1. Premessa
Desidero ringraziare i vescovi italiani per l’invito ricevuto a partecipare ai lavori di questo Convegno, in cui mi è stato affidato il compito di introdurre al tema delle fragilità.
Nella riflessione che illustrerò non v’è la pretesa di un contributo scientifico ori-ginale, ma piuttosto l’eco di esperienze di studio, di discussione impegnata, di amore autentico, di generoso servizio di tanti cui ho creduto di poter dare voce, in questa sede, da fedele (laico e coniugato) desideroso, nell’attenzione alle cose della civitas hominis, di contribuire con tutti voi ad una migliore società in cui vivere.
Sono persuaso che questa è un’occasione assai propizia di matura e condivisa par-tecipazione ecclesiale. Non mi spetta, né d’altra parte saprei, formulare tesi o enun-ciati su cui dibattere. Vorrei sollecitare il nostro dialogo ed il confronto, segnalando prospettive, suggerendo approfondimenti, ponendo interrogativi, ricercando percor-si; senza pretesa di dover o saper essere esaustivo, porgerò stimoli ed incoraggiamenti allo sforzo di un’attenta riflessione comunitaria, perché sento una passione autentica per le straordinarie opportunità di questa stagione storica e ne vorrei tutti contagiare.
Dunque, soltanto un’introduzione al nostro tema, per l’orientamento del lavoro dei gruppi ad orizzonti ampi: ecco l’itinerario che credo di potervi proporre, per la discussione nell’ambito che ci riunisce, a fondamento d’una testimonianza di più ra-gionevole speranza per le generazioni future in questo Paese.
2. Per un comune vocabolario
2.1 “La” fragilità e “le” fragilità
“Fragilità”, dunque: come definirla e percepirla? Nella locuzione emerge una radice di contenuto chiaro: frangere, ossia spezzare, ridurre in frammenti. Fragile è dunque ciò che può spezzarsi. In questo generalissimo livello, fragilità è qualcosa che di per sé non si caratterizza né come problema né come risorsa, ma, più sempli-cemente, come uno stato o un limite della materia e degli organismi viventi; po-tremmo poi distinguere al riguardo di fragilità nel creato e nelle creature.
Molti termini tuttavia circolano nell’uso corrente come sinonimi o omologhi per connotare nel segno “delle fragilità” (al plurale, in luogo del singolare) condizioni e situazioni problematiche tipicamente umane (individuali ma anche collettive), percepite sempre più diffusamente e, per così dire, in espansione, tanto da apparire (per il loro rilievo assai coinvolgente) quasi la “cifra” definitoria dei tempi che vi-viamo. Proviamo a rammentarne alcuni.
In ambito economico, politologico e giuridico sovente parliamo di marginalità (o sottoprotezione), di precarietà (o provvisorietà) ed anche di “nuove povertà”, ovvero di criticità (micro e macro–sociale). Si tratta, in genere, di casi di deficit di ri-levanza o rischio d’insignificanza, che riguardano: gli appartenenti a taluni gruppi sociali svantaggiati; coloro che versano in una cittadinanza incompiuta o “minore” o non sono in grado di esercitare neppure i diritti fondamentali (per situazioni perso-nali di limitata capacità o anche soltanto d’interinale “minorità”); alcune istituzioni rappresentative di comunità, in forte crisi di legittimazione sebbene siano luoghi ti-pici, anzi eminenti, di partecipazione democratica alla vita civile (purtroppo ormai molto scaduta).
In ambito sanitario, ma non solo, si sono poi diffuse locuzioni quali: soggetti a rischio, disagio (o difficoltà) e, con priorità, prevenzione (in usi semantici densi, indicativi d’incertezza, di carenza o di bisogno insoddisfatto di sicurezza, altrettanti sinonimi di fragilità).
Ancora, in ambito culturale (e filosofico), nell’esperienza attuale di stagnazione della secolarizzazione, di concomitante risveglio religioso (promettente, sebbene assai dispersivo) e di complessità crescente all’insegna della cd. pluralità totale, si impiegano termini quali crisi (della speranza e della ragione) e identità aperta (o fluida) e si pone l’accento sulla rilevanza del disagio dell’alterità.
La soggettività odierna, in questo senso assai “fragile”, fa esperienza del proprio disagio soprattutto nella relazione io/tu: quando s’atteggia come esperienza di male (inferto o subìto), sofferenza, lacerazione, privazione dell’esercizio di libertà (che nell’altro trova un limite “naturale”); quando lo svelamento di sé rende più vulnera-bile la propria interiorità all’altro (che ne potrebbe approfittare); quando l’altro è ciò di cui s’avrebbe bisogno e non c’è; quando sembra che l’alterità deprivi di valore l’individuo e ridimensioni il primato che la sua dignità pretenderebbe di meritare (come accade sempre più nelle esperienze di famiglia, verso cui oggi si soffre come se fossero un costrutto ingabbiante ma da cui si pretende al contempo la soddisfazione dei propri bisogni d’affettività, quasi che questi potessero o dovessero, nel legame, saturare ogni altra domanda esistenziale).
2.2 Le fragilità “problema”
Già questo primo approccio consente di concepire la fragilità come un concetto-contenitore, che, concernendo essenzialmente la sfera della vita umana, attinge questioni d’identità, di ruolo e di equilibrio in genere e si propone con una qua-lificazione sostanzialmente negativa: si parla allora di fragilità come “problema”.
Soffermiamoci ora sulle fragilità esistenziali, ponendo però per un momento da parte quelle originate da iniquità ed ingiustizie per occuparci di quelle, per così dire, “ontologiche”: esse sono vissute come “emergenze” (da fronteggiare risolutivamente o rimuovere, pena lo scadimento della qualità della vita collettiva ed individuale fin qui raggiunta) o come “condizioni” limitanti (da cui, se possibile, affrancarsi o, al più, da “oscurare”, non da assumere ed attraversare).
In ogni stagione della vita l’uomo è “umano”, cioè “fragile”, ed in tutte le genera-zioni si è fatta esperienza di fragilità (anche solo contingenti ed eventuali). Eppure, soltanto in questi tempi esse appaiono un problema culturale, nel senso cioè che inci-dono in modo e grado decisivi sulla concezione che ogni individuo ha della vita e dell’uomo. Sia che tocchino direttamente sia che ne siamo protagonisti indiretti o soltanto spettatori, c’è, in queste tensioni, tutta intera un’esperienza di disagio, in-gravescente fino al rifiuto, verso le caratteristiche di particolare penosità che la realtà dell’esistenza di ogni uomo può presentare (e da cui nessuno è escluso), che tuttavia soltanto da poco abbiamo imparato, in un tempo peraltro assai breve, a non gradire e quindi a rimuovere. Come fattori di povertà contingente, da cui liberarsi (in un’epoca di rilevante benessere e tenore di vita); o come autentici disvalori (cioè condizioni culturalmente non più accettabili, nel senso che prima s’accennava). Soffriamo insomma troppo le nostre fragilità (anche quelle “ordinarie”) e non sappiamo più accettarne le implicazioni, sia quando è “l’altro” ad esserne protagonista, sia quando riguardano noi stessi, quasi che in tali casi o circostanze la vita sia divenuta poco meritevole d’essere vissuta perché disumanizzata, mentre è il nostro mutamento di concezione del valore della dignità umana che ha in realtà disumanizzato, meglio, impoverito ognuno (e ci ha reso problematico il responsabile e corretto intenderle e viverle).
