DON ANTONIO

sabato 31 marzo 2012

Commento alle letture 1 aprile 2012 (G.Bruni) MONASTERO DI BOSE



Letture: Fil 2,6-11; Mc 11,1-10; 14,1-15,47.
Passione del Signore
«Il Messia acclamato, profumato e crocifisso»
1. Il cammino terreno di Gesù è verso Gerusalemme, città nella quale egli entra nell’acclamazione ponendovi gesti decisivi e pronunciandovi parole radicali che ne segneranno il destino.
Un ingresso attraversato da un grande equivoco. Da un lato la folla che vede in Gesù il Messia atteso a liberare il popolo dall’occupazione romana instaurando il regno di David, d’altra parte Gesù che pur capendo le aspettative di un popolo amato e oppresso sa che non potrà esaudirne il desiderio. Altro è il suo modo di declinazione della regalità, Messia sì ma nella linea della debolezza forte della croce e non della potenza e del successo politici. Un equivoco che a breve sarà sciolto: al grido «benedetto» (Mc11,9) seguirà il grido «crocifiggilo» (Mc15,13-14), e trono del Messia sarà la croce e «La scritta con il motivo della sua condanna diceva: Il re dei Giudei» (Mc15,26).2. Ma tra l’ingresso festoso in Gerusalemme di Gesù e la sua passione si snodano tutta una serie di gesti e di parole che meritano attenzione nel loro dischiudere a una intelligenza profonda di lui e ai molteplici modi di porsi nei suoi confronti. La cosa ci riguarda da vicino. Tra i gesti vogliamo ricordare la cacciata dei venditori dal tempio connessa all’episodio del fico sterile (Mc11,12-17) a voler dire che egli, Gesù, è il tempio di Dio (Mc14,58) che emancipa i credenti in lui da ogni tempio fatto da mano d’uomo, rendendoli idonei al compimento di frutti buoni a tempo debito e no. Il bene non conosce stagioni morte.Tra le parole ricordiamo quella relativa al tributo a Cesare (Mc12,13-17), un invito a non idolatrare l’autorità politica convertendola in assoluto, a non politicizzare Dio strumentalizzandolo ai propri scopi e ad assumere le proprie responsabilità sociali con coscienza pura davanti a Dio e agli uomini. Insegnamento a cui fa seguito quello riguardante la resurrezione dei morti (Mc12,18-27), un atto di fede frutto di una relazione personalissima con il Dio della Scrittura che è in sé e per sé Dio dei viventi e non dei morti, un Dio che convince a pensarlo per quello che è: un Tu a cui la vita dell’uomo è cara per sempre. Caro gli è il suo futuro e caro gli è il suo giusto orientamento nel presente, l’amare Dio e il prossimo come lo ama Dio in Gesù, vale a dire in termini non condizionati da ragioni religiose, morali e etniche. Semplicemente perché creatura umana.Questo dice la parola relativa al primo comandamento, problema posto da un maestro della legge lodato per la sua saggezza (Mc12,28-34). Un abitare la terra dunque nell’amore e, il riferimento è al discorso sulla fine del tempo (Mc13), non da ossessionati da previsioni-predizioni sulla fine e neppure da distratti che non attendono nulla. Ma nella consapevolezza che questo mondo vecchio finirà lasciando il posto al regno di Dio. Un dire e un agire, questi di Gesù, che qualificano la sua messianicità-regalità in termini, direbbe Giovanni, di «verità»: «Allora pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Verità circa Dio, l’orientamento al vivere, la morte, il dopo morte, il destino ultimo del mondo e la relazione con l’istituzione politica e religiosa. Soprattutto quest’ultimo aspetto, la purificazione del tempio, provocherà tra i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani una forte reazione: «Con quale autorità fai queste cose?» (Mc11,28), accompagnata da una precisa decisione: «E cercavano di catturarlo» (Mc12,12). Capi accusati da Gesù di due misfatti: il sentirsi padroni di un popolo non loro ma di Dio, il voler usurpare un posto non loro ma dell’erede che è l’inviato di Dio (Mc 12,1-12). Le premesse della passione sono poste e riguardano ragioni interne a ogni autorità religiosa, non elusa quella ecclesiale: il passaggio dal servizio alla logica padronale (1 Pt 5,2-3) di chi dimentica che nella Chiesa uno solo è il Padre e uno solo il Maestro, e tutti fratelli ciascuno al proprio posto di servizio.
3. In questo scenario di entusiasmo ambiguo e di decisione di morte si staccano due donne, profezia di quello che sta avvenendo. L’una, vedova e povera, dà «tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc12,41-44), e diventa l’icona di Gesù che ha dato tutto se stesso. Il gettato fuori dalla vigna (Mc12,8) è colui che dona la sua vita in riscatto (Mc10,45) a chi lo ha respinge, ebreo e non ebreo, divenendo pietra angolare (Mc12,10) di una nuova umanità, quella che benedice chi ti maledice (Ef 1,3s; Gal 3,13). La seconda donna è quella dell’unzione di Betania (Mc14,1-11) che nella sua intuizione di amore, andando oltre i discorsi eticamente e politicamente corretti del giusto valore dei beni e della loro giusta destinazione ai poveri, inonda di profumo un corpo che è emanazione unica di un profumo unico, il lasciarsi ferire convertendo quella ferita in porta d’ingresso nel suo amore. Aperta a tutti. La chiave di lettura della passione è posta, due donne l’hanno indicata.

