La gioia e il dolore sono doni ugualmente preziosi, che bisogna assaporare interamente, ciascuno nella sua purezza, senza cercare di confonderli. Con la gioia, la bellezza del mondo penetra nella nostra anima; col dolore ci entra in corpo. Con la sola gioia non potremmo mai diventare amici di Dio, così come non si diventa capitani studiando soltanto dei manuali di navigazione. Il corpo deve avere la sua parte in ogni tirocinio. Al livello della sensibilità fisica, solo il dolore ci mette in contatto con la necessità che costituisce l’ordine del mondo, poiché il piacere non riesce a trasmetterci l’impressione della necessità. Solo la parte più elevata della sensibilità umana è in grado di avvertire la necessità nella gioia, grazie unicamente al sentimento dei bello. Affinché il nostro essere possa un giorno diventare completamente sensibile a questa obbedienza che è la sostanza stessa della materia, affinché si formi in noi questo senso nuovo che permette dl intendere l’universo come vibrazione della parola di Dio, è indispensabile la funzione mediatrice e trasformatrice sia del dolore che della gioia. Bisogna aprire il centro stesso dell’anima sia all’uno che all’altra, allorché si presentano, come si apre la porta ai messaggeri dell’essere amato. Che importa ad un’amante che il messaggero sia educato o brutale, se porta un messaggio?
Ma l’infelicità non è il dolore. Essa è ben altro che uno strumento pedagogico di Dio.
L’infinità dello spazio e del tempo ci separa da Dio. Come lo potremmo cercare allora? Come potremmo andare a lui? Quand’anche camminassimo lungo tutti i seco¬li, non faremmo altro che girare intorno alla terra. Anche con un aereo, non potremmo fare diversamente: a noi non è concesso di avanzare in verticale, noi non possiamo fare un solo passo verso il cielo. È Dio che attraversa l’universo e viene fino a noi.
Al di sopra dell’infinità dello spazio e del tempo, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene alla sua ora. Noi possiamo semplicemente acconsentire ad accoglierlo o rifiutarlo. Se restiamo sordi, egli ritorna continuamente come un mendicante, ma un giorno, proprio come un mendicante, non ritorna più. Se acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento Dio non ha più niente da fare e nemmeno noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso accordato, del sì nuziale. Ciò non è facile come sembra, poiché la crescita del seme in noi è dolorosa. Inoltre, per il solo fatto che accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che la metterebbe in difficoltà, cioè di strappare le cattive erbe, la gramigna; purtroppo la gramigna fa parte della nostra stessa carne; quindi queste cure da giardiniere sono un’operazione violenta. Tuttavia il seme, nonostante queste cure, cresce da solo. Viene il giorno in cui l’anima appartiene a Dio; quel giorno l’anima non solo acconsente all’amore, ma amerà veramente, effettivamente. Allora lei dovrà a sua volta attraversare l’universo per andare a Dio. L’anima non ama Dio come una creatura, con un amore creato. In lei quest’amore è divino, increato, poiché è l’amore di Dio per Dio che passa attraverso di lei. Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo solo acconsentire a perdere i nostri sentimenti personali per lasciare nella nostra anima il passaggio libero a questo amore. Questo significa rinnegare noi stessi. Non siamo stati creati che per questo consenso.
L’amore divino ha attraversato l’infinità dello spazio e del tempo per andare da Dio a noi. Ma come può rifare il tragitto in senso inverso quando il punto di partenza è dato da una creatura finita? Quando il germe dell’amore divino deposto in noi è ormai cresciuto e diventato albero, come possiamo, noi che lo portiamo, riportarlo alla sua origine, fare in senso inverso il viaggio che Dio ha fatto verso di noi, attraversare la distanza infinita?
Sembra impossibile, ma un mezzo c’è e questo mezzo noi lo conosciamo bene. Sappiamo bene a che cosa somiglia quest’albero che è cresciuto in noi, quest’albero così bello, su cui gli uccelli del cielo si posano. Noi sappiamo qual è l’albero più bello di tutti: «Nessuna foresta ne ha uno così bello». L’albero più bello, addirittura il più sconvolgente di qualsiasi potenza umana, è quell’albero il cui seme è stato posto in noi da Dio, senza che sapessimo neppure quale fosse. Se noi l’avessimo saputo, non avremmo detto di sì al primo momento. È quest’albero che è cresciuto con noi, che non possiamo più sradicare. Solo un tradimento può sradicarlo.