Per quel volto dell’occidente opulento ed evoluto quale anche noi italiani siamo, il nostro, insomma, è un tempo strano.
Un tempo in cui s’affermano grandi capacità ed entusiasmi, come quelli dischiusi dalla fiducia nelle potenzialità della ricerca scientifica e delle applicazioni tecnologi-che: percorsi, questi, da esercitare con elevata responsabilità, riguardando strumenti ad altissimo tasso d’incisività sulla vita comune, forme moderne di un decisivo potere sulla natura e sugli uomini; ma in cui risaltano pure incapacità inaudite (come quella, peraltro universale, del saper soffrire, non più però solo di “cose grosse” ma anche di “cose piccole”).
Un tempo in cui siamo in grado di vedere di più e meglio, ma la nostra sensibilità, fattasi in tutti i sensi “ipersensibile”, si scopre anche troppo vulnerabile (e perciò non possiamo o non sappiamo o, peggio, fingiamo di non vedere alcune dimensioni particolari della nostra identità, creando oscurità nell’intimo e soprattutto nel foro dell’autocoscienza, in guisa d’inganno, per non affrontare temute cocenti delusioni).
Un tempo in cui la frequente rinuncia a mete ideali d’alto profilo e l’accomodante appagamento nell’effimero, l’esasperata ricerca del benessere (costruito tra l’altro sulla misura individuale) e la minimizzazione del costo spirituale che implica un sif-fatto vivere, comportano il fiorire di idealtipi umani singolari: l’individuo efficiente fisicamente e psicologicamente roccioso, esteticamente incline al perfetto (o quasi), rampante in cerca di successo (cioè, d’affermazione del proprio potere sull’altro), moralmente ed eticamente norma a se stesso, proteso a vivere oltre i propri limiti, determinato alla difesa del proprio privato (che non tollera intrusioni di sorta), in ul-tima istanza pronto al disprezzo dei bisogni altrui; ma, dietro la facciata di tanta forza e sicurezza, quanti drammi di inferiorità (fisica e psichica), dipendenza e solitudine, grettezza ed egoismo, sterilità!
Un tempo in cui proviamo come l’illusione di possedere le chiavi della vita e della sua manipolabilità (quasi demiurghi della sua origine e, nel contempo, protagonisti finalmente “operativi” del rinnovato sogno faustiano dell’immortalità a portata di mano); eppure ci sentiamo mai felici autenticamente, anzi come in perenne precarietà, tanto che la vita non solo siamo disposti a non viverla o ad abbreviarla, ma neppure la desideriamo offrire a chi vi potrebbe accedere, né la permettiamo a chi ne dovrebbe fruire, fino alle incredibili piaghe sociali (che mai a sufficienza si stigmatiz-zeranno) della crisi della natalità, delle pratiche abortive – non solo eugenetiche – e dell’inaccettabile manipolazione o impiego dell’uomo (sia a scopi di ricerca sia di commercializzazione), perfino nella forma creaturale più fragile che ne sia conoscibi-le, cioè l’embrione.
Un tempo in cui il nostro orgoglio di esseri pensanti non sta implicando anche un salutare incremento del pensare, ossia dello studio attento e serio sul perché di questa crisi (collettiva, e non solo individuale) di energia vitale e di speranza (nell’uomo e nel futuro).
Sta accadendo così qualcosa di singolare. Gli uomini, da che mondo è mondo, soffrono, si ammalano, muoiono; per molti anni della propria vita, l’esistenza di tanti è una scommessa, esposta a rilevanti precarietà, senza sicurezze di benessere e di so-pravvivenza. Molti, troppi individui e comunità continuano a lottare, spesso soltanto per sopravvivere; eppure, anche i ricchi hanno perso speranza nel futuro. Si è man-tenuta, anzi aggravata, la forbice tra primo mondo opulento e terzo (e quarto) mon-do con reddito pro capite infimo, che dipendono nella propria sopravvivenza dalle briciole della tavola dei potenti; ma solo l’esperienza di una guerra insensata (sebbene in qualche senso assai prevedibile) ha fatto capire, appena un decennio fa, ai giovani di Belgrado, Lubiana e Sarajevo – “occidentali” come i nostri figli, adusi al lusso dei pc, dei telefonini e delle tecnologie elettroniche – il valore dell’acqua potabile (di-venuta bene così fondamentale, da andare ad attingerne alla fontana sotto il tiro dei cecchini, a rischio della vita, pur di procurarsene un po’) e dell’energia elettrica (di-menticata per mesi ma tanto agognata, spesso per attenuare la paura, anzi il terrore, del buio notturno), che troppi loro coetanei asiatici ed africani ancora attendono, e dalla nascita, di fruire.
Gli eventi naturali, quelli catastrofici s’intende, nel loro ricorrere hanno mantenuto chiara la dimensione “eterna” di assoluta fragilità dell’umanità e del creato. Abbiamo la presunzione, per averli scientificamente analizzati e decifrati nelle loro dinamiche e trasformati in modelli di studio e di simulazione, di poterli preconizzare o conoscere in anticipo? O quanto meno “controllarli” per impedirne, ridurne o limitarne l’impatto distruttivo (in beni e risorse umane)? Un’eruzione, un’alluvione, un uragano, un terremoto o un più drammatico e sconvolgente tsunami sono ancora sufficienti a metterci desolantemente in ginocchio (magari per scelte umane dissen-nate o soltanto poco lungimiranti in tema di protezione civile) e mentre la macchina dei soccorsi, troppo spesso tra grettezze ed indifferenze, s’avvia al salvataggio ed alla ricostruzione, piangiamo e ci lamentiamo, disquisendo sull’assenza di Dio! “Assenza o silenzio?”, bisognerebbe prima interrogarsi!