venerdì 30 marzo 2012

La parola della domenica 1 Aprile 2012 (Casati)BOSE



Is 50,4-7
Fil 2,6-11
Mc 14,1-15,47
Rompo il silenzio con questo breve commento, piccola e povera parola, perché la Parola grande è quella della Croce, è il Crocifisso, la Parola grande l'abbiamo già ascoltata.Per dirvi due emozioni.
E la prima è l'emozione davanti alla dismisura della condivisione.In questa morte di Gesù non c'è nulla di eroico: non muore come un martire, - Giovanni Battista per esempio -, ma come l'antimartire, il bestemmiatore, in un luogo sconsacrato, morto di croce, la croce riservata a chi non era degno né del cielo né della terra, morte da peccatore, giudicato tale dalle legittime autorità religiose del tempo.Ha condiviso fino ad andare all'inferno: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". L'assenza di Dio! È l'inferno l'assenza di Dio.Questo per noi. Perché avessimo la vita, perché nessuno mettesse le mani su di noi, sulla nostra libertà, sulla nostra dignità, sulla nostra vita. Per questo tu sei sceso fino all'inferno, Signore.La seconda emozione: c'è tutta un'umanità che ruota intorno al Crocifisso: le autorità religiose e il loro fariseismo: si uccide l'innocente ma quei soldi, i soldi del tradimento, dice il passo parallelo di Matteo, non vanno mescolati al tesoro del tempio; le autorità politiche interessate al potere; i soldati che infieriscono: tanto loro ubbidiscono agli ordini! E tutti quelli che passano sotto la croce, a insultarlo, a schernirlo.La nostra umanità, che ragiona con il criterio del potere, del successo, dei soldi, della superficialità, del cervello dato all'ammasso.E dentro questa umanità, spiraglio di luce, piccolo spiraglio di luce, le donne e il centurione pagano.Se avessero dato credito alle donne che compaiono nei racconti della Passione del Signore!La moglie di Pilato aveva fatto un sogno quella notte. E poi ci sono le donne sotto la Croce. Avessero ascoltato il sogno di quella donna o i sentimenti delle donne sotto la Croce!Ma chi ascolta i messaggi dei sogni, chi ascolta la verità dei sentimenti, chi ascolta le ragioni del cuore?E c'è il centurione pagano. Forse bisogna essere un po' tutti lontani come quel centurione pagano e non pieni delle nostre idee su Dio, delle nostre pretese su Dio. E chiamare Figlio di Dio colui che muore con un urlo sulla Croce, perché questa è la nostra buona notizia, l'evangelo: il fatto che Dio non è sceso dalla Croce, non ha salvato se stesso, ma ha dato la vita per noi."E dunque" aggiunge Giovanni nella lettera "anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli".Non c'è forse commento più emozionante a questo scritto della riflessione che illumina un brano di un'omelia di Mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano, in Algeria, l'omelia tenuta da lui quaranta giorni prima che fosse assassinato. E oggi pensando al gesto dell'Eucaristia che crea altri gesti, mi sono ritornate alla mente quelle parole, che forse sono il più bel commento al Corpus Domini; ecco queste parole con cui vorrei chiudere la mia riflessione."Dall'inizio del dramma algerino" -diceva il Vescovo di Orano- "mi hanno spesso chiesto: "Che ci fate laggiù? Perché restate?". Siamo là a causa di questo Messia crocifisso. A causa di nient'altro e di nessun altro. Non abbiamo interessi da salvaguardare, né influenze da conservare. Non siamo neanche spinti da chissà quale perversione masochista o suicida. Non abbiamo alcun potere: restiamo in Algeria come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, rinfrescandogli la fronte. A causa di Gesù, perché è lui che soffre, in questa violenza che non risparmia nessuno, nuovamente crocifisso nella carne di migliaia di innocenti. Come Maria, come Giovanni, stiamo là, ai piedi della croce su cui Gesù muore, abbandonato dai suoi, schernito dalla folla. Non è forse essenziale per un cristiano essere là, nei luoghi di sofferenza, di abbandono? Dove potrebbe mai essere la chiesa di Gesù Cristo se non fosse innanzitutto là? Per quanta possa sembrare paradossale, la forza, la vitalità, la speranza, la fecondità della chiesa proviene da lì. Non da altrove né altrimenti. Tutto il resto è solo fumo negli occhi, illusione mondana. La chiesa inganna se stessa e il mondo quando si pone come potenza in mezzo alle altre, come un'organizzazione, seppur umanitaria, o come un movimento evangelico spettacolare. Può brillare, ma non bruciare dell'amore di Dio, "forte come la morte" (Ct 8,6). Si tratta infatti proprio di amore, innanzitutto di amore e solo di amore. Una passione di cui Gesù ci ha donato il gusto e tracciato il cammino: "Non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13)".
Fonte:sullasoglia

giovedì 29 marzo 2012

PREGHIERA TEMPO DI PASSIONE


Verrò verso di te

Credo, sí io credo che un giorno,
il tuo giorno, o mio Dio,
avanzerò verso te coi miei passi titubanti,
con tutte le mie lacrime nel palmo della mano,
e questo cuore meraviglioso che tu ci hai donato,
questo cuore troppo grande per noi
perché è fatto per te...

Un giorno io verrò, e tu leggerai sul mio viso
tutto lo sconforto, tutte le lotte
tutti gli scacchi dei cammini della libertà.
E vedrai tutto il mio peccato.
Ma io so, mio Dio,
che non è grave il peccato,
quando si è alla tua presenza.
Poiché è davanti agli uomini che si è umiliati.
Ma davanti a te, è meraviglioso esser cosí poveri,
perché si è tanto amati!

Un giorno, il tuo giorno, mio Dio, io verrò verso di te.
E nella autentica esplosione della mia resurrezione,
saprò allora che la tenerezza, sei tu,
che la mia libertà sei ancora tu.
Verrò verso di te, mio Dio,
e tu mi donerai il tuo volto.
Verrò verso di te con il mio sogno piú folle:
portarti il mondo fra le braccia.
Verrò verso di te, e griderò a piena voce
tutta la verità della vita sulla terra.
Ti griderò il mio grido che viene dal profondo dei secoli:
«Padre! ho tentato di essere un uomo,
e sono tuo figlio».

JACQUES LECLERCQ



http://www.novena.it/

Una Via Crucis che diventa eterna...di Raymond Gravel ( da Bose )





in “www.lesreflexionsderaymondgravel.org” del 28 marzo 2012 (traduzione:
www.finesettimana.org)


Domenica della Palme e della Passione del Signore
È l'inizio della Settimana Santa, della Grande Settimana, in cui ricordiamo l'evento fondatore della
nostra fede cristiana: la Morte-Resurrezione di Cristo, e in cui ricordiamo quella via Crucis che
diventa eterna... Domenica delle Palme e della Passione del Signore: questa festa già sottolinea il
duplice evento, che non può essere separato, per esprimere la nostra fede cristiana: la morte-
resurrezione. Il paradosso di questa festa si esprime attraverso la contraddizione della folla che, a
volte, acclama Cristo come un re, con ramoscelli in mano, e, a volte, grida di crocifiggerlo come un
volgare bandito, mostrando i pugni.
Ma attenzione! Questi due eventi raccontati da Marco sono racconti teologici, non storici nel senso
materiale del termine, vogliono dirci qualche cosa della nostra realtà umana contemporanea. È alla
luce della Pasqua che sono stati composti ed è alla luce della Pasqua che dobbiamo interpretarli. Le
Palme e la Passione sono due feste distinte che sono state messe insieme a partire dal X secolo nella
Chiesa latina.
La festa delle Palme trae origine dalla festa ebraica delle Capanne o dei Tabernacoli, in cui gli ebrei,
nel mese di settembre, facevano grandi processioni con ramoscelli in mano, per celebrare la fine dei
raccolti e per ricordare il soggiorno degli israeliti nel deserto. L'evangelista Marco ha quindi
applicato a Gesù risorto questa processione coi ramoscelli, per sottolineare l'evento teologico della
sua morte-resurrezione. La festa delle Palme, i cristiani del III secolo la celebravano la domenica
precedente la Pasqua. La festa della Passione, con la sua Via Crucis, era celebrata a Roma a partire
dal IV secolo, cioè dalla conversione dell'imperatore Costantino. Questa festa segnava l'entrata della
Chiesa nella Settimana Santa. A partire dal X secolo le due tradizioni sono state ufficialmente
riunite nella Chiesa latina, e nel XVI secolo si ritrova la doppia festa nel messale romano. Papa Pio
XII, nel 1955, ne ha fissato i riti, che sono stati adottati nel 1970, con la riforma liturgica del
Concilio Vaticano II. Ecco la storia della nascita della festa di oggi... Ma, nel 2012, che cosa ci può
trasmettere questa doppia festa?

1. Siccome la morte e la resurrezione di Gesù sono inseparabili in quanto evento fondante della fede
cristiana, occorre veramente entrare in questa contraddizione, in questo paradosso della fede, in cui
la vita e la morte si incrociano continuamente; fanno sempre parte della nostra realtà umana: si
nasce e si muore. La natura lo testimonia incessantemente. La vita e la morte sono le due facce della
stessa realtà: la vita apre la porta della morte e la morte chiama la vita.

