa separarli da Dio, viene dissipata. Essa potrebbe solo nascere dal fraintendimento della legge, la quale realmente separava gli ebrei da Dio. Invece qui diviene evidente che una vera unione con Gesù può essere data in dono solo a chi si vincola alla legge.
Se ora Gesù sta tra i suoi discepoli e la legge, non è certo per dispensarli di nuovo dall'osservanza della legge, ma per sottolineare la sua pretesa di adempimento della legge. Proprio perché legati a Gesù, i discepoli sono sottoposti alla stessa obbedienza. E altrettanto, con l'adempimento del minimo iota della legge, questo iota non è affatto liquidato per i discepoli. È compiuto, ecco tutto. Ma proprio perciò ora è in pieno vigore, così che un giorno sarà detto grande nel regno dei cieli chi mette in pratica e insegna la legge, «mette in pratica e insegna»...; si potrebbe anche pensare ad un insegnamento della legge che dispensi dall'azione, volendo solo che la legge serva, perché ci si renda conto che è impossibile osservarla. Ma tale dottrina non proviene da Gesù. La legge deve essere osservata, come lui l'ha osservata. Chi vuole seguire lui, che ha osservato la legge, seguendolo osserva e insegna la legge. Solo chi osserva la legge può restare in comunione con lui.
Non è la legge a distinguere i discepoli dall'ebreo, ma la «giustizia maggiore». La giustizia dei discepoli 'eccelle' su quella degli scribi. La supera, è qualcosa di straordinario, di singolare. Qui viene per la prima volta fatto cenno al concetto di [perisséuein], che nel versetto 47 acquisterà grandissima importanza. Dobbiamo chiedere: in che cosa consisteva la giustizia dei farisei? In che consiste la giustizia dei discepoli? Il fariseo certo non era mai caduto nell'errore di credere che, contrariamente alla scrittura, bastasse insegnare la legge senza osservarla. Il fariseo voleva osservare la legge. La sua giustizia consisteva nell'adempimento immediato e letterale di ciò che la legge ordina. La sua giustizia era data dall'azione. La sua meta era la totale conformità della sua azione con quanto la legge ordina. Ciononostante doveva sempre restare una parte che aveva bisogno del perdono. La sua giustizia resta incompleta, anche la giustizia dei discepoli poteva consistere solo nell'adempimento della legge. Nessuno, che non osservasse la legge, poteva essere chiamato giusto. Ma l'azione del discepolo supera quella dei farisei per il fatto che è realmente giustizia perfetta di fronte a quella imperfetta dei farisei. Come? La superiorità della giustizia del discepolo consiste nel fatto che tra lui e la legge sta colui che ha completamente adempiuto la legge, e che il discepolo vive in comunione con lui. Egli si è trovato non di fronte ad una legge incompiuta, ma di fronte ad una legge compiuta. Prima che egli incominci ad obbedire alla legge, la legge è già compiuta, è già stato soddisfatto alla legge in pieno. La giustizia richiesta dalla legge c'è già; è la giustizia di Gesù, che si lascia crocifiggere per amore della legge. Ma poiché questa giustizia non è solo un bene che deve essere messo in atto, ma è proprio la vera comunione personale con Dio, perciò Gesù non ha solo la giustizia, ma è lui stesso la giustizia. Egli è la giustizia dei discepoli. Per mezzo della sua chiamata Gesù ha reso i suoi discepoli partecipi di se stesso, ha loro donato la comunione con lui, li ha resi partecipi della sua giustizia, ha loro donato la sua giustizia. La giustizia dei discepoli è la giustizia di Cristo.
Solo per dire questo Gesù inizia le sue parole sulla «giustizia maggiore» con un richiamo all'adempimento della legge da parte sua. Ma la giustizia di Dio è veramente anche la giustizia dei discepoli. Certo, nel senso stretto della parola, resta giustizia donata, donata mediante la chiamata a seguirlo. È la giustizia che consiste appunto nel camminare dietro a lui, e già nelle beatitudini a questo viene promesso il regno dei cieli. La giustizia dei discepoli è giustizia sotto la croce. È la giustizia dei poveri, dei tentati, degli affamati, dei miti, degli apportatori di pace, dei perseguitati... per la chiamata di Gesù, la giustizia visibile di coloro che appunto in ciò sono la luce del mondo e la città sulla montagna... per la chiamata di Gesù. In questo la giustizia dei discepoli è 'maggiore' di quella dei farisei, perché si basa solo sull'invito a entrare in comunione con colui che, solo, ha compiuto la legge; in questo la giustizia dei discepoli è vera giustizia, che essi stessi ora fanno la volontà di Dio, osservano la legge. Anche la giustizia di Cristo non deve essere solo insegnata, ma messa in atto. Altrimenti non è maggiore della legge solo insegnata, ma non osservata. Tutto quanto segue si riferisce a questa messa in atto della giustizia di Cristo da parte dei discepoli. Detto in una parola: al cammino dietro a Gesù. È l'azione reale, semplice, compiuta nella fede nella giustizia di Cristo. La giustizia di Cristo è la nuova legge, la legge di Cristo.
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