Anche in questo inizio di millennio, queste leggi di natura si confermano attuali. Il terrorismo globale e la proliferazione d’un clima planetario d’incertezza, nel quadro fosco (purtroppo non solo ipotetico) dell’allargamento a macchia d’olio dei conflitti regionali e del possibile innesco in tempi ravvicinati di drammatiche escalation fino allo scontro nucleare, di certo hanno accentuato insicurezze e paure di molti. Troppe barbarie poi testimoniano una capacità di male inaudita, che si credeva avesse raggiunto l’apice nel genocidio della shoah ed invece si è come ulteriormente evoluta, quasi raffinatamente. Nulla di nuovo sotto il sole, però! In materia di rischio nucleare, nel passato secolo già abbiamo conosciuto, noi occidentali in genere, sia culturalmente sia materialmente, le esperienze della crisi di Cuba e degli anni inter-minabili della guerra fredda, pur senza annientamento e cosificazione umana. La morte “di tutto” sembra però come sullo fondo.
La morte, è vero, è qualcosa che sembra negarci integralmente come uomini; ma non è stata risparmiata ad alcuno, neppure a Gesù fatto uomo. Da sempre, come il concepimento e la nascita, è l’unica cosa certa della vita; e se la vita è davvero un grande mistero, pure, di fronte alla paura della morte, in qualche misura può dare conforto (se non certezze) il primo titolo che s’addice a Dio (come un carissimo a-mico in agonia in un letto d’ospedale mi ha insegnato): non quello di Creatore On-nipotente, ma di Padre, di padre buono, che ci è sempre vicino e prossimo.
Dunque, che ci sta accadendo? Perché le nostre vulnerabilità costituiscono tanto problema? Forse, abbiamo trasformato tanti sogni in bisogni? Cosa ci ha reso tanto più fragili di appena poco addietro, quasi a smarrire la fortezza (ossia la fermezza, la saldezza, la perseveranza)?
Lo scenario, per certi aspetti, è veramente sconcertante, sebbene non manchino echi di speranza autentica, ma soprattutto pone interrogativi cui ogni risposta è an-cora da meditare.
2.3 Le fragilità “risorsa”
Nel primo discernimento, i lavori preparatori di questo Convegno, accogliendo questa particolare dimensione – che abbiamo appena delineato – delle fragilità u-mane come “problema”, l’hanno identificata come una delle “grandi aree dell’esperienza personale e sociale” verso cui siamo chiamati, da cristiani, “singo-larmente e come comunità”, ad essere oggi ed in Italia particolarmente sensibili. Se rilevanti fragilità sono presenti anche nel creato, ci devono interpellare primariamen-te quelle che costituiscono tratto emblematico dell’identità umana.
Sottolineando come sempre più stia emergendo il bisogno di comprenderne l’ampiezza d’estensione e la scaturigine, ma soprattutto di viverne con coscienza ma-tura e solidamente fondata tutta l’effettiva densità, le Chiese italiane sono state invi-tate ad affrontarne senza più differimenti o infingimenti l’attuale rilevanza. Per con-durci a nuovi approdi sul senso globale dell’esistenza umana ed anche per seminare, secondo la dimensione specifica e propria dell’agire della Chiesa, il fermento indi-spensabile a rinnovare il patto su cui si fondano le nostre comunità civili, con corag-giose e chiare istanze circa gli interventi normativi e d’indirizzo politico prioritari a tutela del valore dell’uomo in quanto tale.
Così ci è proposto di guardare alle fragilità umane – soprattutto quelle che più temiamo – come risorsa, ossia come “ragione” e “motore” di un particolare impe-gno. Non per emarginarle o “anestetizzarle” (con le tecniche appropriate), ignoran-done la dignità, nascondendone la profondità di significato o rimuovendone più che possibile la penosità. Bensì, al contrario, per approfittare, in un certo senso, della lo-ro presente “invasività” nel nostro immaginario, per vincerne la paura ed attuarne pienamente l’accoglienza, nel segno dell’amore ad esse, della chiarezza e della con-cretezza. Per viverle radicalmente, con convinta adesione all’intima disposizione della Chiesa a proporsi “come comunità che ama il Cristo in coloro che Lui più ha amato” (cioè nei sofferenti e deboli, negli insignificanti, in quelli di cui nessuno s’accorge o vuol prendersi cura) e che, alla sua sequela, attraverso esperienze di autentica comunione d’amore – sociale e personale – vuole, ardentemente, la santità di ognuno, sia il fragile sia il forte.
Innescando virtuosamente una nuova esperienza collettiva di ricerca del vero va-lore della vita umana, che le restituisca ricchezza e pienezza e ne metta in chiara luce l’essenziale suo contenuto, si vorrebbe dunque che la testimonianza dei cristiani di questo primo avvio del millennio agisca in Italia fruttuosamente, con rinnovato ali-mento e maggior efficacia, con coraggio e fedele perseveranza, ma soprattutto con profonda e sincera umiltà: sia verso le manifestazioni presenti delle odierne nuove povertà e marginalità (che interpellano le coscienze a conseguire una più vera e seria giustizia umana); sia verso quelle situazioni estreme che costituiscono i “quadri della passione” di tante vite anonime, di credenti e non, dalle quali (come icone del Cristo che continua ad essere sofferente nei loro corpi e nelle loro anime) ogni cristiano ha molto più da imparare e meno da insegnare, e che sono da avere a cuore e da non abbandonare nei deserti della loro troppa solitudine. A noi, nei gruppi, spetterà il compito di darne una prima concretizzazione. Ma v’è di più!
Negli incontri preparatori, si è ampiamente avvertito che quello delle fragilità è un tema cd. trasversale, che interpella un po’ tutte le principali questioni antropologiche: le problematiche dell’identità di genere e di ruolo (e, con esse, del senso e valore del corpo e della sessualità); il precario equilibrio della vita (nel fluire di tutte le sue stagioni) tra lavoro e tempo familiare e personale, tra salute e malattia, tra benessere e sofferenza; il rapporto educativo e di trasmissione culturale tra le generazioni; il fondamento della speranza di fronte alle forme di più acuto peccato (individuale e sociale) oggi diffuse. Un tema di fronte al quale parrebbe quindi assai utile proporre alcuni modelli di fragilità come punti di forza del rimodellamento di nuovi, più accettabili stili di vita, all’insegna di un magistero di umanità autentica, di condivisione (e non di solitudine) che, purtroppo, pure nella Chiesa (scandalo-samente) difetta o risulta solo residuale.
Si è percepito, ancora, che esistono alcuni macro – settori della vita sociale in cui le problematiche delle fragilità presenti divengono ormai sempre più questioni non soltanto di carattere assiologico, ma anche organizzativo e si è osservato che i tempi attuali esigono uno sforzo supplementare d’acume e lucidità ed interpellano vieppiù le responsabilità civili (anche delle professioni): nell’invito a cogliere e denunciare nei sistemi di riferimento le inadeguatezze più evidenti e non ulteriormente tollerabili (perché lesive dei diritti fondamentali) e ad incidere propositivamente sull’esistente (per ampliare – come si è detto – l’area della vera giustizia); in particolare, nel garan-tire comunque anche in tali casi l’accompagnamento personale (che non dovrebbe mai mancare a coloro che ne sono protagonisti): ovunque, si ribadisce, nello stile di una piena condivisione, della delicatezza e del rispetto ma anche (e soprattutto) della vera passione.