2. Un altro paradosso della festa di oggi merita di essere sottolineato: è la stessa folla che a volte
acclama (Mc 11,9-10), e subito dopo, condanna (Mc 15,13.14). Ancora una volta questo fa parte
della nostra realtà umana. La folla è sempre versatile. Basta un abile agitatore per manipolarla in
qualsiasi direzione, verso il meglio o verso il peggio. Gli umani che compongono la folla sono
facilmente influenzati da elementi o situazioni che li portano talvolta a rinnegare se stessi: in certe
istituzioni, in certe società o imprese, si assiste spesso a situazioni di flagrante ingiustizia: quante
persone accetteranno di esporsi per denunciarle? La paura si insedia rapidamente: la paura di
perdere il lavoro, la paura di essere rifiutati, la paura di essere isolati, la paura di non poter accedere
ad un incarico superiore, la paura di doversi battere in nome della giustizia, la paura di aver paura...
È triste! Ma la maggioranza delle persone è così. L'ho sperimentato personalmente più di una volta.
Ma è questa maggioranza che compone le folle, cioè le donne e gli uomini a cui si può far fare
qualsiasi cosa...

3. Rileggendo la Passione di Marco, in cui l'evangelista ci presenta, contemporaneamente, un Gesù
molto umano ed un uomo sicuro di sé, credo che sarebbe bene situarci nei confronti dei molti
personaggi che abitano il racconto: grandi sacerdoti, scribi ed anziani, una donna di Betania nella
casa di Simone il lebbroso, Giuda Iscariota il traditore, i due discepoli e l'uomo con la brocca
d'acqua, i Dodici con Pietro loro portavoce, i due fratelli Giacomo e Giovanni, una truppa armata di
spade e bastoni, dei servi del grande sacerdote, di cui uno perde un orecchio, Caifa e i falsi
testimoni, delle serve, Pilato, la folla, Barabba, i soldati, Simone di Cirene, padre di Alessandro e di
Rufo, dei passanti, degli anonimi nel momento della crocifissione, delle donne che guardano, tra cui
Maria di Magdala, Maria madre di José, il centurione romano, Giuseppe d'Arimatea e quel giovane
vestito con un lenzuolo che fugge tutto nudo... Ce n'è di gente e tutte queste persone ci dicono
qualcosa di ciò che noi siamo.


A) È evidente che Gesù è il protagonista principale della Passione. Tuttavia smettiamola col
pensiero magico, dicendo che ha sofferto più di tutti. Nella storia del mondo ci sono migliaia di
vittime, donne, uomini e bambini che sono stati torturati e uccisi ingiustamente. Del resto, ciò che ci
insegna la storia teologica di Gesù è che la sua passione, le sue sofferenze e la sua morte ci fanno
prendere coscienza che, attraverso Gesù, Dio ha voluto essere solidale con noi, con le nostre
passioni, con le nostre sofferenze e le nostre morti. Gesù, soffrendo la sua passione, rappresenta
tutte quelle e tutti quelli che, nella nostra umanità, sono crocifissi in un modo o in un altro, dal
male, dalla prova, dalla malattia, dalla debolezza, dalla brutalità, dalla solitudine, dall'ingiustizia.
Tutti coloro che sono vittime di tradimento, di abbandono, di calunnia o di condanna ingiusta, di
tortura fisica o morale..., tutti loro possono riconoscersi in Gesù Cristo: “Con Cristo, dice San
Paolo, sono crocifisso” (Ga 2,19). Il che significa che Cristo è vicino a noi sulle nostre vie crucis.
Le nostre lotte sono ad immagine della sua lotta contro il male e l'ingiustizia. Ed è per questo che
dobbiamo andare fino in fondo, senza compromessi, se vogliamo assomigliare a lui. Ci occorre tutta
una vita per arrivarci; è meglio cominciare da adesso. Intanto, possiamo anche situarci rispetto agli
altri protagonisti del dramma presentati da Marco e che ho enumerato prima...


B) Questi altri protagonisti del dramma, ci è difficile guardarli da lontano, come se non avessimo
nulla in comune con loro: uno degli ultimi pasti di Gesù avviene a casa di Simone il lebbroso,
quindi di un escluso... e nel corso del pasto, una donna, senza nome, viene a profumare la testa di
colui che sarà incoronato di spine (Mc 14,3). Questa donna è criticata severamente per una
questione di soldi (Mc 14,4-5). Ma Gesù dice: “Dovunque sarà proclamato il vangelo, per il
mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto” (Mc 14,9). Tutti gli esclusi di oggi,
della società e della nostra Chiesa, possono riconoscersi in Simone il lebbroso o in questa donna
senza nome che hanno un posto di riguardo nel cuore del Cristo di Pasqua. Sono i “preferiti” di Dio.
Soprattutto questo non bisogna dimenticare... Ed ora gli altri: Giuda ci ricorda i nostri tradimenti in
amicizia, in amore, alla parola data. Pietro ci rimanda ai nostri rinnegamenti e ai nostri abbandoni,
mentre ci credevamo migliori degli altri. I discepoli addormentati, poi in fuga, non sono forse il
riflesso delle nostre tiepidezze e delle nostre mancanze di coraggio, quando si tratta di esporsi, di
testimoniare? Pilato non evoca forse le nostre vigliaccherie davanti a Dio e davanti agli uomini
quando i nostri interessi personali passano davanti alla giustizia e alla verità?
Al contrario, altri protagonisti della passione hanno dato prova di coraggio e di fede: Simone di
Cirene, che ha portato la croce accanto al Signore; incarna la nostra vicinanza fraterna a coloro che
soffrono o che sono esclusi. Quel giovane vestito di un lenzuolo, è senza dubbio Marco stesso che,
come Alfred Hitchcok, entra nel racconto per dargli maggiore credibilità; è lo stesso giovane che si
ritrova una mattina di Pasqua, seduta sulla tomba, questa volta vestito di una veste bianca, il vestito
della Resurrezione. Questo giovane, è Gesù stesso, spogliato per esprimere la morte, ma è anche il
Cristo vestito di bianco per esprimere la Resurrezione. Questo giovane rappresenta anche tutti i
cristiani che accettano di essere spogliati della propria vita, per rivestirsi del Cristo risorto. Col
centurione romano che rende omaggio al Crocifisso, ci identifichiamo quando testimoniamo la
nostra speranza cristiana. Potremmo continuare con tutti i personaggi del racconto... In quali ci
riconosciamo?
La passione di Cristo prosegue ancora oggi, sotto i nostri occhi, così come la sua Resurrezione...
Quale ruolo vi svolgiamo? Possiamo avere l'impressione che le nostre vie crucis siano eterne... È
vero! Ma non dimentichiamo che sboccano necessariamente sul sole del mattino di Pasqua; se no, le
nostre croci sono inutili e i nostri cammini non ci portano da nessuna parte...
Buona Settimana Santa!