Quando si picchia con un martello su un chiodo, il colpo, ricevuto dalla testa del chiodo, viene trasmesso interamente alla, punta, senza che nulla vada perduto, benché essa non sia che un punto. Se il martello e la testa del chiodo fossero infinitamente più grandi avverrebbe la stessa cosa: la punta del chiodo trasmetterebbe al punto nei quale essa è,applicato questo colpo infinito.
L’estrema infelicità, che è insieme dolore fisico, stanchezza dell’anima e degradazione sociale, è questo chiodo. La punta è applicata al centro stesso dell’anima. La testa del chiodo è tutta la necessità sparsa attraverso alla totalità dello spazio e del tempo.
L’infelicità è una meraviglia della tecnica divina. È un dispositivo semplice e ingegnoso che fa entrare nell’anima di una creatura finita l’immensità della forza cieca, brutale e fredda. La distanza infinita che separa Dio dalla creatura si concentra interamente in un punto per colpire l’anima nel suo centro. L’uomo, al quale succede una cosa del genere, non ha nessuna funzione in questa operazione. Si dibatte come una farfalla che viene infilzata viva con uno spillo su un album. Ma egli può continuare a voler amare anche attraverso l’orrore. Non è impossibile, non ci sono ostacoli e neppure difficoltà perché nemmeno il dolore più grande, quando si trova al di qua del punto di svenimento, può colpire l’anima al punto da impedirle di orientarsi. Ma è necessario sapere che l’amore è un orientamento, non uno. stato d’animo. Se lo ignoriamo, piombiamo nella disperazione non appena ci colpisce l’infelicità.
L’uomo, la cui anima rimane orientata verso Dio, mentre è trafitta da un chiodo, si trova inchiodata ai centro stesso dell’universo. Esso è il vero centrò, che non è nel mezzo, ma fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo una dimensione che non appartiene allo spazio, che non è il tempo, che è una dimensione completamente diversa, quel chiodo ha aperto un passaggio nella creazione, perforando lo spessore dello schermo che separa l’anima da Dio.
Grazie a questa dimensione meravigliosa l’anima può, senza abbandonare il luogo e l’istante in cui si trova il corpo a cui essa è legata, attraversare la totalità dello spazio e del tempo e giungere alla presenza stessa di Dio.
Essa si trova nel punto di intersezione fra creazione e Creatore: questo punto d’intersezione è il punto d’incrocio dei due bracci della croce.
San Paolo pensava forse ad una cosa del genere quando diceva: «State radicati nell’amore, per essere capaci di capire qual è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere ciò che va oltre ogni conoscenza: l’amore di Cristo».
Per essere inchiodati alla stessa croce di Cristo quando siamo colpiti da un’infelicità estrema, dobbiamo portare nella nostra anima, nel momento in cui giunge l’infelicità, non solo il seme diviso, ma l’albero di vita già formato. Altrimenti possiamo soltanto scegliere o l’una o l’altra delle due croci che si trovavano a fianco di quella di Cristo.
Assomigliamo al cattivo ladrone quando cerchiamo una consolazione all’infelicità nel disprezzo e nell’odio dei compagni di sventura. È questo l’effetto più comune che provoca la vera infelicità, ed è, per esempio, l’atteggiamento degli schiavi nell’antica Roma. Coloro che si stupiscono quando scorgono un tale stato d’animo negli infelici, non sanno che anch’essi farebbero altrettanto se l’infelicità li toccasse.