A quest’ultimo proposito, cioè quello della “vera passione per una piena condivi-sione”, la questione non è quella del: “fragile – maneggiare con cura”, ma, piuttosto, quella del: “fragile – maneggiare con amore”. In questo diverso, più eminente senso, le fragilità divengono qualcosa di più di una risorsa, anche soltanto per i protagonisti attivi di tanto volontariato (sia autentico, sia meno profetico). Per vie in un certo senso misteriose agli uomini ma ben chiare nella pedagogia divina, e che in paradiso verranno certamente a piena luce, ad esse si può e si deve guardare nel loro atteggiarsi come una sorta di dono di Dio agli uomini, una provvidenziale opportu-nità, piuttosto che problema, per riconoscere in che risiede ai Suoi occhi la vera no-stra grandezza: la capacità cioè di accogliere e dare amore.
Concepire però l’accoglienza delle fragilità –- a cominciare dalle proprie – come esercizio di autentica umanità (o, in altri termini, di santità) e di ringraziamento (non come equivoca via ascetica o penitenziale), non è certamente agevole, neppure per un credente. Esistono, infatti, forme di sofferenza che appaiono umanamente irri-mediabili (cioè senza possibilità di riscatto), o più semplicemente prive di speranza redentrice: di esse, nessuno direbbe di poter essere lieto o d’averne bisogno. Eppure talvolta soltanto esperienze del genere permettono di scoprire che si può mostrare il volto migliore di sé proprio nella massima fragilità (propria o altrui)!
Misteriosamente grande è il discernimento che il Signore, nei sentieri della vita, sa dare al riguardo. Esistono, in particolare, casi di persone latrici di fragilità inaudite, capaci tuttavia ugualmente di cura di deboli; si tratta di persone che hanno speri-mentato – in esperienze di crescita o cammino non tanto “assistiti”, quanto “condi-visi” – forme di attenzione viva ed efficace che ne hanno acuito la sensibilità, o semplicemente “risvegliato” potenzialità in un primo momento neppure intuibili, fi-no a gesti tanto concreti quanto semplici e genuini di vero amore, per i quali non si finirebbe di poter dire: “grazie!”, perché ci ricordano che “… l’amore del prossimo non può essere soltanto un comandamento imposto, per così dire, dall’esterno …”, ma una ragione di vita, un obiettivo da perseguire con determinazione, una passione che proviene dal riconoscimento di essere stati creati per amore e per amare. E se questo è vero in chiave personale, cosa significa sul piano comunitario? Condivisione, profezia, im-pegno, fantasia della carità.
Infine, è giusto dar conto del fatto che, nei documenti pervenuti dalle diocesi e nei contributi preparatori provenienti da associazioni e movimenti, sono state espresse rilevanti aspettative sul presente nostro convegno, ma pure rilevanti incertezze su alcune delicate questioni – a valenza non del tutto solo endoecclesiale – circa le limitate potenzialità attuali sul piano formativo e culturale e su quello della presenza sociale (verrebbe di dire, le presenti “fragilità”) delle Chiese particolari in Italia, cui è bene quanto meno accennare, che si possono richiamare per grandi linee nei termini seguenti:
– il voler porre l’uomo, la persona al centro dell’azione della Chiesa;
– la scelta della povertà come via eletta;
– il ruolo e contenuto della carità spirituale e culturale del cristiano (intuita come ministero di amicizia e di fraternità con gli intellettuali non credenti o credenti di altre religioni per il dialogo nei “moderni areopaghi”) nell’approccio al futuro;
– gli orientamenti degli studi e della ricerca teologica (in particolare sulla questione escatologica);
– la “riqualificazione” della formazione culturale e l’impegno delle istituzioni di ricerca (o d’altri “luoghi permanenti” di studio) per il conseguimento di una visione più organica dei problemi attuali e per una più efficace incidenza su di essi;
– il sostegno alla formazione delle vocazioni personali (con il rischio, sempre la-tente, della riduzione a fatto d’organizzazione della visibilità e dell’efficacia della Chiesa);
– la desiderabile, ma ancora poco udibile, “sinfonia” delle voci cristiane tutte (non solo cattoliche) e dei ministeri (ordinato e laicale), nell’affrontamento della presente stagione come tempo così ricco, insieme, di complessità e di grazia;
– le rilevanti difficoltà del “bussare al cuore dei lontani” (dei quali, assai proba-bilmente, tanti già ci sopravanzano nel cammino verso il Regno dei cieli), in tempi di sazietà materiale, diffusa indifferenza spirituale e cospicuo pluralismo religioso;
– la questione del sostegno alla convivenza interetnica ed alla interculturalità;
– le serie problematiche (antiche e recenti) del rilievo che deve assumere, per l’impegno politico dei laici in Italia, lo “stare al fianco e prendersi cura”.
A queste sia permesso d’aggiungere il tema (del tutto aperto) dell’incremento delle collaborazioni e delle relazioni stabili tra le Chiese sorelle in Italia e tra queste e quelle del Mediterraneo (in particolare quelle che vivono in territori in cui i cristiani sono minoranza e non godono delle medesime opportunità di esercizio dei loro diritti fondamentali) per fini di comune impegno formativo e pastorale e per l’instaurazione di solidi legami d’amicizia, all’insegna di vicendevole solidarietà.
3. Come vivere le fragilità?
Fragilità, ancora: come “viverle”? Alla luce di quanto finora detto, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un’opportunità grande per verificare se ed in quale misura siamo capaci di servire Dio nell’uomo e che la via elettiva in proposito è appunto l’ascolto, l’accoglienza dell’uomo fragile, e la condivisione delle fragilità non soltanto come risorsa, ma come dono.
Al di là delle pur legittime aspirazioni di buona volontà ad offrire soluzioni alle tante povertà (vecchie e nuove) che dobbiamo imparare a riconoscere e comunque a condividere, “quando si incontra una sofferenza, il primo atteggiamento che un uo-mo, una donna dovrebbero avere è quello di fermarsi, per ascoltare, guardare, per vedere e capire, come fece il samaritano. Potrà non toccare a noi la risposta necessa-ria, ma tocca sempre a noi l’ascolto, la vicinanza, il voler andare a vedere cosa pos-siamo fare”, cioè offrire speranza a chi la chiede.