Riflessioni sulle letture 1 aprile 2012 (Manicardi) BOSE



ProcessioneMc 11,1-10


Il vangelo presenta il cammino di avvicinamento di Gesù a Gerusalemme, movimento che introduce Gesù negli eventi dell’ultima settimana della sua vita e dunque nella sua passione e morte. Gesù appare abitato da grande autorità: egli sa il senso del cammino che sta compiendo, sa dove lo sta portando, e lo accoglie con libertà e risolutezza (cf. Mc 10,32-34).
La sua autorevolezza, il suo prevedere gli eventi, la sua determinazione, nascono dalla sua conoscenza della volontà di Dio e dalla sua obbedienza alla parola della Scrittura. La sua è l’autorevolezza dell’obbediente. La volontà di Dio diviene volontà di Gesù.
Il gesto profetico che Gesù decide di compiere inviando due discepoli a cercare, sciogliere e condurgli un asino che gli servirà di cavalcatura, non è equiparabile alle requisizioni che i re potevano permettersi di fare (cf. 1Sam 8,16). Gesù si premura di dire ai due discepoli che non tratterrà per sé l’asino, ma lo restituirà subito (cf. Mc 11,3). Il testo sottolinea la povertà di Gesù, il suo essere un paradossale signore: signore che ha bisogno di un asino, se lo fa portare, ma promette di restituirlo subito. Gesù dispone gli eventi perché alla luce delle Scritture emerga la qualità messianica del cammino verso Gerusalemme: l’asino è la cavalcatura del Messia povero e mite di Zc 9,9; è l’asino “legato” di cui aveva parlato Giacobbe morente a suo figlio Giuda benedicendolo nella profezia messianica di Gen 49,10-11; il corteo che accompagnerà questo ingresso mostra tratti regali, come appare dai mantelli stesi sulla strada e dalle parole di ovazione (cf. 2Re 9,13). E tuttavia la concezione messianica che Gesù vive è molto distante da quella che viene intesa dalla folla, come appare dalle parole del salmo 118 utilizzate dai presenti per acclamare re Gesù (cf. Sal 118,25-26 in Mc 11,9-10) e da quelle, tratte dallo stesso salmo, che Gesù userà per rivelare il rigetto del Figlio da parte dei vignaioli, cioè il rigetto dell’inviato di Dio da parte dei capi d’Israele, insomma, per annunciare l’evento pasquale:


La pietra che i costruttori hanno scartataè diventata testata d’angolo;dal Signore è stato fatto questoed è mirabile agli occhi nostri (Sal 118,22-23 in Mc 12,10-11).


La messianicità di Gesù si manifesterà negli eventi tragici e gloriosi della morte e della resurrezione. L’ingresso in Gerusalemme è un atto che mette in luce la difficile interpretazione della figura di Gesù. L’acclamazione: “Benedetto il regno del nostro padre David” proietta su Gesù la messianicità dinastica dei discendenti di David e connette a lui le attese politico-nazionalistiche connesse a tale immagine messianica tradizionale. Viene tolta a Gesù la sua novità disarmante e dirompente e gli viene attribuita la dimensione già nota del “regno del nostro padre David”. I presenti fanno rientrare Gesù nella loro attesa, nei loro desiderata, e così ne ammortizzano lo scandalo; quasi che bastasse dire: “Abbiamo David per padre” per essere beneficiari della salvezza! Gesù annuncia e vive “il Regno di Dio”, non “di David”, e tale regalità apparirà nell’evento pasquale.
Anche l’invocazione “Osanna”, che letteralmente significa “Signore, salva!”, diviene formula stereotipa che non invoca ma celebra, non supplica ma manifesta una certezza, non chiede ma presume. Mentre invochiamo salvezza già presumiamo salvezza. Mentre dichiariamo di attendere il Signore, ne addomestichiamo la figura perché ci confermi nelle nostre attese. E così il testo vaglia il possibile traviamento delle nostre ermeneutiche esistenziali, ecclesiali e storiche di Gesù e del suo cammino. Il cammino di Gesù non è solo sottoposto al rischio dell’incomprensione, ma anche della cattiva comprensione, dell’interpretazione interessata, che non scomoda, non mette in crisi, ma conferma.
“Un uomo impara in base alle vie che percorre”, dice un testo della tradizione ebraica. La chiesa, all’inizio della settimana santa è più che mai chiamata a interrogarsi sui sentieri che percorre e a imparare dal cammino di Gesù per giungere a camminare tra gli uomini come lui ha camminato.
Celebrazione eucaristicaAnno B
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47


La figura del Servo del Signore, che nell’obbedienza alla parola di Dio e nella fiducia in lui trova la forza per sopportare violenze e sofferenze (I lettura), introduce alla contemplazione di Gesù nella sua passione e morte (vangelo), evento culminante del movimento di abbassamento e obbedienza del Figlio di Dio (II lettura): “Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).
Il racconto marciano della passione sottolinea quell’aspetto di paradosso e di ossimoro caro al secondo vangelo. La potenza di Dio si manifesta nella debolezza umana di Gesù; la morte infamante e orrenda di Gesù lo proclama Figlio di Dio (cf. Mc 15,39); quell’uomo vilipeso, quel corpo percosso, quel volto negato (cf. Mc 14,65) è diretta rivelazione del volto di Dio. Gesù appare profeta ridotto al mutismo (cf. Mc 14,65), veggente a cui è velata la faccia (cf. Mc 14,65), re deriso (cf. Mc 15,12-13), Messia impotente (cf. Mc 15,32), Salvatore perduto (cf. Mc 15,29-32). Le immagini religiose e sacrali con cui l’uomo ammanta il divino devono passare attraverso l’impietoso vaglio della passione e della morte di Gesù perché si possa incontrare il vero volto di Dio.
La passione ci introduce nell’ultima fase della vita di Gesù. Fase scandalosa che mette alla prova lo sguardo di fede dell’uomo e costituisce un angolo prospettico che sembra smentire tutto ciò che Gesù ha fatto ed è stato. Colui che ha attirato folle e creato una comunità itinerante di discepoli viene rigettato dalle folle e abbandonato dai discepoli. Colui che ha curato e guarito molti malati, ora si trova nell’impotenza di salvare chicchessia. Colui che ha annunciato il vangelo del Regno con potenza di parola, ora entra progressivamente nel silenzio. Colui che ha vissuto una vita di fedeltà al Dio unico, si vede condannato dalle legittime autorità religiose del popolo di Dio. Colui che ha sempre nutrito una relazione personalissima di confidenza con il Dio che chiamava “Abbà”, ora gli si rivolge con una domanda che grida l’enigma del sentirsi abbandonato da Lui. In questi eventi vi è qualcosa che sembra dichiarare falso tutta la vita precedente di Gesù, la sua fede, il suo amore, la sua speranza. E così un’intera vita spesa nella donazione di sé per gli uomini e nella fedeltà obbediente al Padre, nell’amare e nel benedire, si trova sepolta sotto il peso dell’infamia che Gesù vive e subisce nei suoi ultimi momenti. E anche il discepolo può terminare la sua vita sotto il peso infamante di una calunnia o di una caduta che ottenebrano la luce che ha sparso in tutta la sua vita: ma un uomo è sempre tutta la sua vita, non un solo momento, fosse pure quello estremo. La passione di Gesù purifica lo sguardo del credente liberandolo dalla tentazione di giudicare, dare sentenze, condannare.
Nella passione emerge poi la signoria di Gesù. Egli affronta gli eventi con la grande libertà che gli deriva dall’obbedienza alle Scritture (cf. Mc 14,18.27.62) e con la forza che gli viene dalla preghiera (cf. Mc 14,32-42): preghiera inesaudita ma che gli fa accettare il cammino tragico che lo attende come occasione di fede, speranza e amore nel suo Dio (“Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”: Mc 14,36). Questo libero abbandono al volere del Padre è la forza profonda di Gesù. Forza che manca ai discepoli che non vegliano né pregano e sono perciò sorpresi dagli eventi e abbandonano la sequela (cf. Mc 14,50). La fine di Gesù è anche il momento del fallimento della sua comunità, dello scacco del gruppo di coloro che egli aveva scelto perché stessero con lui. Eppure, proprio allora sorgono altri discepoli, là dove nessuno se li sarebbe aspettati. La donna di Betania che profuma il corpo di Gesù “in vista della sepoltura” (cf. Mc 14,3-9), Simone di Cirene che porta la croce dietro a Gesù (Mc 15,21), il centurione che confessa “Figlio di Dio” il crocifisso (Mc 15,39), Giuseppe di Arimatea, che aspettava il Regno di Dio e riceve il corpo di Gesù (cf. Mc 15,43-46). Il chicco di grano caduto a terra trova inattesi e impensabili terreni buoni che lo accolgono e portano frutto.
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B
© 2010 Vita e Pensiero