Per assomigliare invece al buon ladrone è sufficiente che ci rendiamo conto di aver meritato almeno quel grado di infelicità che ci ha colpiti. Infatti, prima di essere ridotti all’impotenza dall’infelicità, siamo diventati, a cau¬sa della nostra viltà, inerzia, indifferenza o ignoranza colpevole, complici di determinati crimini che hanno spinto altri esseri umani in un’infelicità pari almeno alla nostra. Senza dubbio, in genere non potevamo impedire questi crimini, ma avremmo almeno potuto condannarli pubblicamente. Non lo abbiamo fatto, o addirittura li abbiamo approvati, o perlomeno abbiamo permesso che si dicesse intorno a noi che li approvavamo. L’infelicità che subiamo non è, in termini di stretta giustizia, un castigo troppo grande per questa complicità. Non abbiamo il diritto di aver compassione di noi stessi. Sappiamo che almeno una volta un essere perfettamente innocente ha sofferto un’infelicità peggiore della nostra: è meglio dirigere la compassione verso di lui attraverso i secoli.
Ognuno può e deve dirsi queste cose, poiché avvengono fatti ed esistono situazioni così atroci nelle nostre istituzioni e nei nostri costumi che nessuno di noi può ritenersi assolto da questa complicità diffusa.
Certamente, ciascuno di noi si è reso colpevole almeno d’indifferenza criminale.
Oltre a ciò, ogni uomo ha il diritto di desiderare di partecipare alla croce stessa di Cristo. Noi abbiamo un diritto illimitato di chiedere a Dio tutto ciò che è bene. Non è certo in queste domande che conviene essere umili o moderati.
Non bisogna desiderare l’infelicità: sarebbe contro natura, sarebbe una perversione. D’altra parte l’infelicità è, per essenza, ciò che si subisce nostro malgrado.
Se non vi siamo immersi, possiamo solamente desiderare che, nel momento in cui o saremo, la nostra infelicità costituisca una partecipazione alla croce di Cristo.
Ma ciò che in realtà è sempre presente e che di conseguenza è sempre possibile amare, è la possibilità dell’infelicità. Le tre componenti del nostro essere vi sono sempre esposte. La nostra carne è fragile; qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, strapparla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi meccanismi interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni spesso non motivate, pietosamente dipendente da ogni sorta di cose e di esseri altrettanto fragili e capricciosi. La nostra persona sociale, dalla quale dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente ed interamente esposta al caso. Il centro del nostro essere è legato a queste tre componenti da fibre tali che risente delle ferite inferte ad una qualsiasi di esse fino a sanguinare lui stesso. In modo particolare, quel che diminuisce o distrugge il nostro prestigio sociale, il nostro diritto alla stima, pare alterare o abolire la nostra stessa essenza: fino a questo punto l’illusione è la nostra sostanza.
A questa fragilità quasi infinita non pensiamo quando tutto va più o meno bene. Ma nulla ci costringe a non pensarci. Possiamo anzi pensarci continuamente e ringraziare continuamente Dio, non solo per la fragilità stessa, ma anche per quella debolezza più intima che trasporta questa fragilità al centro stesso del nostro essere. Infatti è que¬sta debolezza che rende possibile, eventualmente, il processo che ci potrebbe inchiodare al centro della croce.
Possiamo pensare a questa fragilità con amore e con riconoscenza nei momenti di maggiore o minore sofferenza. Possiamo pensarvi nei momenti più o meno indifferenti. Possiamo pensarvi durante i periodi di gioia. Non io si dovrebbe fare se questo pensiero avvelenasse o diminuisse la gioia. Ma non è così. La gioia acquista solo una dolcezza più penetrante e più ricca, come la fragilità dei fiori di ciliegio ne accresce la bellezza.
Se atteggiamo il nostro pensiero in questo modo, dopo un certo tempo la croce di Cristo diventerà la sostanza stessa della vita. Quando Cristo consigliava ai suoi discepoli di portare ogni giorno la loro croce, voleva indubbiamente riferirsi a questo atteggiamento e non, come pare che si creda oggi, dire di rassegnarsi semplicemente di fronte alle piccole noie di ogni giorno, che a volte chiamiamo croci, per un abuso di linguaggio quasi sacrilego. Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità del tempo e dello spazio e che può, in alcune circostanze, concentrarsi sull’atomo che noi siamo e polverizzarlo totalmente. Portare la propria croce significa sapere che siamo interamente sottomessi alla cieca necessità, in ogni parte del nostro essere, tranne in un punto così segreto dell’anima che la coscienza stessa non lo raggiunge. Per quanto un uomo possa soffrire crudelmente, se una parte del suo essere ,è immune dal dolore e se egli non è pienamente consapevole che essa vi è sfuggita solo casualmente rimanendo però egualmente esposta ai colpi del caso, egli non è ancora partecipe della croce. Questo è vero soprattutto se la parte dell’essere più o meno immune dal dolore é quella sociale. Ecco perché la malattia, per esempio, non ci fa partecipi della croce, se essa non è accompagnata da un perfetto spirito di povertà. Un uomo perfettamente felice può nello stesso tempo gioire della felicità e portare la sua croce, se in ogni istante è realmente e concretamente consapevole della possibilità dell’infelicità.