Sembra, in un certo senso, cosa ovvia, eppure non lo è mai abbastanza! Sarà sol-tanto un frammento di una vita, quello attingibile, ma non deve far temere incon-cludenza; è bene invece averne cura, importa che ci sia il risveglio del cuore, perché “l’immagine di Dio scolpita in ogni uomo è assolutamente più forte di ogni male che l’uomo possa compiere” o di ogni sofferenza o peccato che la possa sfigurare: essa, insomma, nostro malgrado, ci viene incontro e non possiamo, non dobbiamo per-metterci il lusso di non incontrarla e lasciarcene trasformare, perché è questa la nostra maggior virtù.
Questo è vero, innanzi tutto, nella storia individuale di ognuno di noi. Ma ci ri-guarda anche come Chiesa, come porzione di umanità che ha a cuore Dio e l’uomo e vuole saper vivere “con” e “come” Gesù, rivelando per così dire lo stile di Dio, che è quello di un amore gratuito, totale e fedele, anche quando non ricambiato!
Seguendo la proposta iniziale dell’indice, un po’ provocatoria, proviamo allora a verificare, nei riferimenti della tripartizione individuata, fondamenti, forme e luoghi di una testimonianza possibile, desiderabile, esigente ed esigibile, di vicendevole cura amorevole di chi è nella necessità, chiunque egli sia, e di chi gli vuole essere prossimo.
3.1 Fragilità nel creato
Nell’espressione, chiaramente metaforica, risuonano plurime eco di un’unica in-quietudine: quella di chi (purtroppo fondatamente) teme le limitate prospettive di futuro pronosticabili per l’umanità.
Vi è incluso il problema dell’estrema vulnerabilità degli ecosistemi, sia di fronte agli eventi naturali di tipo catastrofico-distruttivo (di cui tragici accadimenti recenti hanno reso palese l’intensità), sia in conseguenza dell’agire umano che ne attua la trasformazione. Di fronte all’elevata probabilità che il pianeta subisca, in senso fisico, un degrado tale da non consentire un po’ dovunque la sopravvivenza, il presente sviluppo tecnologico non sembra da solo poter condurre ad approdi tranquillizzanti, e ciò non soltanto per ragioni d’intrinseca efficienza, quanto per la complessità delle questioni legate alle scelte d’indirizzo politico “globale” in tema di mantenimento dell’equilibrio degli ecosistemi stessi.
V’è poi il problema ineludibile (ma non nuovo), dell’uso consapevole e responsa-bile delle risorse naturali sia riproducibili sia non riproducibili (divenute in pochi de-cenni sempre più scarse), quale componente determinante di uno sviluppo sostenibile in condizioni di garanzia effettiva della ulteriore vivibilità della Terra.
Ed infine, last but not least, la questione della redistribuzione su scala globale delle utilità dei bona communia omnium tra cui, in particolare, l’aria da respirare e l’acqua dol-ce, detta ormai “oro blu”.
Anche nel caso dell’Italia, urgono – e non da poco – situazioni ambientali all’apparenza forse meno apocalittiche o ancora poco visibili ma del pari emergenziali (non regionalmente caratterizzate, anzi diffuse), in un panorama a luci ed ombre, dall’equilibrio spesso precario e facilmente “collassabile”.
Un generale spreco del patrimonio territoriale (urbanizzato e non), anche in im-pieghi socialmente poco giovevoli, se non consapevolmente dannosi, con difficoltà di fruizione delle fonti naturali (soprattutto idriche).
Città degradate sia fisicamente (nei luoghi della loro memoria, incautamente o ciecamente deprivati del necessario risanamento e restauro) sia eticamente (nelle pe-riferie – nate o divenute ghetti – in cui la vita consiste nell’esercizio di una cittadi-nanza “minore”), inospitali, non vivibili ai più (segnatamente, piccoli e anziani).
Sistemi di comunicazione e reti di trasporto ad andamento altalenante o in svi-luppo “a singhiozzo” e ad elevatissimo impatto ecologico e sulla qualità della vita (di cui il pendolarismo è forse l’aspetto più appariscente).
Livelli di consumo eccessivi, sicuramente riducibili; capacità di gestione a fini produttivi del territorio, soprattutto in agricoltura, poco valorizzate e meritevoli di maggior impegno; saperi professionali al riguardo di tutto ciò critici, o marginali o peggio cinici (secondo l’occasione).
Problemi che diverranno più acuti nel corso della vita dei giovani adulti di oggi; ma quanti genitori, che considerano la garanzia di un futuro sicuro per i propri figli come la priorità principale ed investono la propria ricchezza quale eredità per loro, possono dirsi ancora certi di un futuro per loro?
V’è poi da dire anche della fragilità delle istituzioni, soprattutto quelle pubbliche, ossia dei sistemi di esercizio del potere sociale e giuridico sulla natura e sugli uomini, che in atto versano in delicata crisi, sia nella dimensione statuale sia in quella super-statuale. È giusto che se ne accenni qui perché la mondializzazione, compiutasi in tutto il pianeta negli ultimi venti anni (di cui la cd. globalizzazione è soltanto uno degli esiti) ha, per così dire, mutato la fisionomia della dimensione “territorio” e quindi l’identità della collettività che ci vive. Ed è bene anche avvisare che, pur a fronte di un quadro fenomenologicamente troppo complesso ed in un contesto di grave incertezza per la pace mondiale, le istituzioni del primo mondo devono fronteggiare tre problemi particolari in questo inizio di millennio: 1) confini spaziali incerti e fluidi; 2) aggregati umani meno compatti e coesi (non più “popoli”, bensì “popolazioni”); 3) relativismo valoriale generalizzato e localismi riduzionisti o intolleranti.
Si tratta, come è intuibile, di fragilità i cui riflessi (nella presente stagione di diffi-cile inquadramento delle appartenenze) emergono anche nello specifico della situa-zione italiana, soprattutto nelle due dimensioni problematiche: a) del rinnovamento del patto valoriale a fondamento della costituzione interna (la messa in discussione della quale è tuttora di piena attualità) e della costruzione di quello su cui poggiare la cittadinanza europea; b) del futuro della democrazia partecipativa (la crisi della quale, nelle forme della disaffezione o del rifiuto, è evidente).
3.2 Fragilità nelle creature
Si è, in un certo senso, già detto molto delle fragilità delle creature umane in ge-nerale. Pare utile, tuttavia, suggerire alcuni spunti ancora in proposito, circa il rap-porto tra creaturalità e fragilità ed il suo rilievo per la vita morale.