Fonte: monasterodibose

martedì 27 marzo 2012

SERVO DI CRISTO GESÙ Rm 1,1 .riflessione di Erwuin Kräutler C.PP.S vescovo di Xingu Brasile





“Paolo, servo di Cristo Gesù,
apostolo per vocazione,
prescelto per annunziare il vangelo di Dio,”




L’Apostolo inizia la sua Lettera ai Romani rivelando la sua identità, convinto che il Signore
“l’ha chiamato con la sua grazia” (Gal 1,15).
Divideremo la nostra riflessione in tre parti prendendo lo spunto dalla presentazione che l’apostolo
Paolo fa di sé alla comunità di Roma:


1. Paolo servo di Cristo Gesù
2. Chiamato ad essere apostolo
3. Prescelto per annunziare il vangelo di Dio


Servo di Cristo Gesù


Paolo non si presenta ai Romani come Dottore della Legge, come Maestro in teologia biblica o
come Scriba che “penetra le sottigliezze delle parabole” (Sir 39,2), né come profeta che parla “da parte
di Dio” (2 Pt 1,21). Paolo rinuncia a titoli accademici. Il titolo con il quale si presenta non è abituale
a un messaggero di buone notizie. Egli si presenta semplicemente come “servo”.
Lui e Timoteo si presentano, ai Filippesi, allo stesso modo (Fil 1,1) e Paolo vuole informare la
comunità, che quello che dice e scrive non è il suo pensiero, ma tutto lo dice nel nome di Cristo
Gesù, colui che egli serve1.
In greco la parola servo ha primariamente il significato di “schiavo”. Schiavo è colui che
dipende totalmente e esclusivamente dal suo Signore, sottomesso a lui in tutto, obbediente senza
mai contestare, fedele esecutore dei comandi ricevuti, senza chiederne motivo o domandarsi il
perché.
Dopo l’esperienza di Damasco, per Paolo, Cristo è il Signore assoluto, è Lui che orienta, indica,
stimola, appassiona e avvince. Egli diventa totalmente dipendente dal suo Signore: “tutto ormai io
reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho
lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere
trovato in lui” (Fil 3,8-9). Paolo è uno strumento nelle mani del Signore, è una sua proprietà. Senza
riserve e senza condizioni si è messo totalmente al servizio del Signore e giustifica così il suo
operato: “Se io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo” (Gal 1,10).
Quello che conta è “piacere” al suo Signore e compiere la sua missione fino alla fine. Questo ha
come conseguenza l’accettare ogni tipo di sofferenza per causa del Signore (cf. At 9,16).
Paolo arriva al punto di esclamare: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo
nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa
sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola”
(Col 1, 24-25).
 Epafra, della comunità di Colossi (Col 1,7), viene così chiamato da Paolo: “nostro caro compagno nel ministero e
fedele servo di Cristo”, inoltre viene elogiato in questo modo: “il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere”
(Col 4,12).
Tito, a sua volta si dichiara “servo di Dio” e Giacomo dice di essere “servo di Dio e del Signore Gesù”.
La lettera di Giuda comincia così: “Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo” (Giuda 1,1).
Nella prima lettera di Pietro troviamo scritto: “agli eletti che vivono come stranieri dispersi nel mondo” (1Pt 1,1);
“comportatevi come servitori di Dio” (1Pt 2,16).
L’Apocalisse inizia così: “Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi” (Ap 1,1).
La sofferenza avvicina Paolo, in modo molto intenso, al Signore al punto che afferma ai Galati:
“Sono stato crocifisso con Cristo” (Gal2,20) e ai Corinti: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a
voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1 Cor 2,2).
Il servo appartiene al suo Signore.
Ai Romani, Paolo, scrive che questa appartenenza non si rompe neppure con la morte, essa
oltrepassa tutte le dimensioni possibili e immaginabili: “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e
nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il
Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14, 7-8).
Paolo è un esperto nella Legge e nei Profeti, “formato alla scuola di Gamaliele” ( At. 22,3). Per lui
la parola “servo” “schiavo” ha un grande significato biblico.
Egli parla correttamente il greco (At 21,37) ma la sua lingua materna è l’ebraico (At 22,2). Quando
usa la parola greca “schiavo”, egli pensa a “ebed” che lo riconduce a “ebed di YHWH” come è
scritto nella Legge e nei Profeti.
In realtà tutti gli israeliti ortodossi si rifacevano a questa denominazione, che da un lato significava
umile sottomissione al Signore Adonaj e dall’altro però era un titolo onorifico.
I patriarchi venivano chiamati così.
La parola “ebed” evoca tutta la teologia del “Servo Sofferente” che troviamo nei commoventi
“canti del servo” (Is 42,1-9; Is 49,1-6; Is 50,4-11; Is 52,13-53,12).
Sono due le caratteristiche del “servo”:
sottomissione illimitata: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come
agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”
(Is 53,7) e nello stesso tempo
un’assoluta, profonda, decisiva e continua fiducia in Dio: “Il Signore Dio mi assiste, per
questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare
deluso. È vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi
accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste” (Is 50,7-9).
La sofferenza accompagnerà sempre la “missione” del servo.
Il Servo è servo per vocazione.
Non rinuncia alla sua missione nemmeno quando è scoraggiato a causa delle avversità.
Per questo, nella Chiesa, la persecuzione e la morte dei servi e serve di Cristo Gesù, continuano fino
ai nostri giorni, per seguire l’esempio del Signore, “servo sofferente” per eccellenza.
Il sangue sparso di Stefano, che “contempla i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di
Dio” ( At 7,56) è senza dubbio la semente per la conversione di Paolo (At 7,57-60).
Si rimane molto impressionati nel constatare, come il giovane Stefano preferisca morire lapidato
piuttosto che negare la sua fede in Cristo Gesù…Le sue ultime parole da martire “Signore Gesù,
accogli il mio spirito” non permettono a Paolo la tranquillità del cuore e dello spirito.
L’esperienza di Damasco è la conseguenza e la conclusione della conversione che si è compiuta nel
cuore e nella mente di Saulo a partire dal martirio di Stefano, da quel momento diventa Paolo.
Non si allontanerà né mai più cambierà il suo “Cammino2”, e abbraccerà ogni tipo di sofferenza a
causa del nome del Signore Gesù (cf At 9,16; 2 Cor 11, 23-28), poiché annunciare il vangelo sarà la
passione della sua vita.
Gli basterà la grazia divina (cf 2 Cor 12,9).
Le sofferenze, le tribolazioni del “servo di Cristo Gesù” sono previste, programmate, inevitabili,
fanno parte della missione.
Anania, il discepolo di Damasco, riceve dal Signore il comando d’incontrare, sulla via Diritta, colui
che “un tempo nel giudaismo, perseguitava fieramente la Chiesa di Dio e la devastava, superando nel
giudaismo la maggior parte dei suoi coetanei e connazionali, accanito com'era nel sostenere le tradizioni
dei padri” (cf Gal 1,13-14), di battezzarlo e gli rivela che “egli è per me uno strumento eletto per portare
il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio
nome” (At 9,11-16).
La sofferenza non è qualcosa di accidentale, fortuito, occasionale, la sofferenza è parte intrinseca,
essenziale della missione.
2 Nel modo più assoluto il termine “cammino” è peculiare agli Atti degli Apostoli, ed è l’esperienza delle Comunità.
Per esempio: “mentre era in viaggio” (At 9,3); “lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di
Dio” (At 18,26).
 I Padri della Chiesa non esclusero mai questa dimensione del “servo”, al contrario, essi si
riempivano di giubilo in previsione di essere scelti per seguire l’esempio di Cristo Signore, fino
all’estrema conseguenza.
Sant’Ignazio di Antiochia insiste: “Sono frumento di Dio” e chiede ai suoi fratelli e alla sue sorelle
nella fede: “Concedetemi di essere imitatore della passione del mio Dio. Chi conosce il mio cuore,
capirà che cosa desidero…” 3.
Paolo spiega che il desiderio di essere “servo” gli è entrato fino nel midollo, fino alla radice
della persona, fin nel profondo dell’anima.
Il servizio dei “servi di Cristo” arriva all’estremo: “desiderare con tutto il cuore di fare la volontà di
Dio”(cf. Ef 6,6).
Essere “servo di Cristo Gesù” per Paolo significa avere un profondo amore e una fedeltà
irrevocabile. “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita
nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
“Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi,
tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per
il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”
(Fil 3,7-8).
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso dichiara: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello
che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a
voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro
frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Gv 15,15-16).
Il servo diventa amico per grazia di Dio, perché è il Signore stesso che lo assicura.
D’ora innanzi “né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né
profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”
(Rm 8,38-39).