Ma non basta ancora conoscere una simile possibilità: bisogna amare teneramente il rigore di questa necessità, che è come una medaglia a due facce: una, quella rivolta verso di noi, esprime la potenza che ci domina, l’altra, quella rivolta verso Dio, la nostra obbedienza. Bisogna stringerla fra le braccia, anche se ci presenta i suoi chiodi e, stringendola, farla entrare nella nostra carne. Chiunque ama è felice quando durante l’assenza dell’essere amato può stringere un oggetto che gli appartiene, sino a farlo penetrare nella carne. Noi sappiamo che questo universo è un oggetto appartenente a Dio. Dobbiamo ringraziare Dio dal fondo del cuore per averci dato come regina assoluta la necessità, sua schiava inconsapevole, cieca e perfettamente obbediente. Essa ci guida con la frusta. Ma, essendo noi sottomessi quaggiù alla sua tirannia, è sufficiente che scegliamo Dio per nostro tesoro, che mettiamo in Dio il nostro cuore affinché ci sia dato di vedere l’altra faccia di quella tirannia, la faccia che è pura obbedienza. Siamo gli schiavi della necessità, ma siamo anche i figli dei suo Padrone. Qualsiasi cosa essa ci imponga, dobbiamo amare lo spettacolo della sua docilità, noi che siamo i bambini di casa. Ogni volta che essa non fa ciò che vogliamo oche ci obbliga a subire ciò che non vogliamo, ci è concesso grazie all’amore di passare attraverso di lei e di vedere la faccia dell’ubbidienza che essa mostra a Dio. Felici coloro che hanno spesso questa preziosa occasione.
Il dolore fisico intenso e prolungato ha questo solo vantaggio: che la nostra sensibilità è tale che non può accettano. Possiamo abituarci, assecondare, adattarci a qualunque cosa tranne che al dolore fisico e, quando ci adattiamo, lo facciamo per un’illusione di potenza, per credere che siamo noi a comandare. Noi giochiamo ad immaginare di avere scelto ciò che ci é stato imposto. Ma, quando un essere umano è trasformato ai suoi stessi occhi in una specie di bestia quasi paralizzata e completamente ripugnante, non può più conservare quest’illusione.
Ancor più se quella trasformazione è avvenuta per volontà degli uomini, per effetto di una condanna sociale, a patto che sia stato un atto di oppressione in un certo senso anonimo e non una persecuzione onorevole. La parte carnale della nostra anima è sensibile alla necessità solo quando questa si presenta come costrizione, ed è sensibile alla costrizione solo quando è dolore fisico.
È sempre la stessa verità quella che penetra nella sensibilità carnale per mezzo del dolore fisico, nell’intelligenza per mezzo della dimostrazione matematica e nella facoltà d’amare per mezzo della bellezza.
Anche Giobbe, dopo che il velo carnale gli è strappato dall’infelicità, vede nella sua nudità la bellezza del mondo. La bellezza del mondo si rivela all’uomo appena egli riconosce la necessità come sostanza dell’universo e l’obbedienza a un Amore perfettamente saggio come sostanza della necessità.
L’universo di cui noi siamo un frammento non ha altra ragion d’essere se non quella di ubbidire.