3.2.1 Creaturalità e fragilità
La creatura uomo è stata concepita da Dio “a sua immagine e somiglianza” e posta nel mondo creato per esercitarne il dominio e la valorizzazione, custodendolo e coltivandolo, secondo un disegno di bene in virtù del quale è chiamata in qualche modo ad essere colui che ne completa (o continua) l’opera creatrice. La creaturalità, però, in quanto limitatezza e dipendenza, è, in un certo senso, anche la radice di tutte le fragilità umane che tanto ci angustiano; e questa condizione può dirsi voluta dal nostro Creatore, per tutti gli uomini e per ogni tempo. Perché?
Forse perché soltanto chi è (in quanto creatura) “fragile” può realmente ed auten-ticamente percepire quei bisogni che lo spingono a mettersi in relazione con un'altra persona, e, tra questi, il bisogno (assolutamente interiore) di qualcuno che gli venga incontro, lo accolga, lo sostenga e lo incoraggi, lo abbia a cuore e, in una parola, de-siderandone il vero bene, lo ami e si spenda per lui, colmandone la pochezza e fa-cendogli avvertire o conseguire quella pienezza che lo rassicura ed appaga e diventa come il motore per tutta la sua esistenza. E perché soltanto chi è fragile, quando sperimenta nel suo impellente bisogno (pur solo soggettivamente tale) l'altrui amore per sé, scopre la gioia di avere valore, è liberato non dalla sua debolezza ma dalla za-vorra della “inutilità” della sua debolezza. In certo senso, si fa “nuovo”, coglie d’avere un rilievo, diventa così capace, a sua volta, di apertura di cuore e d’orizzonte, fino a sprigionare quella tensione interiore (che anche in lui è) in virtù della quale il sogno di chiunque (di essere forte, potente, “vittorioso”, insostituibile) si concretizza. E Dio, che è Amore, evidentemente ha desiderato così intensamente che l’uomo Lo ami volontariamente ed autenticamente – uomo che ha creato, per così dire, proprio per questo in tale sua dimensione – da renderlo pienamente libero di esserne o non esserne protagonista attivo ed ha accettato il rischio di non essere amato, man-tenendo tuttavia fedeltà per sempre (per parte sua) alla propria promessa d’amore.
È vero che un legame di dipendenza spesso si colorisce di significati negativi, quali la percezione della propria inferiorità e conseguentemente la paura dell’altro (come colui che ha potere su di te e ne potrebbe esercitare non pro ma contro), e come tale è fonte di timore e sofferenza o d’inquietudine ed insicurezza, non anche, neppure prima facie, di gioia. Gesù, però, ha detto molto chiaramente: “non vi ho chiamati servi … ma vi ho chiamati amici”, ed ancora: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi …”. Qui, il senso ed il messaggio esperienziale di questa “confessione” sono assolutamente straordinari: Cristo ci ribadisce che Dio ama per primo e che ha come il “bisogno” di ricevere dall’essere amato, a propria volta, un libero e vero con-traccambio d’amore, e nel contempo ci chiarisce che ciò che preme a Dio è il vero bene di ogni uomo e che solo in questo abbraccio d’amore tale bene può avere compimento. È così che il riconoscimento da parte della creatura del proprio legame di dipendenza verso il Creatore si può trasformare in una condizione di autentica gioia, anzi, si trasfigura del tutto.
La via e la vita di Cristo ci testimoniano, d’altra parte, che così è stato voluto pro-prio per un disegno d’amore, in cui le esperienze di drammaticità o tragicità che il male (fisico ed interiore) reca con sé possono anche spezzare del tutto, privando di speranza o rompendo un legame di fiducia, ma non sono mai caratterizzate dalla so-litudine, perché Dio, anche se tace, non smette di amare, mai. E poi, guardando al crocifisso, ma seriamente, cosa può far provare paura di Dio? Viene invece da af-fermare, con il salmo 23: “… se dovessi camminare per una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me …”.
3.2.2 Fragilità e vita morale
Ciò detto, in un altro senso ancora, che si riferisce elettivamente alla vita morale, fragilità si può identificare come “deficit di fortezza”. Su questo piano occorre però una certa attenzione.
La forza d’animo che chiamiamo fortezza, per quanto addestrata dalla scuola della vita e resa robusta in un allenamento severo, se cristianamente orientata, non procede con l’altezzosità superba del self made man, bensì con umiltà e riconoscenza; è una virtù, che (nei suoi connotati tipici della fermezza e costanza nella ricerca del bene) assicura l’energia necessaria per superare gli ostacoli che nella vita materiale traggono origine dalla paura dell’affrontamento delle prove esistenziali e costituisce, per così dire, la forma eminente della consapevole risposta di cooperazione alla grazia ricevuta da Dio. Essa è addirittura detta virtù “cardinale”, cioè “fondamentale”. Della fragilità umana possono allora, in senso morale, offrirsi due distinte chiavi di lettura.
Essa può atteggiarsi, in primo luogo, come dimensione d’inattitudine alla prova. In questo tipo si esprime spesso una forma di auto-svalutazione, talora solo sogget-tivamente avvertita (ma non anche oggettivamente tale), che funge quasi da limite preclusivo alla possibilità della padronanza piena di sé. Ora, conoscere, guardare in faccia ciò che si è, indubbiamente è essenziale, per la crescita della propria personali-tà, ma non è sufficiente nella vita morale; per una vita autentica, “vera”, occorre in-fatti anche “amare” ciò che si è, e questo è possibile, perché Cristo, che ama per primo, non ha messo condizioni a tale suo amore. Amarsi come si è non è però an-che stare fermi! Nessuna fragilità, per quanto cospicua, di per sé è un fato avverso o una vis maior cui resisti non potest, tale da impedire il progresso nella vita morale. Non volere questo progresso, non lottare per incamminarsi in esso, nella convinzione che non ne valga la pena, è una forma di povertà assai diffusa, che va contrastata, in un certo senso “facendo la guerra” ai propri difetti. Ed allo stesso modo va contrastata quella tentazione (forse ancora più grave) del crogiolarsi in tale persuasione, o asse-starsi in un equilibrio accomodante (di basso profilo) o in stagnazione. In secondo luogo, ogni fragilità, che non è da se sola fonte di peccato, può però costituire una condizione di serio rischio per la vita morale, quando in essa s’innestano le esperien-ze, tutte assai problematiche: della difficoltà del bene; del male agito per omissione; o, ancor peggio, della volontà di male.
Se dunque l’esperienza della fragilità è tale da mettere in luce soprattutto limiti e precarietà, questa presa di coscienza può essere salutare a patto che non si smarrisca mai (anzi, sia sostenuta) la grandezza della vocazione umana, che non si coglie sol-tanto nel successo, ma anche nella caduta e nella sconfitta.
Troppo è il valore di ogni uomo agli occhi di Dio per rinunciare a riscattarne la condizione ed è allora che può veramente comprendersi il compito precipuo della Chiesa verso i moralmente fragili: vivere la debolezza umana come luogo in cui la grazia di Dio dives in misericordia desidera penetrare, per compatire, riconciliare, cor-reggere, e far percepire il valore della sfida educativa per il bene; facendo aprire gli occhi su ciò che è bene o male, sostenendo, incoraggiando, soffrendo ed amando, pregando.