Chiamato ad essere apostolo.


San Gerolamo traduce: “vocatus apostolus”.
Paolo è apostolo per vocazione, riceve una chiamata specifica.
La vocazione non si può confondere con la scelta di una professione.
Quando diciamo che ci sono medici che esercitano la professione “per vocazione”, intendiamo dire
che non c’è solo una competenza professionale, ma una passione. Quando si afferma che qualcuno è
“nato” per essere medico, insegnante, ingegnere, infermiere, si vuol sottolineare che c’è
un’inclinazione naturale, un carisma speciale per quella determinata professione, quel determinato
servizio.
La vocazione “religiosa” non è come una professione, è qualcosa di essenzialmente differente.
La vocazione religiosa non ha le sue radici nelle doti naturali di una persona, né nasce solo in
determinate categorie di persone o di classi sociali, non esistono elementi esclusivi che
predispongono una persona ad essere chiamata e ad optare per questo stato di vita.
In altre parole non ci sono parametri psicologici, antropologici o sociologici che possano spiegare
perché una persona intraprende questo cammino.
Non c’è nessuna possibile spiegazione!
Vocazione presuppone qualcuno che chiama e qualcuno che ascolta e risponde alla chiamata.
Sono tre gli elementi che caratterizzano le vocazioni nel Nuovo Testamento.
La chiamata dei primo discepoli nel Vangelo di Marco ci può essere di esempio (Mc 1, 16-20).
C’è un incontro, una chiamata, e una reazione alla chiamata.
Gesù cammina sulla riva del mare della Galilea, vede Simone e suo fratello Andrea e, inseguito i
figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni.
L’incontro avviene in un contesto normale del vivere quotidiano, nel mezzo di un lavoro disagevole
e faticoso come quello della pesca. Senza nessun motivo o spiegazione, senza nessuna conoscenza o
presentazione previa, Gesù si avvicina a loro e li chiama, ma contemporaneamente, mentre li
chiama, dà un ordine e fa una promessa: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”.
3 Sant’Ignazio di Antiochia: Lettera ai Romani, cap. 4
Pietro e Andrea continuano ad essere pescatori, ma la loro professione è sublimata ad un altro
livello, ad un’altra dimensione. D’ora in avanti saranno “pescatori di uomini”.
La loro professione si trasforma in una vocazione che oltrepassa la dimensione puramente umana.
Il mare dove pescano si trasforma “nel mare della vita”, nell’impegno e nel coinvolgimento con la
realtà che li circonda.
Sono chiamati a seguire Gesù e a credere nella Buona Notizia, per dar testimonianza e contagiare il
mondo con la Buona Notizia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,14).
La sorprendente reazione dei discepoli è la stessa: “lasciarono” e “seguirono”.
Senza nessuna discussione preliminare, nessuna richiesta sulle prospettive future, sulle effetti
riguardanti la vita famigliare di ciascuno (pensiamo al vecchio Zebedeo che in un attimo perse i
figli…), delle imprevedibili conseguenze sulla salute, sulla sicurezza della vita futura, nessun
analisi riguardo le conseguenze che questa decisione repentina avrebbe provocato sulla loro vita
futura. Anzi, un dettaglio molto significativo ci fa capire l’atteggiamento profondo dei discepoli:
non solo “lasciarono”, ma lasciarono “immediatamente”.
Queste le conseguenze provocate dall’incontro con Gesù di Nazareth ai margini del Mare della
Galilea!
Che trasformazione nella vita di questi quattro pescatori!
Lasciano la famiglia, i compagni di lavoro, le reti da pesca, ma lasciano anche la “rete (il tessuto)
“sociale”, lasciano tutto quello che dà loro sicurezza, stabilità, futuro. Lasciano un presente certo
per un futuro incerto e misterioso, una vita sicura, avviata, per una vita insicura, senza previsioni e
certezze.
Dove e quando terminerà questo cammino? Nessuno può prevedere.
Tutto è appena iniziato, ma già sanno, nel profondo del loro cuore, che non sarà possibile tornare
indietro.
Il cammino sarà segnato dalla gioia del successo della missione, “tornarono pieni di gioia dicendo:
Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (lc 10,17), ma anche dalle incomprensioni e
da profonde crisi di scoraggiamento e paura, Gesù stesso li rimproverava: “Perché siete così paurosi?
Non avete ancora fede?” (Mc 4,40).
Nella vocazione di Saulo, anche se in circostante totalmente differenti, ci sono gli stessi
elementi: l’incontro, la chiamata e la risposta alla chiamata.
Negli Atti degli Apostoli (At 9,1-22; 22, 4-16; 26,9-18) troviamo tre racconti della chiamata e un
cenno breve, ma molto significativo, nella Lettera ai Galati (Gal 1,11-17).
Saulo stesso confessa che “perseguitava e devastava la Chiesa di Cristo” (Gal 1,13) e che “era sempre
fremente e minacciava di morte i discepoli del Signore” (At 9,1).
Ma i piani di Dio sono altri.
In questo contesto di odio violento e totale contro i seguaci della dottrina di Cristo (At 9,2), Gesù
entra nella vita di Saulo e lo “travolge”, lo costringe a “cadere a terra”.
L’incontro di Gesù con Saulo non ha niente di delicato e piacevole.
È un incontro estremamente violento!
Non assomiglia all’incontro sulla riva del mare di Galilea, quando Gesù dice ai discepoli
“seguitemi!”.
Alle porte di Damasco, Egli gli appare come una luce “che lo avvolge dal cielo, luce più brillante del
sole” e lo chiama due volte con il suo nome “Saulo, Saulo”. Subito lo immobilizza con una domanda
esplicita “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo” (At 29-6,14).
Non serve colpire con un pugno la punto di un coltello affilato!
Paolo più tardi dirà con immensa gratitudine: “mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1,15).
“Chi sei Signore?” osa chiedere.
La risposta è una chiamata, che divide la vita del giovane Saulo in due parti, una prima e una dopo:
“Chi sei, o Signore?” E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi;
ti sono apparso infatti per costituirti servo e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti
apparirò ancora” (At 26,15-16).
Come la chiamata di Gesù a Pietro e Andrea, a Giacomo e Giovanni è stata imperativa e
incisiva, così con Saulo, non c’è stato nessun “sondaggio preliminare”, nessuna “consulta”, nessuna
“ricerca sul campo” per sapere se la proposta verrà accettata. No! Non c’è nessun romanticismo,
nessuna indulgenza né tolleranza. È un ordine, un comando, un mandato!
 Non c’è possibilità di scelta, non si può accettare per piacere o desiderio.
C’è “Uno” che chiama, afferra con insistenza chi è chiamato e lo conquista.
Più tardi nella Lettera ai Filippesi Paolo, racconterà così del suo travolgente incontro con il Signore
alle porte di Damasco: “sono stato conquistato da Gesù Cristo4” (Fil 3,12).
Gesù ha fatto così con Saulo, l’ha afferrato, l’ha preso, dominato, conquistato.
Non è stata un’idea, una visione causata da circostanze fortuite, un nuovo modo di interpretare la
storia, una tesi filosofica o un trattato teologico che gli fecero abbandonare il vecchio cammino e
andare addirittura nella direzione opposta.
“Qualcuno” è entrato nella sua vita e ha causato un vero terremoto alla sua esistenza.
È stata una persona che l’ha chiamato, la luce che quel giorno ha avvolto Paolo, mentre si trovava
vicino alle mura della città di Damasco, è stata il segnale indelebile della presenza di Cristo Risorto.
Da quel momento diventerà il testimone del Signore “come se vedesse l'invisibile” (Eb 11,27).
Mai più dimenticherà il momento di Damasco, come Giovanni non dimenticò l’ora del primo
incontro con il maestro, quella indimenticabile “decima ora” (Gv 1,39).
Si arriva a un punto in cui non c’è più ritorno!
S. Agostino riesce a descrivere tutta la carica emotiva e la profondità dell’esperienza della
vocazione nel decimo libro della sue Confessioni: “Tardi ti ho amato” (Libro 10,27).
La chiave per comprendere come la chiamata del Signore ha trasformato la vita di Paolo la
troviamo nella Prima Lettera ai Corinti quando esclama: “Non è infatti per me un vanto predicare il
vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16).
Paolo, parlando della sua missione di apostolo totalmente gratuita e per descrivere la ragione del
suo impegno e della sua missione, utilizza una parola greca che ricorda i personaggi delle tragedie
greche5.
Perché Paolo usa questo termine per definire la sua condizione di annunciatore del vangelo?
Perché prende a prestito dalla mitologia greca la parola “destino” che suscita paura, terrore e indica
una sorte a cui nessuno può scappare?
Paolo non trova altri termini adeguati per descrivere la sua esperienza, un’esperienza di
conversione, di totale capovolgimento della sua vita.
È chiaro che la parola “destino”, per lui, non ha il significato di paura, terrore e non è mai un
destino poco chiaro, impersonale, sinistro o fatale.
“Destino”, per Paolo, è un coinvolgimento totale, illimitato, senza riserve alla chiamata del Signore.
Niente oramai potrà mai separarlo dal suo Signore: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo?
Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35).
Chi almeno una volta ha bevuto a questa fonte, chi ha partecipato a questo banchetto, chi almeno
una volta si è immerso in questo amore, non sarà più lo stesso!
“Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto
ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il
quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”
(Fil 3,7-8).
Questa è la mistica della vocazione di Paolo!
Non esiste altra mistica se non questa, che è capace di motivare e sostenere la vocazione dei
discepoli e delle discepole, dei missionari e delle missionarie: “per Lui perdo tutto” (Fil 3,8).
Questa è la vera e unica base della vocazione: “per Lui!”, questa è la mistica e la motivazione
esistenziale!
Non è più possibile liberarsene!
Non si può più vivere senza annunciare il vangelo, senza essere un testimone di fede, di speranza e
di carità.
È impossibile non gridare nel mondo, sulle piazze, sulle strade, nelle famiglie e nelle chiese, di
giorno e di notte, che “Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,11).
 In greco non ha solo il significato di “essere conquistato” ha un significato ancora più forte “Essere afferrato”:
“qualcuno che si avvicina a te e ti afferra la nuca con la mano”.
5 Questa parola ricorda un personaggio delle tragedie greche (es. Antigone di Sofocle) ed esprime una forza cieca, una
fatalità inesorabile, un potere inesplicabile del destino, alla quale non è possibile ribellarsi o disobbedire, una forza
oscura e misteriosa che determina la sorte dell’essere umano.
Questa è la reazione di Paolo alla chiamata di Gesù: “subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di
Dio” (At 9,20). “Immediatamente” senza esitazione o timore, senza mezze parole, senza timidezza o
fiacchezza! Con “parrhesia”!6
I tempi cambiano! La Chiesa al tempo di Paolo era diffusa nelle regioni intorno al Mediterraneo,
ora ha oltrepassato tutte le frontiere ed è presente in molte culture.
L’impeto missionario di Paolo e la passione che caratterizza l’apostolo della genti, anima anche
oggi i discepoli e le discepole, i missionari e le missionarie del Signore. “è l'amore del Cristo che ci
spinge” (2 Cor 5,14). Non fa nessuna differenza tra quello che scrive Paolo a Timoteo: “so infatti a chi
ho creduto” (2 Tm 1,12) e la parola che suor Doroty7 nella sua ultima intervista rilasciata una
settimana prima del suo assassinio disse: “io credo molto in Dio e so che Egli sta con me”.
Ecco lo stesso ardore, la stessa passione per Cristo e il suo Regno, che attraversa i secoli!