La gioia sensibile ha un potere analogo a quello del dolore fisico quando è così viva, così pura, quando supera ogni attesa al punto di farci capire che siamo incapaci di procurarci qualcosa di simile o di assicurarcene il possesso. Gioie di questo tipo hanno sempre per essenza la bellezza. La gioia pura e il dolore puro sono due aspetti della stessa, infinitamente preziosa verità. Ed è bene che sia così, perché in tal modo abbiamo il diritto di augurare a chi amiamo la gioia e non il dolore.
La Trinità e la croce sono i due poli del cristianesimo, le due verità essenziali: l’una gioia perfetta, l’altra perfetta infelicità. La conoscenza dell’una e dell’altra e della loro misteriosa unità è indispensabile; tuttavia a causa della condizione umana noi siamo situati quaggiù infinitamente lontano dalla Trinità, ai piedi stessi della croce.
La croce è la nostra patria.
La conoscenza dell’infelicità è la chiave del cristianesimo. Ma questa conoscenza è impossibile.
È impossibile conoscere l’infelicità senza averla attraversata. Infatti essa ripugna talmente al pensiero che diventiamo incapaci di concepirla così come un animale, salvo eccezioni, è incapace di uccidersi. Il pensiero conosce l’infelicità solo quando vi è costretto. È impossibile credere, senza esservi costretti dall’esperienza, che tutto ciò che abbiamo nell’anima, ogni pensiero, ogni sentimento, ogni atteggiamento nei confronti delle idee, degli uomini e dell’universo, e soprattutto l’atteggiamento più intimo nei confronti di noi stessi, sia interamente alla mercé delle circostanze. Anche se lo riconosciamo teoricamente, cosa già di per sé rara, non lo crediamo con tutta l’anima. Crederlo con tutta l’anima significa, secondo l’espressione di Cristo, non (come si traduce di solito) rinuncia o abnegazione, ma rinnegare noi stessi; e questa è la condizione per meritare di essere discepoli di Cristo. Ma, quando ci troviamo immersi nell’infelicità o quando siamo passati attraverso di essa, non crediamo maggiormente a questa verità, anzi si potrebbe quasi dire che vi crediamo ancor meno. Infatti il pensiero non può mai essere costretto, ha sempre la possibilità di sfuggire con la menzogna. Il pensiero che, obbligato dalle circostanze, viene a trovarsi di fronte all’infelicità, tende a rifugiarsi nella menzogna con la prontezza con cui l’animale minacciato di morte si nasconde in un rifugio che gli si para dinanzi. Talvolta, nel suo terrore, affonda nella menzogna profondamente; spesso succede anche che coloro che sono stati infelici siano diventati prigionieri della menzogna come di un vizio, tanto da aver perso del tutto il senso stesso della verità. Li si rimprovera a torto: la menzogna è talmente legata all’infelicità che Cristo ha vinto il mondo per il solo fatto che, essendo la Verità, è rimasto Verità sino in fondo all’estrema infelicità. Il pensiero è costretto a fuggire l’infelicità per un istinto di conservazione infinitamente più essenziale al nostro essere di quello che ci difende dalla morte del corpo.
È relativamente facile esporsi alla morte quando, per effetto delle circostanze o dei giochi dell’immaginazione, non si presenta sotto l’aspetto dell’infelicità. Non si può guardare l’infelicità in faccia e da vicino con un’attenzione ferma e sicura se non si accetta la morte dell’anima per amore della verità. È la morte dell’anima di, cui parla Platone quando dice che «filosofare è imparare a morire»; morte dell’anima che è simbolizzata nelle iniziazioni dei misteri antichi ed è rappresentata dal battesimo.
In realtà non si tratta per l’anima di morire, ma semplicemente di riconoscere la verità secondo cui essa è una cosa morta, una cosa analoga alla materia. Essa non deve diventare acqua: essa è acqua; ciò che noi crediamo sia il nostro io è un prodotto fuggitivo e succube delle circostanze esteriori come la forma di un’onda del mare.
Basta sapere questo, saperlo fino in fondo.