Nella loro acuta nevralgicità, sarebbero da esplorare poi qui alcune ulteriori e de-licate questioni, connèsse ai profili sia della vita morale sia (soprattutto) dell’etica so-ciale: ci si riferisce alle dimensioni dell’anomia diffusa e dell’illegalità, come manifesta-zioni eclatanti della presente fragilità valoriale collettiva, a fronte delle quali in questa aula è possibile un accenno soltanto, ma con determinazione, per richiamarci al va-lore che nel nostro tempo hanno e devono rivestire, soprattutto per le comunità dei cristiani, i temi della legalità e della giustizia.
Ai gruppi di lavoro dunque il più caldo invito a dibatterne le implicazioni e a ri-conoscerne la centralità per il ri-orientamento della vita civile dell’Italia di questo i-nizio di millennio. Per ora, mi sembra che debba essere affermato, con chiarezza, che questi nostri tempi, in relazione in particolare alle colpe penali, esprimono il bisogno di una normazione chiara e condivisa nei principi e di una giurisdizione assai rigorosa ed efficace, ma anche esigono il dovere di un “perdono responsabilizzante” quale dimensione non solo di auspicio profetico, bensì di autentica giustizia sociale (e non di dismissione della stessa).
3.3 Fragilità nel Cristo
Nelle fragilità umane, per quanto abbiamo proposto, è dunque possibile ricono-scere una via di apertura al mistero dell’amore di Dio. Ora, il tema teologico della debolezza (o dell’umiltà) di Dio è stato sempre molto studiato. Ha appassionato, in ogni generazione, soprattutto l’insegnamento paolino sulla paradossalità della peda-gogia divina nell’eloquenza della croce, non come apologia della debolezza in sé, bensì come affermazione della verità dell’onnipotenza di Dio che si fa debolezza, anzi estrema fragilità, per il bene dell’uomo.
Al grido d’abbandono emesso da Gesù prima di morire, è stato detto, sta il cul-mine della rivelazione sulla vita intima di Dio, che per amore soffre fino all’offerta suprema del sacrificio della vita del Figlio.
Di questa dimensione, vorrei qui sottolineare soltanto un profilo, quello della compassione del Padre verso la particolare fragilità di Gesù nelle tragiche sequenze della sua Passione. In essa, il Cristo in un certo modo non è solo: oltre ad un angelo (che piace intendere appunto come il riflesso del volto paterno di Dio prossimo al Figlio, durante la preghiera notturna nel Monte degli Ulivi), nelle ore dell’agonia sul legno della croce gli starà vicina Maria.
E veramente la “madre del Signore” durante l’intera Passione ci appare, nella sua identità di “donna forte”, come il volto materno di Dio misericordioso vicino a Ge-sù, “giusto sofferente”, addirittura denudato. Nella contemplazione della croce e del figlio crocifisso, il suo dolore è massimo, ma non riesce a spegnere in Lei la forza in-teriore dell’amore di Dio, e con esso della speranza, come se già Cristo le si mostrasse nella gloria del Risorto.
In tutta la sua esistenza terrena, d’altra parte, Maria – che nella sua vita ha parte-cipato di tanti dolori – è stata presente dove si è manifestata la necessità umana e dove la sofferenza in particolari ed emblematiche sue forme ha in qualche modo at-tinto il senso della vita per l’uomo; sicché, per più aspetti, veramente può essere proposta, nel titolo di “madre dell’accoglienza”, come “nuovo paradigma antropo-logico per l’uomo del Terzo Millennio”, soprattutto per l’ascolto e la condivisione – nella speranza autentica – delle sue fragilità.
Fin dalla discesa agli inferi, prima ancora che si renda manifesta la sua resurrezione (che è come in germe), un Dio fragile salva dunque l’uomo. È davvero così? I santi, soprattutto martiri, in particolare quelli (numerosissimi) del XX secolo, ci dicono, in proposito, che è possibile e fecondo essere accanto a Gesù in agonia per il suo “conforto”, e soprattutto che il senso della vita umana può essere colto fino in fondo soltanto e proprio nel legno della croce. Ma il volto di Cristo, il suo vero volto (quello del Cristo di Getsemani e poi del Litostroto e del Calvario, ma anche del Risorto, che mantiene intatte le cruente stimmate della sua flagellazione e crocifis-sione perché l’umanità di ogni tempo abbia sicura conferma della loro verità), oggi, ci seduce veramente?
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4. Gesù, i fragili e le fragilità
Come ha vissuto Gesù l’incontro con i fragili e le fragilità? Non sono un biblista, e pertanto non me ne vogliano gli specialisti per questa apparente “incursione” su terreno per me fuori dal seminabile. Ponendomi questo interrogativo, ho cercato soltanto di andare “alla scuola della pedagogia di Dio” in alcuni quadri neotestamen-tari per conoscerne la dinamica e lo stile dell’incontro tra Gesù ed i fragili e cercare di rispondere a due interrogativi in particolare: come ha amato i fragili Gesù? E noi, a nostra volta, come possiamo amarli? Ne sono venute fuori alcune percezioni che mi sento in dovere di riproporvi.
Innanzitutto, le “fragilità” con cui Gesù si è incontrato appaiono in una gamma amplissima, pressoché esaustiva di quelle presenti nell’umanità sofferente (fisicamente e spiritualmente), e molto spesso gravanti su persone socialmente irrilevanti, subordinate ed emarginate o reiette. Gesù inoltre non ha soltanto curato e guarito malattie del corpo (più o meno gravi, croniche e non; addirittura, in tre casi, ha resti-tuito alla vita dalla condizione di morte), ma ha anche incontrato situazioni d’inquietudine esistenziale e vocazionale, di malattia spirituale, di peccato; ha fatto luce in esperienze di reprensibile ipocrisia o autentica tenebra; ha visitato fin nelle loro case molti paria della società di quel tempo, restituendoli alla dignità della vita; ancora, ha sostituito la sua amicizia ad una solitudine desolante.
Nessuno è stato escluso, mai! E ciò è avvenuto poi, secondo quanto i vangeli illu-strano, ogni volta.