Prescelto per annunziare il Vangelo di Dio


Paolo scrive ai Galati: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la
sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza
consultare nessun…” (Gal 1,15-16).
Paolo usa lo stesso linguaggio delle vocazioni profetiche dell’Antico Testamento.
Essere apostolo non dipende da un’iniziativa particolare personale, ma è opera, grazia di Dio.
È Dio che prende l’iniziativa.
È Lui che chiama e invia: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha
pronunziato il mio nome” (Is 49,1b).
Nel sesto capitolo del profeta Isaia leggiamo come Dio prepara il suo profeta.
Manda un Serafino per togliere un tizzone ardente dal fuoco dell’altare per purificare le labbra di
Isaia perché possa diventare la “bocca” del Signore: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è
scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato” spiega il serafino. Solo dopo si ode la voce di Dio:
“Chi manderò e chi andrà per noi?” Isaia risponde: “Eccomi, manda me!” (cf Is 6,6-8).
Ezechiele è obbligato a mangiare il rotolo che contiene la parola del Signore (Ez 3,1-3).
Prima cosa è necessario assimilare la Parola, farla penetrare.
Essa per un metabolismo misterioso si trasformerà in “protoplasma” diventerà vita in Ezechiele.
Egli deve solo ascoltare la voce di Dio: “Figlio dell'uomo, và, recati dagli Israeliti e riferisci loro le mie
parole” (Ez 3,4). “con le mie parole!” non sono le parole di Ezechiele.
Egli è solo lo strumento, la bocca, il portavoce!
Ancora più significativo è il racconto della vocazione di Geremia (Ger1,4-19).
Paolo, quando afferma che è stato “scelto per il vangelo di Dio” si riferisce, senza dubbio, al testo che
racconta la vocazione di Geremia, che si ripete in Paolo.
Dio “conosce” Geremia prima di essere formato nel grembo materno. È Dio che lo “consacra”, che
lo “costituisce” profeta.
Il verbo “consacrare” significa “separare” dal mondo profano, togliere dalle circostanze considerate
“normali” per una persona, per destinarla ad un ministero profetico.
“Consacrare” comprende due movimenti: “separare da” e “destinare a”.
Nella Lettera agli Ebrei, quando si parla del sommo sacerdote che è “preso fra gli uomini” non è
perché possa vivere una vita tranquilla, ma perché sia “costituito per il bene degli uomini nelle cose che
riguardano Dio” (Eb 5,1).
 Il termine “parrhesia” è usato negli Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli), ma la sua origine è nella letteratura
greca, specialmente in Euripide. È composto da due parole che letteralmente significano “tutta la parola”. Parrhesia
dunque significa una decisione coraggiosa di dire “tutto”, “tutta la verità”, senza ritenere o nascondere niente. Ha
diverse traduzioni. Ma solamente tutte insieme danno il vero significato della parola parrhesia: intrepidezza, ardimento,
fermezza, audacia, valore, coraggio, fiducia, sicurezza, passione, ardore, fervore (cf At 4,13; 4,29; 4,31; 9,27;13,46;
14,3; 19,8; 26,26; 28,31).
7 Doroty Mae Stang, suora statunitense, brasiliana di adozione, della Congregazione delle suore di Notre Dame di
Namur, è arrivata nel 1982 in Brasile nella Prelazia di Xingu, è morta assassinata il 12 febbraio 2005 a 73 anni di età
nella città di Anapu, a 140 Km da Altamira. Lottava contro i progetti di colonizzazione che non favorivano il rispetto
della foresta e dei suoi abitanti, per questo difendeva anche le famiglie degli agricoltori minacciati dai “pistoleros” e dai
tagliatori di legname della foresta.
 La reazione di Geremia, alla chiamata del Signore, è molto umana: “io non so parlare, perché sono
giovane!”(Ger 1,6). Il Signore però risponde solo con un comando, un mandato: “non dire sono
giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò” (v. 7).
Dio conosce il futuro del suo profeta, prevede le angustie e le persecuzioni che soffrirà a causa del
suo mandato, per questo aggiunge: “Non temerli, perché io sono con te per proteggerti” (v. 8).
Dio non abbandonerà mai il suo profeta!.
La storia di Paolo sarà simile a quella del profeta Geremia.
Soffrirà molto per la missione per la quale Dio l’ha “afferrato” e, quando in Macedonia, viene
accusato di essere un bestemmiatore, da Dio riceve la stessa promessa di Geremia,: “E una notte in
visione il Signore disse a Paolo: Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te
e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città (At 18,9-10).
“Io sto con te!” L’apostolo non vive separato dal mondo per rimanere solo.
Per l’apostolo non si tratta di rinunciare a tutto quello che il mondo offre!
L’amore è più grande! Vince!
Dio non promette di togliere tutti gli ostacoli, di risolvere tutti i problemi, di facilitare il cammino.
Dio dice solo: “Io sarò con te”. Questa promessa del Signore attraversa tutta la Bibbia.8
Quando il Signore sceglie qualcuno per una missione speciale, farà sempre questa promessa.
In ogni circostanza la persona chiamata potrà contare sulla presenza e la vicinanza del Signore.
Mosè reclama: “Chi sono io per andare dal faraone…?
Dio risponde semplicemente: “Io sarò con te” (Es 3,11-12).
Gli succede Giosuè che riceve dal Signore la stessa promessa:
“Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada” (Gs 1,9).
Nel Nuovo Testamento la presenza di Dio fra noi raggiunge il suo punto culminante in Gesù:
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14)9
Il Vangelo di Matteo cita il profeta Isaia per annunciare la nascita di Gesù: “Ecco, la vergine
concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23; Is 7,14).
È proprio Matteo che fornisce la traduzione della parola Emmanuele: “Dio sta con noi”.
Nell’ultimo versetto, sempre del Vangelo di Matteo, Gesù afferma:
“io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Nel Vangelo di Luca, l’angelo Gabriele si rivolge a Maria con questo saluto:
“Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te” (Lc 1,28).
Con il sì di Maria la presenza di Dio è diventata reale, tangibile, visibile. “egli è in mezzo a noi”.
Paolo, “chiamato per il vangelo di Dio” ci fornisce una relazione della sua vita di “servo di Cristo Gesù
chiamato per essere apostolo”: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro:
molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo
di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe,
una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle
onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai
pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e
travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio
assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 23-28).
La chiave per capire come un uomo sia capace di accettare tante contrarietà e sofferenze senza
scoraggiarsi, senza perdere l’entusiasmo, senza spegnere l’ardore, senza raffreddare la passione, è
solo questa, e non può essere che la promessa del Signore: “Non aver paura, ma continua a parlare e
non tacere, perché io sono con te…” (At 18,9-10).
Itaici (Indaiatuba) SP 5 aprile 2008
Tratto dal massaggio del vescovo di Xingu ERWIN KRÄUTLER C.PP.S
Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile a Itaici (Indaiatuba)SP 46ª Assemblea Generale 2-11 aprile 2008
 Ecco alcune citazioni dell’ Antico Testamento dove Dio fa questa promessa:
Gn 24,26; Dt. 4,7; Es 3,1-6; Ez 48,35; Gdc 6,1-24; se vuoi puoi fare una ricerca personale più approfondita
9 “Carne” designa l’umanità. Il Verbo si è rivestito di tutta la nostra umanità con tutta la sua debolezza e fragilità,
inclusa anche la morte (cf Fil 2,6-8).
In greco la parola “abitare” ricorda la Tenda simbolo della presenza di Dio nell’Esodo.
Nel Verbo, l’Unigenito del Padre, risiede la presenza di Dio “io sono colui che sono” (Es 3,14), è “l’Emmanuele”, il
“Dio con noi” e nello stesso tempo è “ Yehoshua” “Dio salva”, Dio libera”.