Ma soltanto Dio possiede questa conoscenza perfetta dell’uomo e, sulla terra, soltanto coloro che sono stati generati dall’alto. Infatti si può accettare la morte dell’anima solo se si possiede un’altra vita oltre quella illusoria dell’anima, solo se si ha il proprio tesoro e il proprio cuore fuori di sé, non solo fuori della propria persona ma fuori dei propri pensieri, dei propri sentimenti, al di là di tutto ciò che è conoscibile, nelle mani del Padre nostro, che è nel segreto. Coloro che sono in questa dimensione sono stati generati dall’acqua e dallo Spirito. Essi non sono diventati altro che una doppia ubbidienza, da un lato alla necessità meccanica di cui son prigionieri a causa della loro condizione terrestre, dall’altro all’ispirazione divina.
Non c’è più nulla in loro che si possa chiamare la loro volontà, la loro persona, il loro io: essi non sono altro che un determinato punto di intersezione fra la natura e Dio. Tale punto è il nome con cui Dio li ha chiamati dall’eternità, è la loro vocazione. Nell’antico battesimo per immersione l’uomo spariva sotto l’acqua; il che significava negare se stessi, affermare che si è solo un frammento della materia inerte di cui è costituita la creazione. L’uomo riappariva sollevato da un movimento ascendente più forte della forza di gravità, immagine dell’amore divino nell’uomo.
Il simbolo racchiuso nel battesimo è lo stato di perfezione. La promessa legata al battesimo è quella di desiderare e di chiedere a Dio questo stato, continuamente, instancabilmente, finché non lo si è ottenuto, come un bimbo affamato non si stanca di chiedere a suo padre del pane.
Ma non si può sapere a che cosa impegna una tale promessa finché non si è in presenza del volto terribile dell’infelicità.
Solo di fronte ad essa può essere assunto l’impegno vero con un atto di adesione più segreto e più misterioso, più miracoloso di un sacramento.
La conoscenza dell’infelicità è impossibile sul piano naturale sia per coloro che l’hanno provata come per coloro che non l’hanno provata; ma diventa possibile sia agli uni che agli altri per grazia soprannaturale. Diversamente, Cristo non avrebbe risparmiato l’infelicità a colui che prediligeva sopra tutti, dopo avergli promesso che lo avrebbe fatto bere nella sua coppa. Nei due casi la conoscenza dell’infelicità è una cosa ben più miracolosa. che il camminare sulle acque.
Cristo riconosce come suoi benefattori soltanto coloro la cui compassione si fonda sulla conoscenza dell’infelicità. Gli altri dànno per capriccio, con irregolarità, o troppo regolarmente per un’abitudine ricevuta dall’educazione, o per conformità a convenzioni sociali, per orgoglio o per pietà carnale, o per avere la coscienza a posto, in breve per un motivo che riguarda loro stessi. Essi sono altezzosi, oppure assumono un’aria protettiva, oppure rivelano una pietà indiscreta, o lasciano intendere all’infelice che egli è ai loro occhi soltanto l’esemplare di una certa specie di infelicità. In ogni modo il loro dono è una ferita. Ed sessi ricevono il loro premio quaggiù, poiché la loro mano sinistra non ignora affatto ciò che fa la destra.
Il loro contatto con gli infelici non può avvenire che nella menzogna, poiché la vera conoscenza degli infelici implica quella dell’infelicità. Coloro che non hanno guardato il viso dell’infelicità o non sono pronti a farlo, non possono avvicinarsi agli infelici se non protetti dal velo di una menzogna o di un’illusione.
Se d’improvviso apparisse sul volto di un infelice il volto dell’infelicità, essi fuggirebbero.
Quando il benefattore di Cristo viene a trovarsi di fronte a un infelice, non avverte alcuna distanza fra se stesso e l’altro; trasporta tutto il suo essere nell’altro; di conseguenza l’atto di portare il cibo è istintivo e immediato come quello di mangiare quando si ha fame. E questa azione viene subito dimenticata, così come si dimenticano i pasti dei giorni passati. Un tale uomo non si sognerebbe mai di dire che si occupa degli infelici per il Signore; gli sembrerebbe assurdo come se dicesse che mangia per il Signore.
Si mangia perché non se ne può fare a meno. Coloro che Cristo ringrazierà donano con la stessa naturalezza con cui mangiano.