In secondo luogo, questo incontro, per quanto ci narrano gli evangelisti, non è avvenuto soltanto sulla richiesta dei tanti uomini e donne che sono accorsi a cono-scerlo, ma altrettanto spesso sull’iniziativa diretta di Gesù stesso, mossosi lui per primo verso un’umanità bisognosa d’insegnamento, di conforto e di cura, tanto che si potrebbe parlare, a questo riguardo, di un vero e proprio “ministero di misericor-dia”. E se tanti gli hanno condotto malati ed infermi o sofferenti; o ne hanno invo-cato sia per sé sia per altri l’azione taumaturgica (con energia inaudita, ostinata de-terminazione, gesti di invocazione o addirittura furtiva attrazione, sul presupposto del riconoscimento in lui di una “autorità” fuori dal comune); pure, i tanti che gli si sono avvicinati, che certamente erano per gran parte “sani”, in principio magari per curiosità, solo a seguito dell’incontro con Gesù devono aver avuto toccato il cuore, se è in virtù di questa esperienza che si apprende che hanno cominciato a seguirlo.
In terzo luogo, nella sua dinamica tipica, Gesù ha agito “trasformando” le situa-zioni umane d’inferiorità e fragilità con la forza di un’autentica e peculiare “amicizia” in un singolare tipo di relazione. Si è messo innanzitutto di fronte, chiedendo al sof-ferente ed al debole (sia rassegnato sia speranzoso) cosa cercasse o s’attendesse, o veramente desiderasse, per la sua vita, per muoverlo alla ricerca dell’essenziale. Lo ha quindi come guidato, amorevolmente, per questa via di discernimento, fino a condurlo all’approdo di una consapevolezza mai prima esercitata circa la propria si-tuazione di vita ed il suo autentico significato (nel bene come nel male). E, quando questa percezione nel fragile si è fatta realtà, Gesù ha offerto anche il dono della guarigione, sia nella sua forma più eloquente (quella del soprannaturale miracoloso, quale segno della sovrabbondanza della sua grazia,) sia in quelle – forse meno ecla-tanti, ma del pari incisive – della scoperta da parte dell’uomo e della donna da Lui amati della Sua vicinanza e così della possibilità, a portata di mano, di una vita diver-sa, autentica, gioiosa, ed ancora della riconciliazione a sé dell’umanità peccatrice. Ed è stata forse più la remissione dei peccati che l’azione taumaturgica straordinaria a creare scandalo (negli scribi e farisei, provocandone la ripulsa e l’ostilità). Infine, Ge-sù ha rivolto al fragile che ha toccato con la sua grazia rigeneratrice un unico invito in genere: “va!”; ossia, come sembra di potere intendere in senso spirituale: “vivi in pienezza la tua vita, quale essa è”.
In quarto (ed ultimo) luogo, Gesù ha poi ulteriormente sovrabbondato, dando anche ai suoi discepoli una sorta di “mandato” alle guarigioni (nelle forme dello “scacciare i demoni”, “imporre le mani ai malati” e, soprattutto, “predicare” – a tutti – “la conversione e il perdono dei peccati”) e promettendo loro “di rivestirli di po-tenza” con lo Spirito Santo.
5. Una fragilità trasformata
Come hanno reagito all’incontro con Gesù i fragili che lui ha amato? A tutti è stata data l’opportunità di una “guarigione”, o forse meglio, di un “rinnovamento”. Molti sono stati “rigenerati”. Non tutti però in quei frangenti appaiono effettivamente “guariti” (per non aver saputo o voluto accogliere l’amore di Cristo ed operare quel discernimento interiore indispensabile perché la loro vita fosse trasformata).
Certo, per coloro che – nel senso ampio cui prima s’accennava – sono stati “sa-nati”, l’esistenza è cambiata, del tutto: non solo per la guarigione fisica (o addirittura per la resurrezione dalla morte), o per quella psichica o spirituale, ma anche e soprat-tutto perché la percezione diretta ed inequivocabile dell’amicizia di Gesù ha prodotto in loro una speranza che prima non v’era, un desiderio ed insieme un bisogno di ripartire da capo, o ha favorito il rifluire di un’energia vitale positiva, riaccendendone la speranza! Ciò ben si comprende sia là dove i vangeli narrano direttamente della reazione del fragile risanato, sia là dove ne richiamano indirettamente la condotta di vita successiva (riferendo che la fama di questi eventi si spargeva assai ed ovunque: il che equivale a dire che da costoro è sorto come un vento di missionarietà). E si chiarisce soprattutto là dove si legge che molti lo cercavano, lo raggiungevano, vole-vano toccarlo e trattenerlo perché non andasse via, venivano ad ascoltarlo e a farsi guarire; che molti ne parlavano, rimanevano sbalorditi e pieni di stupore (cioè, s’interrogavano), comprendendo che si trattava di qualcosa di mai visto in Israele ed erano presi da timore; che molti lodavano e glorificavano Dio o divulgavano con aperta proclamazione di Lui e della sua grazia risanatrice; che molti, infine, “presero a seguirlo”. Tanti esempi eloquenti, mi pare, per tutti noi!
Nella via che abbiamo cercato d’individuare fin qui per la trasformazione delle nostre fragilità credo risieda il segreto dell’autentica felicità, o dell’attingimento della vita eterna e, quindi, della gioia cristiana e della speranza, nel presente e nel futuro, per ogni generazione umana.
Vita eterna, infatti, “non è semplicemente tempo senza fine, ma un altro piano dell’esistenza”; “non è una lunga durata, ma l’espressione di una qualità dell’esistenza” sperimentabile già nella nostra esperienza terrena; è cosa ben diversa da quella della durata cronologica con cui usiamo misurarla. Essa è, in ogni momento e ovunque, “là, dove ci riesce di stare faccia a faccia con Dio”, ossia un’esistenza “in cui tutto confluisce nel qui e ora dell’amore” grazie all’incontro autentico e nel profondo con Dio e che, “come un grande amore … non ci può più essere tolta da alcuna circostanza o situazione, ma è un centro indistruttibile, da cui provengono il coraggio e la gioia”, poiché questo incontro (con il Bene e la Bellezza) “ci trasforma dal di dentro”, e ci rende protagonisti di un’esperienza di vera e autentica comunione con tutta l’umanità.
Devo ora concludere questo mio sforzo, nella speranza di non averne tradito le motivazioni (o troppo deluso le aspettative), e desidero farlo con una citazione da un amico sacerdote a me carissimo (che il Signore, pochi anni fa, ha chiamato a sé), don Domenico Farias.
« … “Non abbiamo qui una città permanente, ma cerchiamo una futura”. Leg-gendo queste parole (…) il pensiero va ovviamente al Paradiso, alla Gerusa-lemme celeste. Verso di essa siamo esortati a proiettarci … Riusciremo in questa contingenza a non dimenticare le pagine più semplici del Vangelo che tante volte proprio di questo parlano e ci istruiscono? O saremo così sciocchi da pensare che ci sia qualche potere umano così forte da poterci togliere il futuro? Ricordiamolo: il futuro è di Dio e Lui è la nostra speranza, cioè un futuro sempre aperto.»
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