Essi donano ben più che un pezzo di pane, dei vestiti e delle cure. Trasportando il loro essere stesso in colui che soccorrono, gli donano per un momento quell’esistenza di cui egli è privato dall’infelicità. L’infelicità è essenzialmente distruzione della personalità, passaggio nell’anonimato. Come Cristo si è svuotato della sua divinità per amore, così l’infelice è svuotato della sua umanità dalla sua cattiva fortuna. Egli non ha più altra esistenza che quella cattiva fortuna stessa. Agli occhi altrui e ai suoi è interamente definito dalla sua relazione con l’infelicità. Qualcosa in lui che vorrebbe esistere è continuamente rigettato nel nulla come se si colpisse con colpi sempre più fitti un uomo che sta annegando. Egli è, secondo i casi, un povero, un esule, un negro, un malato, un condannato: i cattivi trattamenti e le buone azioni, di cui egli è oggetto, sono ugualmente diretti verso l’infelicità di cui egli è un esemplare fra molti altri. Cattivi trattamenti e azioni buone hanno la stessa efficacia nel mantenerlo nell’anonimato e diventano due forme della medesima offesa.
Colui che vedendo un infelice trasporta in lui il suo essere, fa nascere in lui per amore, almeno per un momento, un’esistenza indipendente dall’infelicità. Infatti, per quanto l’infelicità sia l’occasione di questo processo soprannaturale, non ne è però la causa. La causa è l’identità degli esseri umani attraverso tutte quelle distanze apparenti che il caso e la fortuna pongono fra di loro.
Trasportare il proprio essere in un infelice significa assumere, per un momento, la sua infelicità, assumersi quindi volontariamente ciò la cui essenza consiste nell’essere imposto per costrizione e contro la volontà. È una cosa impossibile. Solo Cristo l’ha fatto. Soltanto Cristo può farlo, e gli uomini di cui Cristo occupa tutta l’anima. Costoro, trasferendo il loro proprio essere nell’infelice che soccorrono, mettono in lui non tanto il loro essere, perché essi non ne hanno più, quanto Cristo stesso.
L’elemosina praticata così diventa un sacramento, una operazione soprannaturale, grazie alla quale un uomo in cui abita Cristo trasferisce realmente Cristo nell’anima di un infelice. Il pane così donato, se si tratta di pane, equivale ad un’ostia. Non è un simbolo o una congettura, ma una traduzione letterale delle parole stesse di Cristo. Egli dice infatti: «a me che l’avete fatto». Cristo vive dunque nell’infelice affamato o ignudo: ma non per effetto della fame o della nudità, poiché l’infelicità di per sé non racchiude nessun dono derivante dall’alto, quanto grazie a quell’atto di donazione. Che Cristo sia presente in chi dona in modo perfettamente puro, è evidente; chi dunque potrebbe essere benefattore di Cristo se non lui stesso? i facile capire d’altronde che solo la presenza di Cristo in un’anima può renderla capace di vera compassione. Ma il Vangelo ci rivela inoltre che colui che dona per vera compassione dona Cristo stesso. L’infelice che riceve quel dono miracoloso può scegliere di acconsentirvi oppure no.
Un infelice, la cui infelicità sia completa, è privato di ogni rapporto umano. Non esistono per lui che due tipi di relazioni con gli uomini, quella in cui egli compare solo più come una cosa, relazione meccanica come quella di due gocce d’acqua vicine, e l’amore puramente soprannaturale. La regione intermedia gli è vietata. Nella sua vita c’è soltanto più posto per l’acqua e lo Spirito. L’infelicità acconsentita, accettata, amata è veramente un battesimo.
Durante la sua vita terrena Cristo non ha ottenuto compassione, proprio perché egli è il solo capace di offrire compassione. Quando si trovò quaggiù in un corpo, non abitava nell’anima di nessuno di quelli che lo circondavano: ecco perché nessuno poteva aver pietà di lui.
Il dolore l’ha costretto a sollecitare la compassione, e i suoi amici più intimi gliel’hanno rifiutata. L’hanno lasciato soffrire solo. Anche Giovanni dormiva. Pietro era stato in grado di camminare sull’acqua ma non fu capace d’aver pietà del suo maestro, caduto nell’infelicità. Essi si rifugiarono nel sonno per non vederlo più. Quando la Misericordia stessa diventa infelicità, dove potrebbe trovare soccorso? Ci sarebbe voluto un altro Cristo per aver pietà di Cristo infelice. Lungo i secoli successivi, la compassione per l’infelicità di Cristo è stata un segno di santità.
L’operazione soprannaturale dell’elemosina, contrariamente a quella, per esempio, della comunione, non esige una piena consapevolezza. Infatti coloro che Cristo ringrazia rispondono: «Signore, quando dunque?...». Essi non conoscevano colui che avevano nutrito. E non c’è nulla che ci permette di dire che avessero qualche conoscenza di Cristo. L’hanno potuta avere oppure no. L’importante è che siano stati giusti. Da quel momento Cristo in essi si è dato sotto forma di elemosina. Felici i mendicanti, poiché hanno la possibilità di ricevere forse una volta o due nella loro vita una tale elemosina.
L’infelicità si trova indubbiamente al centro del cristianesimo. L’adempimento dell’unico e doppio comandamento, «Ama Dio» e «Ama il tuo prossimo», passa attraverso l’infelicità. Infatti, riguardo al primo, Cristo ha detto: «Nessuno giunge al Padre se non passa attraverso me». Ha detto anche: «Come Mosè ha innalzato il serpente nel deserto, allo stesso modo è necessario che il figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui possieda la vita eterna».
Il serpente di bronzo era quel serpente che bastava guardare per essere preservati dagli effetti del veleno. Non si può dunque amare Dio se non fissando la croce. E quanto al prossimo, Cristo ha detto che è il nostro vicino colui che dobbiamo amare. È quel corpo nudo, sanguinante e svenuto che noi vediamo giacere sulla strada.
È innanzitutto l’infelicità che dobbiamo amare, l’infelicità dell’uomo, l’infelicità di Dio.
Si rimprovera spesso al cristianesimo una compiacenza molle nei confronti della sofferenza e del dolore. È un errore. Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. È una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutalità meccanica delle circostanze. La degradazione che un uomo subisce di fronte a se stesso, passando dallo stato umano a quello di un verme schiacciato che si agita sul terreno, non è cosa di cui possa compiacersi nemmeno un pervertito; tanto meno un saggio, un eroe o un santo. L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo, suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale.
Acconsentire all’esistenza dell’universo, è la nostra funzione quaggiù. Dio non si accontenta di riconoscere buo¬na la sua creazione. Egli vuole che essa stessa si riconosca come buona. A questo servono le anime attaccate a minuscoli frammenti di mondo. E la funzione dell’infelicità è proprio quella di permetterci di pensare che la creazione di Dio è buona. Infatti, finché le circostanze si svolgono intorno a noi lasciando il nostro essere quasi intatto o solo in parte contaminato, noi siamo più o meno convinti che la nostra volontà abbia creato il mondo e lo governi. L’infelicità ci insegna d’improvviso, con nostra grande sorpresa, che non è affatto così. Giunti a questo punto, se noi lodiamo qualcosa, lodiamo veramente la creazione di Dio. Tutto ciò non è difficile, perché sappiamo che l’infelicità non diminuisce per nulla la gloria divina. Non ci impedisce dunque di benedire Dio per la sua grande gloria.
Così l’infelicità è il segno più sicuro che Dio vuole essere amato da noi; è la testimonianza più preziosa del suo amore. È una cosa ben diversa dal castigo paterno. È più esatto paragonarla ai litigi affettuosi con cui i giovani fidanzati si assicurano della profondità del loro amore.
Non abbiamo il coraggio di guardare l’infelicità in faccia; altrimenti, dopo un po’ di tempo ci accorgeremmo che ha il volto dell’amore; così come Maria Maddalena s’è accorta che colui che essa scambiava per un giardiniere era in realtà qualcun altro.
I cristiani, meditando sul ruolo essenziale dell’infelicità nella loro fede, dovrebbero accorgersi che l’infelicità è in un certo senso l’essenza stessa della creazione. Essere delle creature non significa necessariamente essere infelici, ma essere esposti necessariamente all’infelicità. Solo l’increato è indistruttibile.
http://www.ministridimisericordia.org/
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